domenica 17 marzo 2013

Ricordi beat

Bob Dylan e Allen Ginsberg sulla tomba di Jack Kerouac
 
Ieri sera ho visto un vecchio e bel documentario su Jack Kerouac e i poeti della beat generation. A più riprese si sentiva la voce fuori campo di Kerouac che leggeva grandi stralci di Sulla strada e del Dottor Sax, come lunghe melopee visionarie. Si vedevano Allen Ginsberg, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, Gary Snyder, Neal Cassady. Guardando quelle immagini e sentendo quelle parole mi sono tornati alla mente gli anni della mia adolescenza.
Tutto incominciò con il mio amico Paolo, col quale ci ritrovavamo ogni estate a Bellaria. Paolo era più vecchio di me, più navigato, più colto. Un pomeriggio piovoso dell'estate 1964 — avevo 14 anni — mi fece ascoltare il disco che avrebbe cambiato la mia vita. Si trattava di The freewheelin' Bob Dylan, quello con Blowin' in the wind, A hard rain's a-gonna fall, Masters of war. Il disco era rimasto un intero pomeriggio sul lunotto della Fiat 600 di suo padre parcheggiata in pieno sole e si era ondulato come una pizza posata su un terreno sassoso. La voce nasale di Dylan e il suo fraseggio totalmente incomprensibile erano quindi arricchiti da accelerazioni e rallentamenti dovuti a quell'ondulazione, che ne facevano qualcosa di ancora più esoterico. Fu una folgorazione.
Qualche mese dopo, a Milano, mi comprai Another side of Bob Dylan (All I really want to do, It ain't me,babe, Chimes of freedom, ecc.). Sul retro di quell'album c'era un lungo testo di Dylan, in forma poetica, nel quale ad un certo punto appariva il nome di Allen Ginsberg. Andai in libreria e trovai un'antologia delle sue poesie, tradotte da Fernanda Piovano sotto il titolo Juke-box all'idrogeno. C'era Urlo, certamente la più importante, e c'era A Supermarket in California, che incominciava con “che pensieri ho su di te, Walt Whitman”. Me ne tornai in libreria (la Remainders books, nella galleria Vitorio Emanuele, a Milano) e trovai un libretto a poco prezzo, che conteneva degli stralci di Foglie d'erba.
È difficile immaginare oggi quanto quelle scoperte potessero sembrare magiche a un ragazzino di un quartiere periferico (la Comasina) degli anni '60. Il mio piccolo mondo fatto di formica e moplen, di Fiat 500, di registratori Geloso e di frullatori Girmi, improvvisamente si aprì su improbabili orizzonti. Orizzonti lontani, sì, ma che quelle letture rendevano possibili, pur sprofondandomi ancora di più in una solitudine sempre più pesante. Quante volte mi sono messo alla mia scrivania facendo finta di fare i compiti e rileggendo invece “Ho visto le migliori menti della mia generazione / distrutte dalla pazzia, affamate, nude isteriche / trascinarsi per strade di negri all'alba in cerca di droga rabbiosa / hipster dal capo d'angelo ardenti per l'antico contatto celeste / con la dinamo stellata nel macchinario della notte, / che in miseria e stracci e occhi infossati / stavano su partiti a fumare nel buio soprannaturale di soffitte a acqua / fredda fluttuando nelle cime delle città, contemplando jazz / che mostravano il cervello al Cielo sotto la Elevated / e vedevano angeli Maomettani illuminati barcollanti su tetti di casermette / che si accucciavano in mutande in stanze non sbarbate bruciando denaro nella spazzatura / e ascoltando il Terrore attraverso il muro”!...
Oppure: “Canto me stesso, e celebro me stesso, / E ciò che assumo voi dovete assumere / Perché ogni atomo che mi appartiene appartiene anche a voi. / Io ozio, ed esorto la mia anima, / Mi chino e indugio ad osservare un filo d'erba estivo”.
