lunedì 27 agosto 2018

Piccola goduria matematica

Mario Livio

Nonostante in matematica sia sempre stato una capra, amo la matematica. Per questo ogni tanto mi leggo un libro di storia o di epistomologia matematica, sperando di capirci qualcosa in più.
In questo momento ne sto leggendo uno di Mario Livio, astronomo israeolo-americano nato in Romania. Ne avevo già letti tre suoi, uno su Évariste Galois, uno sulla sezione aurea e uno sulle cantonate scientifiche. 
Évariste Galois era un matematico francese, morto in duello a 21 anni dopo avere passato tutta la notte a scrivere quanto più poteva delle sue scoperte matematiche. La sezione aurea, detta anche costante di Fidia, è il numero irrazionale 1,6180339887..., che si ottiene effettuando il rapporto fra due lunghezze disuguali delle quali la maggiore a  è medio proporzionale tra la minore b e la somma delle due (a + b). Di cantonate scientifiche ce ne sono state talmente tante che lo stesso Livio si limita a esaminare alcuni incredibili abbagli di un piccolo numero di scienziati veramente grandi e capirne le implicazioni.
Il libro che sto leggendo, perentoriamente intitolato in Italia Dio è matematico, mentre il titolo originale è Is God a Mathematician? con un punto di domanda che cambia tutto, promette già bene nonostante sia arrivato solo a pagina 82.
Nel secondo capitolo Livio parla della concettura di Goldbach, che già conoscevo, ma anche della congettura di Catalan, di cui non avevo mai sentito parlare. La congettura di Goldbach, che appare in una lettera del matematico prussiano, nato a Könisberg, del 7 giugno 1742, sostiene semplicemente che ogni numero pari superiore a 2 può essere espresso come somma di due numeri primi. È solo nel 2013 che il peruviano Harald Helfgott (sì, ci sono dei peruviani ce si chiamano Helfgott, un po' come ci sono degli italiani che si chiamano Schuster) ha dimostrato l'esattezza di quella congettura.
La congettura di Catalan, matematico belga dell'800, sostiene invece che l'8 e il 9, che possono essere espressi rispettivamente come 23 e 32, sono gli unici due numeri con queste caratteristiche che si susseguono tra tutte le potenze dei numeri interi. Livio racconta che già nel 1342 il matematico Levi Ben Gerson aveva dimostrato che 8 e 9 sono le uniche due potenze di 2 e 3 la cui differenza sia 1, ma ci sono voluti 150 anni prima che il matematico rumeno Preda Mihăilescu riuscisse a confermare la congettura di Catalan.
Mi dirai me che tte frega di sapere una cosa del genere? Non lo so nemmeno io. Ma mi piace.
La matematica mi piace per lo stesso motivo per cui mi piace lo sport — parlo naturalmente degli sport nei quali se salti più in alto, lanci qualcosa più lontano o vai più veloce di un altro vinci, non certo di quelli nei quali un giurato finlandese o una giurata coreana decidono con un voto che ti sei tuffato o hai fatto un esercizio ginnico meglio di un altro: quelli non li considero nemmeno sport, sono cose più vicine ai premi letterari o ai reality show tipo Masterchef o X Factor, che mi interessano quanto i peti verbali di Matteo Salvini.
Amo la matematica, anche se, ripeto, sono una capra, per il suo aspetto poetico, perché mi fa sognare. E credo che se a scuola un insegnante (almeno uno!) mi avesse parlato, che so, della sequenza di Fibonacci, magari mi sarei innamorato abbastanza presto di quella disciplina per buttarmici dentro con l'entusiasmo che merita. Invece no: a scuola mi hanno insegnato solo a sommare delle mele, a calcolare in quanto tempo una macchina che va a 90 chilometri all'ora può fare il viaggio Milano-Bologna e a cimentarmi con astruse equazioni piene di x2 e di y. Per questo sono diventato marionettista. Il che è sempre meglio che diventare ragioniere o deputato 5 stelle, siamo d'accordo. Però, almeno col senno di poi, mi sarebbe piaciuto un sacco passare la vita in compagnia dei numeri, capire Gauss e Riemann, aprezzare fino in fondo Euclide e Poincaré, Eulero e Leibniz, Pitagora e Newton. Ma vabbè…
Anche leggere Mario Livio non è male. Tant'è che mi viene voglia di consigliarti tutti i suoi libri usciti in Italia:
  • Dio è un matematico, Rizzoli, 2009 
  • L'equazione impossibile, 2005, Rizzoli
  •  La sezione aurea, 2004 Ed. Hera 
  • La bellezza imperfetta del cosmo, UTET 2003 
  • La sezione aurea - Storia di un numero e di un mistero che dura da tremila anni, 2003, Rizzoli

