Robert Doisneau, L'automobile rotta, 1960
Sono in tournée in Francia con le mie
due valenti tecniche, Elena e Silvia. In questo momento siamo in
Alsazia. Temperatura polare, cielo da pianura padana. Per fortuna ci
hanno messo a dormire, vicino a Strasburgo, in una casa tradizionale,
cioè una cosa che assomiglia furiosamente a una casa Playmobil, con
meno plastica e più legno. C'è una bellissima stufa a legna in
ceramica verde, grande come un piccolo armadio, e la casa è
oltretutto arredata con gusto.
Nella camera dove dormiamo Elena e io
ci sono dei libri di fotografia e ieri sera ne ho sfogliati due di
Doisneau. Grande fotografo, non c'è che dire. Però guardando quelle
foto mi sono fatto due domande: 1) le avrei apprezzate allo stesso
modo se non avessi saputo che erano di Doisneau? 2) Qual'era la parte
di piacere che mi veniva dal fatto che si trattava di foto scattate
una sessantina d'anni fa?
La risposta alla seconda domanda è
relativamente semplice: quei bambini che giocani con dei pezzi di
legno, quegli altri che fanno un girotondo su una piazza di paese,
quelle massaie sorridenti con dei vestitini a fiori, quelle facce
contadine o operaie oggi non ci sono più. E non credo che quando
qualcuno guarderà, nel 2070, delle foto scattate oggi potrà avere
lo stesso tipo di reazione.
La prima domanda è più intrigante. Se
alcune foto sono chiaramente volute e pensate, altre sono scatti
rapidi e istintivi. Ci sono dei piedi tagliati, qualche inquadratura
discutibile, qualche dettaglio fuori posto, tutte cose che, se le
vedessi su una mia foto, me la farebbero scartare. Eppure sono foto
meravigliose, vive, di una semplicità estrema. L'impressione,
guardandole, è che il fotografo non avesse alcun ego, non cercasse
di difendere alcuna poetica, alcun modo di fotografare. L'impressione
è che fosse solo lui, con tutto sé stesso, senza mediazioni, né
inutili riflessioni. Se non fosse per la qualità dell'esposizione e
della stampa, potrebbero quasi sembrare foto amatoriali.
Alcune — poche — sono “ad effetto”, nel senso
che hanno saputo cogliere un momento buffo, o sghembo, o drammatico.
Ma la maggior parte sono così normali da essere disarmanti. Semplici
scatti di vita quotidiana, scatti senza pretese, che sembrano essere
stati fatti più per ricordarsi di qualcosa che per documentare
qualcosa. Scatti, soprattutto, di profonda e vera modestia. Scatti
ammirevoli.
Un paio di giorni fa il mio amico
Alessandro ha pubblicato un post su Terry Richardson (qui),
che io ho commentato in maniera un po' lapidaria, scrivendo che “le
foto di Terry Richardson sono insignificanti puzzette”. Lapidario,
ma elegante, come sempre...
Sarà anche facile contrapporre
l'umanità di un Robert Doisneau al vacuo glamour
di un Terry Richardson, ma mi sembra comunque importante farlo,
perché ci permette di parlare di fotografia allargando il discorso a
qualcosa di più importante, cioè al nostro modo, quello di ognuno
di noi, di essere uomini e donne su questa Terra. Inevitabilmente mi
torna in mente una citazione del grande Kurt Vonnegut, che diceva che
“un difetto della natura umana è che tutti vogliono
costruire e nessuno vuole occuparsi della manutenzione”.
Doisneau si occupava proprio di quello, della manutenzione, della
cosa che più manca al mondo. Sono anni che cerco di fare un teatro
della manutenzione e che gli spettacoli e i film e i libri e le
musiche che mi piacciono di più sono anche loro fatti per la
manutenzione del mondo. Trovo che ormai, con la libertà assoluta che
tutti accettiamo di concedere all'artista che crea qualcosa, quello
che ci troviamo poi sotto gli occhi o nelle orecchie sia molto spesso
più l'artista che la sua creatura. L'artista con le sue pippe
mentali, le sue arzigogolate quanto fatue spiegazioni, la sua
arroganza e la sua condiscendenza verso chi non lo apprezza. Ormai il
mondo dell'arte, di cui la fotografia fa parte, è una continua e
folle corsa verso la novità a tutti i costi, è un mondo
autoreferenziale nel quale l'abilità a vendere è diventata molto
più importante dell'abilità a fare. Non ho cifre e statistiche da
paragonare, ma sono sicuro che mai nella storia del mondo ci siano
stati tanti artisti quanti ce ne sono oggi, anche se a gran parte di
loro mi guardo bene dall'attribuire il titolo di artista.
C'è, nelle foto di
Doisneau, una manualità straordinaria. Non parlo di manualità in
senso nostalgico, non parlo di artigianato come opposto a tecniche
più elaborate: anche qualcuno che lavora al computer può avere una
sua manualità. Parlo di un approccio all'arte nel quale lo strumento
usato, che si tratti di un pennello, di una penna, di un martello, di
una macchina fotografica o di una tavola grafica, resta uno
strumento, non sovrasta il risultato. Parlo soprattutto di artisti
che fanno ciò che fanno per essere utili, per servire a qualcosa e a
qualcuno, per aiutarci, ognuno di noi, a capire meglio il mondo e la
nostra condizione umana. Credo che l'arte che si abbassi a diventare
qualcosa di meno di questo sia non solo inutile, ma deleteria, in
quanto oggettivamente celebrativa di un sistema mercantile basato
unicamente sul profitto e la speculazione.
Doisneau
ha detto: “Quello che io cercavo di mostrare era un mondo
dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili,
dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto
erano come una prova che questo mondo può esistere”. Se questa
frase vi sembra sdolcinata, allora correte pure a comprarvi un libro
di Terry Richardson, andate a vedere una mostra di Jeff Koons,
leggete un libro di Michel Houellebecq, guardatevi un film di Quentin
Tarantino, ascoltatevi l'integrale di Madonna.
Io vado a farmi un caffé.