Avevo forse diciassette anni quando un pomeriggio, sempre in galleria, mi sono trovato davanti Allen Ginsberg che camminava, a testa bassa. Il cuore mi è saltato in gola e sono entrato in fibrillazione come se avessi visto la Madonna. Mi sono detto “devo parlargli, devo dirgli qualcosa!” e mi sono messo a seguirlo, tremante, senza sapere cosa fare, non osando stargli troppo addosso, ma con la paura di lasciarmelo scappare. Abbiamo attraversato piazza della Scala, lui davanti, sempre a testa bassa, io dietro, sempre in agitazione. Poi lui ha imboccato via Manzoni... ed è sparito. Sono rimasto immobile un istante, incredulo, disperato. Mi sono infilato nel primo portone, quello dove doveva essere entrato, ma era già troppo tardi. Ginsberg era stato solo una visione fugace, un attimo di nirvana, come avrebbe detto lui, dissolto nel nulla.
Sette anni dopo ero a San José, California, a casa di Fred e Julie Iltis, due amici che avevo conosciuto a Vancouver. Fred era un cecoslovacco la cui famiglia era emigrata negli Stati Uniti poco prima dell'invasione nazista. Insegnava entomologia all'università, ma era anche un meraviglioso fotografo, amico di Otto Hagel. Gli feci leggere una serie di mie poesie, che avevo scritto in inglese e che erano dei ritratti di persone e di città, raggruppati sotto il titolo Very here and now. Lui le lesse e, senza nemmeno dirmi niente, cercò sulla guida telefonica di San Francisco il numero della City Light Books, la storica libreria di Ferlinghetti, e mi prese un appuntamento col poeta. Per me, incontrare Ferlinghetti era un po' come incontrare... la Madonna, tanto per ripetermi.
Andai a San Francisco. Ferlinghetti abitava in un appartamentino sopra la libreria. Suonai alla porta, ed eccomi lì, seduto a un tavolino scrostato, davanti non solo a Ferlinghetti, ma anche a Ginsberg, che ad un certo punto se ne andò in cucina a preparere una frittata. Mi chiese se ne volessi anch'io, ma come avrei fatto a mandar giù qualcosa quando avevo lo stomaco bloccato come il mare intorno a Cuba durante la crisi dei missili del '62?
Non so quanto durò quell'appuntamento, né cosa ci raccontammo, quei due mostri sacri e io. Lasciai a Ferlinghetti il mio testo e me ne andai via, felice di quei momenti di insperato privilegio.
Ebbi occasione di tornare a San Francisco solo una dozzina d'anni dopo. Chiamai Fred e Julie e andai a San José a trovarli. Con mia grande sorpresa, Fred tirò fuori una busta con su il mio nome e il suo indirizzo. Mi disse che la lettera era arrivata molti anni prima e che, non sapendo dove spedirmela, l'aveva conservata. L'aprii e all'interno trovai un cartoncino di 14 centimetri x 8, che ho qui, accanto a me, mentre scrivo. Sotto il logo della City Light Books, 1562 Grant st., San Francisco 94133, c'era qualche frase scritta al pennarello nero: “11 aprile 75. Caro Schuster, ci ho messo troppo tempo, ma ho voluto leggere una seconda volta e spero non ti dispiacerà se ti dirò che nell'insieme questo è un gruppo molto interessante di ritratti che dovresti mettere in prosa, come una specie di romanzo. O piuttosto in forma di prosa. Ho riletto il primo pezzo immaginandomelo come prosa e mi è sembrato più efficace. Grazie di avermeli fatti leggere, anche se non potremo pubblicarli. E scusa se ci ho messo tanto tempo. Tuo, Lawrence Ferlinghetti”.
Ieri sera, guardando il documentario, quei lontani ricordi sono risaliti alla superficie e ho avuto l'impressione di ritrovarne il sapore, i colori e gli odori. E mi chiedo se sarebbe ancora possibile per un ragazzo di oggi, con internet, le email, i cellulari e tutto il resto, vivere qualcosa di altrettanto intenso e inatteso, qualcosa che potrebbe dargli la stessa mia impressione di allora, quella dirompente e luminosa impressione di sentirsi improvvisamente meno solo in un mondo dove qualcosa era dopo tutto possibile.