venerdì 24 agosto 2018

Un bel museo



Noi curiosi, a forza di bazzicare qua e là lasciandoci portare dalla semplice voglia di saperne un po' di più su cose anche triviali, certe volte facciamo delle scoperte interessanti. E non importa se quelle scoperte sono già conosciute da tempo da molti altri, ciò che conta è la gioia che ci dà scoprirle in modo quasi casuale.
A partire da una frase in un documentario che non c'entrava niente, ultimamente mi sono interessato a Van Eick, il pittore fiammingo al quale il Vasari attribuì l'invenzione della pittuira a olio, che invece era già usata in Afghanistan 7 secoli prima. Ovviamente il Vasari non sapeva niente dell'Afghanistan, anche perché ai suoi tempi quella parte del mondo faceva parte dell'Impero Timuride fondato da Tamerlano ed è solo ai primi dell'800 che verrà usato il nome Afghanistan.
Van Eyck era di Maaseik, un paesino oggi al confine tra Belgio e Olanda, ma passò gli ultimi sedici anni della sua vita a Bruges, allora incontestata capitale europea dei tessuti di lusso. Prima di andarsene a Bruges era stato pittore di corte di Giovanni di Baviera, all'Aia, poi aveva svolto la stessa mansione a Digione, presso Filippo il Buono di Borgogna.
Nessuno prima di lui aveva mai dipinto tessuti e drappeggi con altrettanta maestria, anche perché nessuno in Occidente aveva mai usato la pittura a olio. Ma oltre a tessuti e drappeggi, Van Eyck dipinse in maniera strepitosa anche alcune armature, come quella di San Giorgio nella Madonna del canonico van der Paele. Ed è questo che mi ha portato a fare qualche ricerca sulle armature del 3 e '400, alcune delle quali erano veri capolavori di maestria artigianale. È così che ho scoperto l'esistenza di un museo fiorentino di cui non avevo mai sentito parlare, il Museo Stibbert.
Frederick Stibbert era uno che di mestiere faceva il ricco e di hobby il massone e il garibaldino. La sua fortuna l'aveva ereditata dal padre, che di mestiere aveva fatto il colonnello delle Coldstream Guards, quei militari visibili ancora oggi nel Regno Unito, che portano una giubba rossa e un monumentale colbacco di 47 centimentri in pelo di orso bruno canadese. Mi dirai che anche le Granadier Guards, le Scots Guards, le Irish Guards e le Welsh Guards portano lo stesso colbacco e la stessa giubba rossa, ma così facendo dimostrerai solo la tua ignoranza, visto che è noto a tutti che mentre i bottoni della giubba delle Coldstream Guards sono accoppiati due a due, quelli delle Granadier Guards sono singoli, quelli delle Scots Guards sono accoppiati per 3, quelli delle Irish Guards per 4 e quelli delle Welsh Guards per 5. Allora taci e continua a leggere.
Il padre di Frederick la sua fortuna l'aveva ereditata da suo padre, Giles Stibbert, che di mestiere aveva fatto il generale comandante puzzone della Compagnia delle Indie e il Governatore superpuzzone del Bengala, che erano cose che permettevano di arricchirsi in maniera spudorata senza nemmeno sforzarsi troppo. Lui però si era sforzato lo stesso.
Frederick era nato a Firenze, tant'è che in Italia lo chiamavano Federigo. Suo padre si chiamava Thomas e aveva finito per sposare la sua governante, tale Giulia Cafaggi, di Stia, alla quale aveva già fatto un figlio e due figlie fuori dal matrimonio. Poi l'aveva sposata. Poi era morto. Ed è così che Frederick si era trovato ricco. Molto ricco.
Alla morte del marito, Giulia aveva comprato una villa sulla collina di Montughi, un paio di chilometri a nord del Duomo e vi si era trasferita con i figli. È lì che Frederick riunirà in una cinquantina d'anni un'impressionante collezione di artefatti, tra i quali centinaia di armature europee, mediorientali, indiane e giapponesi. Oggi quella villa, che lo stesso Frederick ampliò, è un museo. Ed è molto bello. La collezione di armature giapponesi in particolare, seconda, al di fuori del Giappone, solo a quella del Metropolitan di New York, vale la visita.
Lo so, uno di solito non va a Firenze per vedere delle armature giapponesi, ma io ti consiglio lo stesso di farlo. L'ho fatto stamattina e ne sono uscito felice.
Aggiungo che oltre alle armature ci sono migliaia di altri oggetti, quadri, porcellane, mobili e quant'altro, di grande interesse, senza parlare dello splendido giardino che è aperto gratuitamente tutti i giorni fino alle 19.
Le visite sono obbligatoriamente guidate, ma senza sovrapprezzo, e la guida che è capitata a me era disponibilissima a rispondere alle mie domande. L'indirizzo è via Federigo Stibbert 26, 50134 Firenze; il telefono è lo 055475520. Non ci sono problemi per parcheggiare in via Stibbert.
Un buon caffè me lo sono meritato sì o no? Io dico di sì. Però prima di andarmelo a preparare ti metto qualche altra foto.












