martedì 26 marzo 2013

Robert Doisneau, manutentore

Robert Doisneau, L'automobile rotta, 1960
Sono in tournée in Francia con le mie due valenti tecniche, Elena e Silvia. In questo momento siamo in Alsazia. Temperatura polare, cielo da pianura padana. Per fortuna ci hanno messo a dormire, vicino a Strasburgo, in una casa tradizionale, cioè una cosa che assomiglia furiosamente a una casa Playmobil, con meno plastica e più legno. C'è una bellissima stufa a legna in ceramica verde, grande come un piccolo armadio, e la casa è oltretutto arredata con gusto.
Nella camera dove dormiamo Elena e io ci sono dei libri di fotografia e ieri sera ne ho sfogliati due di Doisneau. Grande fotografo, non c'è che dire. Però guardando quelle foto mi sono fatto due domande: 1) le avrei apprezzate allo stesso modo se non avessi saputo che erano di Doisneau? 2) Qual'era la parte di piacere che mi veniva dal fatto che si trattava di foto scattate una sessantina d'anni fa?
La risposta alla seconda domanda è relativamente semplice: quei bambini che giocani con dei pezzi di legno, quegli altri che fanno un girotondo su una piazza di paese, quelle massaie sorridenti con dei vestitini a fiori, quelle facce contadine o operaie oggi non ci sono più. E non credo che quando qualcuno guarderà, nel 2070, delle foto scattate oggi potrà avere lo stesso tipo di reazione.
La prima domanda è più intrigante. Se alcune foto sono chiaramente volute e pensate, altre sono scatti rapidi e istintivi. Ci sono dei piedi tagliati, qualche inquadratura discutibile, qualche dettaglio fuori posto, tutte cose che, se le vedessi su una mia foto, me la farebbero scartare. Eppure sono foto meravigliose, vive, di una semplicità estrema. L'impressione, guardandole, è che il fotografo non avesse alcun ego, non cercasse di difendere alcuna poetica, alcun modo di fotografare. L'impressione è che fosse solo lui, con tutto sé stesso, senza mediazioni, né inutili riflessioni. Se non fosse per la qualità dell'esposizione e della stampa, potrebbero quasi sembrare foto amatoriali. Alcune — poche — sono “ad effetto”, nel senso che hanno saputo cogliere un momento buffo, o sghembo, o drammatico. Ma la maggior parte sono così normali da essere disarmanti. Semplici scatti di vita quotidiana, scatti senza pretese, che sembrano essere stati fatti più per ricordarsi di qualcosa che per documentare qualcosa. Scatti, soprattutto, di profonda e vera modestia. Scatti ammirevoli.
Un paio di giorni fa il mio amico Alessandro ha pubblicato un post su Terry Richardson (qui), che io ho commentato in maniera un po' lapidaria, scrivendo che “le foto di Terry Richardson sono insignificanti puzzette”. Lapidario, ma elegante, come sempre...
Sarà anche facile contrapporre l'umanità di un Robert Doisneau al vacuo glamour di un Terry Richardson, ma mi sembra comunque importante farlo, perché ci permette di parlare di fotografia allargando il discorso a qualcosa di più importante, cioè al nostro modo, quello di ognuno di noi, di essere uomini e donne su questa Terra. Inevitabilmente mi torna in mente una citazione del grande Kurt Vonnegut, che diceva che “un difetto della natura umana è che tutti vogliono costruire e nessuno vuole occuparsi della manutenzione”. Doisneau si occupava proprio di quello, della manutenzione, della cosa che più manca al mondo. Sono anni che cerco di fare un teatro della manutenzione e che gli spettacoli e i film e i libri e le musiche che mi piacciono di più sono anche loro fatti per la manutenzione del mondo. Trovo che ormai, con la libertà assoluta che tutti accettiamo di concedere all'artista che crea qualcosa, quello che ci troviamo poi sotto gli occhi o nelle orecchie sia molto spesso più l'artista che la sua creatura. L'artista con le sue pippe mentali, le sue arzigogolate quanto fatue spiegazioni, la sua arroganza e la sua condiscendenza verso chi non lo apprezza. Ormai il mondo dell'arte, di cui la fotografia fa parte, è una continua e folle corsa verso la novità a tutti i costi, è un mondo autoreferenziale nel quale l'abilità a vendere è diventata molto più importante dell'abilità a fare. Non ho cifre e statistiche da paragonare, ma sono sicuro che mai nella storia del mondo ci siano stati tanti artisti quanti ce ne sono oggi, anche se a gran parte di loro mi guardo bene dall'attribuire il titolo di artista.
C'è, nelle foto di Doisneau, una manualità straordinaria. Non parlo di manualità in senso nostalgico, non parlo di artigianato come opposto a tecniche più elaborate: anche qualcuno che lavora al computer può avere una sua manualità. Parlo di un approccio all'arte nel quale lo strumento usato, che si tratti di un pennello, di una penna, di un martello, di una macchina fotografica o di una tavola grafica, resta uno strumento, non sovrasta il risultato. Parlo soprattutto di artisti che fanno ciò che fanno per essere utili, per servire a qualcosa e a qualcuno, per aiutarci, ognuno di noi, a capire meglio il mondo e la nostra condizione umana. Credo che l'arte che si abbassi a diventare qualcosa di meno di questo sia non solo inutile, ma deleteria, in quanto oggettivamente celebrativa di un sistema mercantile basato unicamente sul profitto e la speculazione.
Doisneau ha detto: “Quello che io cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo può esistere”. Se questa frase vi sembra sdolcinata, allora correte pure a comprarvi un libro di Terry Richardson, andate a vedere una mostra di Jeff Koons, leggete un libro di Michel Houellebecq, guardatevi un film di Quentin Tarantino, ascoltatevi l'integrale di Madonna.
Io vado a farmi un caffé.