martedì 14 agosto 2018

Il mattino dopo



...e poi ci sono concerti come quello di Steve Coleman, ieri sera, al Teatro delle rocce di Gavorrano, dove la musica è così intransigente da finire col sembrare completamente chiusa su se stessa e tu, spettatore, ti senti quasi un intruso, uno che è lì ma che se non ci fosse sarebbe lo stesso, sul palco succederebbero le stesse cose. E te ne vieni via perplesso, chiedendoti il perché di quegli applausi insistenti e dicendoti che vabbè, il bello del jazz è anche quello, c'è posto per tutti e va davvero bene così. E guidi a notte alta per un'ora e mezza lungo piccole provinciali grossetane e senesi più sinuose del corpo di Betty Boop, con l'eterno timore di trovarti improvvisamente davanti un cinghiale sbucato dal nulla, come ti è già successo un paio di volte la settimana scorsa obbligandoti a sterzare all'ultimo secondo smadonnando come un portuale livornese. D'accordo, non erano scrofe, erano chinghialini bimbi, ma la madre non doveva essere lontana e una scrofa presa in pieno anche solo a settanta all'ora, lo sai, non sarebbe cosa buona, farebbe magari la gioia del tuo carrozziere, è più che probabile, ma certamente non quella della tua piccola utilitaria coreana, né tantomento la tua. E allora guidi aggrappato al volante con gli occhi sbarrati e ti senti anche un po' ridicolo, ma per fortuna stanotte in mezzo alla carreggiata finisci col vedere solo una civetta (che il mattino dopo ti chiedi ancora cosa ci facesse lì, immobile come una statua della Madonna di quelle che cambiano colore a seconda del tempo che fa), un gattino di pochi mesi, un gatto adulto, una volpe e qualche chilometro più in là altre due volpi scodinzolanti. E arrivi a casa dopo l'una e mezza, apri il frigo, ti pappi il resto d'insalata (insalata verde, pomodoro, cetriolo, rapanelli, olive verdi e nere, uovo sodo, mozzarella e semola) e poi ti infili sotto le lenzuola tutto contento che la temperatura sia scesa abbastanza da darti voglia di infilarti sotto le lenzuola invece di sudarcici sopra e riprendi il libro di Davide Enia che è proprio bello e ti parla degli sbarchi a Lampedusa come solo uno che a Lampedusa ci è andato più volte e ha visto coi suoi occhi cosa vuol dire vedere poveri cristi che arrivano dal mare dopo viaggi di mesi fatti di stenti e di violenze, di botte, di galera, di stupri, di orrori indicibili, uno che ha visto coi suoi occhi bambine di dodici tredici anni incinte, usate come cose da mercanti e soldati e poliziotti e miliziani, uno che è stato lì a distribuire merendine e tazze di tè ripetendo all'infinito welcome, bienvenue, stringendo i denti per impedire a quel groppone in gola di diventare cascata di lacrime, che non sarebbe cosa da uomo siciliano, da òmo vero, ma nemmeno cosa da uomo qualsiasi, perché in quei casi devi, devi!, tenere buono, perché il dolore vero non è il tuo, ma il loro, solo uno così può raccontarti quelle cose e tu ti dici che la lettura di quel libro dovrebbe essere obbligatoria per tutti i ministri cialtroni e per tutti quelli che li hanno votati e leggi, leggi e la cosa strana e bella è che ti rendi conto che quel libro non è uno strappalacrime, lo leggi quasi come un romanzo e ti accorgi che anche il padre di Davide ti appassiona e lo zio col suo cancro e Paola e Melo e il sommozzatore grande come una montagna venuto dal nord e il medico e il becchino e quando finisci per spegnere la luce perché sei davvere stanco, perché ormai le due sono passate da un pezzo, ti rendi conto di sentirti allo stesso tempo vuoto come dopo uno sforzo intenso e pieno come dopo esserti pappato un paio di cannoli freschi freschi, di quelli con le fettine di arancia candita alle due estremità che sanno di Sicilia come un piatto di pizzoccheri sa di Valtellina. E il mattino dopo vieni svegliato prima delle sette da lampi e tuoni che più ne ha più ne metta e che riescono appena per qualche istante a coprire il rumore della pioggia che viene giù a raganella manco fossimo a Calcutta durante il monsone e ti dici che ci siamo, è la fine dell'estate, e ti alzi e ti metti a scivere al computer senza nemmeno esserti preparato il tuo mezzo litro di tè nero, quello che finché non ce l'hai in corpo resti ancora addormentato anche se le dita si muovono, clic, clic, clic, sui tasti neri come se vivessero di vita propria. E il concerto di Steve Coleman è già dimenticato, non avvenuto, e intanto a forza di scrivere ha smesso di piovere e riapri la porta finestra che dà sul balcone e ti godi quel profumo di pioggia che resta nell'aria e ti dici che solo due mesi fa non ne potevi più della pioggia che aveva finito col diventare così deprimente che il sole te lo sognavi di notte, ma non puoi impedirti di pensare a quanti sono quelli che in questo momento stanno attraversando il mare, quante sono quelle che in questo istante vengono stuprate, quanti quelli che stanno annegando e quanti quelli che si stanno coprendo la testa con le braccia arricciandosi a terra per proteggersi dalle bastonate e dai calci, quanti quelli che stanno sognando di partire ma non sanno come fare e ti tornano in mente mille immagini d'Africa, dei momenti che hai vissuto nella polvere di Ouagadougou, Addis Abeba, Niamey, Conakry, Asmara e tutte le altre città, tutte così diverse l'una dall'altra e tutte così piene di donne, bambini, uomini, òmini veri, schiacciati da quella miseria che anni e anni e anni di sfruttamento e colonizzazione e postcolonizzazione e oggi ignoranza profonda come una caverna infinita hanno fermato nel tempo, come una maledizione divina, anche se divina non è mai stata. E ti dici che l'unica cosa che puoi davvero fare per combattere quell'ottusità animale e già che ci sei anche tutto quello che la vita ti ha portato via è cercare di vivere in maniera degna, come hai sempre cercato di fare anche se in maniera sgangherata, incominciando magari per andarti a preparare quel mezzo litro di tè nero che diventa davvero urgente, ché quello almeno non te lo porterà via nessuno.

sabato 11 agosto 2018

La scienza dei boxer


Sono ormai passati quasi 40 anni dal giorno in cui ho buttato in pattumiera il mio ultimo, orrido slip e sono passato ai molto più confortevoli boxer. No, non scrivo questo in seguito a non so quale improvviso desiderio di informarti sui dettagli della mia biancheria intima — ancorché non mi senta di escludere che il soggetto abbia un suo interesse, se non un suo fascino. No, se scrivo questo post è perché, come sono solito fare nei sabati mattina, soprattutto in agosto, poco fa stavo leggendo una delle mie riviste preferite, la nota Human Reproduction, pubblicata dall'Università di Oxford e che, come tutti ben sappiamo, è l'organo ufficiale — anche se forse la parola organo non è la migliore per una rivista che parla di riproduzione, ma forse sì, chi lo sa? — della popolarissima ESHRE, acronimo, per chi l'ignorasse ancora, di quell'European Society of Human Reproduction and Embriology, che, come lo indica il suo nome, si occupa di riproduzione umana e di embriologia.
E siccome la frase precedente è stata così lunga, adesso scusa, ma ho proprio bisogno di almeno una riga di pausa.

Ecco fatto.
Stavo dunque leggendo Human Reproduction, quando l'occhio mi è caduto — si fa per dire — su uno studio intitolato Type of underwear worn and markers of testicular function among men attending a fertility center (Tipi di biancheria intima portati e marcatori di funzione testicolare tra uomini che consultano centri di fertilità). Lo studio è firmato da ben otto ricercatori di Harvard i cui nomi, col caldo fa, sarebbero troppo lunghi da scrivere. La domanda dalla quale gli otto sono partiti è la seguente: il tipo di biancheria intima che uno porta è associata a marcatori di funzione testicolare tra uomini che consultano centri di fertilità?
Bella domanda, che ci siamo tutti fatti più di una volta.
La risposta sintetica alla domanda è la seguente: gli uomini che hanno affermato di portare soprattutto boxer hanno una concentrazione di sperma più alta e un numero più alto [di spermatozoi], nonché livelli più bassi di FSH di quelli che invece no (lo so, la mia traduzione non è proprio elegantissima, ma prova tu a tradurre i risultati di una ricerca americana alle 9 del mattino, a torso nudo sul balcone, mentre il termometro indica già 33° all'ombra). Tra parentesi — si fa anche qui per dire, visto che in questo frangente la parentesi mi pare superflua — l'FSH altro non è che quell'ormone follicolo-stimolante, o follitropina, che una volta arrivato a un'ovaia stimola la progressione verso la maturazione dei follicoli di Graaf, il che è una bella cosa, oppure no, dipende se uno, anzi due, vogliono passare decine di notti insonni a spupazzarsi un pargolo urlante avanti e indietro per il corridoio dell'appartamento.
Ciò che già si sapeva, spiegano gli autori, è che temperature scrotali elevate non favoriscono proprio per niente la funzione testicolare. Sappiamo tutti, o almeno tutti noi maschietti che siamo un giorno passati prima dalla mutanda classica di mamma allo slip e poi dallo slip al boxer, che l'uso di quest'ultimo è una specie di vittoria per i gioielli di famiglia che, non più surriscaldati e compressi da capi di biancheria intima manco fossero limoni di Sorrento, non sentono più il bisogno di liberare succhi sudoriferi puzzolenti che, saranno sì attrattivi per l'odorato canino, ma tendono a causare arrossamenti scrotali, nonché olezzi raramente apprezzati in caso di scambi di acrobazie intime che non sto a descriverti ma che puoi facilmente immaginare. Il problema però è che la letteratura epidemiologica come causa di aumento della temperatura scrotale e variazione della funzione testicolare è inconsistente.
Ecco allora l'importanza di questa ricerca, che ha implicato 656 maschi di coppie che si sono rivolte a un centro della fertilità per ricevere trattamenti contro la sterilità (anche perché il contrario sarebbe stato strano).
I partecipanti alla ricerca avevano in media 35,5 anni (32,0 a 39,3) e un BMI, o indice di massa corporea, di 26,3 (24.4 a 29,9) kg/m2. Circa la metà (53%; n=345) hanno affermato di portare regolarmente dei boxer. Gli uomini che hanno affermato di portare regolarmente dei boxer (questa poco elegante ripetizione non è mia, è degli autori) hanno una concentrazione spermatica più alta del 25% (95% CI = 7, 31%), un numero più alto di spermatozoi del 17% (95% CI = 0, 28%) e livelli di siero FHS più bassi del 14% (95% CI = −27, −1%) rispetto a quelli che hanno affermato di non portare boxer. Una precisione: non che io sappia cosa vogliono dire le cose tra parentesi, ma mi sembravano belle, allora le ho copiate.
I risultati della ricerca, specificano ancora gli autori, implicano che alcuni tipi di biancheria intima maschile (vedi gli orridi slip), compromettono la spermatogenesi e aumentano la secrezione di gonadotropina, il che pare non sia cosa buona in caso di desiderio di riproduzione.
Che dire? Tutto questo è estremamente interessante. Certo, possiamo limitarci a rammaricarci che il babbo di Matteo Salvini non abbia portato slip, magari di una misura inferiore al dovuto, ma vabbè. Per quanto mi riguarda, mo' che la scienza mi ha confermato che quella mia decisione di quasi 40 anni fa è stata saggia, vado a farmi una bella doccia, ché ormai sono passate le 9 e mezzo e qui sul balcone la temperatura continua a salire. Dopodiché un buon caffè non me lo toglie nessuno.