lunedì 25 giugno 2018

Tournée

Ubu e io, anni '80

Ritrovo in mezzo a scartoffie dimenticate un foglio di carta con su scritte a matita le date della mia prima tournée teatrale extraeuropea. Correva l'anno 1986.
20/10 – Surabaya
22/10 – Balikpapan (Borneo)
24/10 – Giacarta
28/10 – Bangkok
31/10 / 2/11 – Saigon (x3)
8/11 – Kuala Lumpur
12/11 – Singapore
17/11 – Rangoon
Avevamo preso un aereo da Parigi a Copenhagen e da lì a Giacarta, dove eravamo rimasti due o tre giorni visitando templi e musei. Poi altro aereo per Surabaya (sì, quella del Surabaya Johnny di Brecht/Weill). Il mio primo giro in rickshaw, la mia prima pagoda, la mia prima moschea. Nessun ricordo dello spettacolo. 
L'indomani, piccolo bimotore verso l'isola del Borneo, con atterraggio su una pista in terra battuta. Montaggio e spettacolo con un'umidità e una temperatura pazzesche, 1° a sud dell'equatore. Dormiamo in tre nella lussuosa Country House del villaggio Elf (o forse Total) e ognuno di noi ha un cameriere a sua disposizione esclusiva. Siesta in amaca, con whisky & soda al risveglio. Cena francese con il capo dell'Elf (o Total) e un ottimo camembert, che mangiato al Borneo fa molto strano, ma non importa. Altro giorno libero, gita in barca a motore lungo un fiume che si infila nella giungla. Alberi pieni di scimmie e di orchidee parassite, coloratissime (le orchidee, non le scimmie). Ogni tanto una capanna, con bambini seminudi che salutano con la mano, tipo Regina Elisabetta. Commetto l'errore di restare forse un'ora a testa nuda e la mia pelata si trasforma in una specie di carta geografica di un arcipelago di isole rosse che diventereanno marroni già dall'indomani.  
Di nuovo a Giacarta. Altri due giorni liberi. Altro spettacolo in una sala senza aria condizionata, da morire. Altro giorno libero, musei, mercati, poi via verso Bangkok.
Anche qui due giorni liberi. Pagode, templi, mercato sull'acqua, aperitivo all'hotel Oriental, dove le suite hanno nomi di scrittori che ci hanno abitato (Conrad, Hugo, Greene, Kipling, ecc.). Inquinamento, rumore, folla, ogni genere e tipo di prodotti taroccati. Mi compro una camicia e il venditore mi chiede che nome di marca deve cucire nel colletto, oppure sul taschino. Grazie, va bene anche senza.
1l 29, aereo per Saigon, o Ho-Chi-Minh, come preferisci, per un'intera settimana. Incredibile balletto di decine, forse centinaia di migliaia di biciclette (rimpiazzate qualche anno dopo da motorini cinesi), poche macchine, foto di Juliette Gréco sul muro del ristorante dell'albergo, polizia dappertutto, rickshaw, venditori ambulanti, bonzi, mercati affollatissimi, angoscia di vecchio militante contro la guerra in Vietnam. Gita organizzata al mare di Vung Tau, ragazzi che cercano di parlarci ma che vengono subito allontanati dai nostri “accompagnatori” (in realtà commissari politici), gigantesca sbronza di vodka. Incomincio a chiedermi se sono un marionettista o una rock-star. In aeroporto facciamo il check-in al banco dell'Air France, poi andiamo a sederci in sala d'aspetto. Arriva uno dell'Air France, ci chiede i biglietti, c'è un problema?, non si preoccupi, torno subito, e complimenti per lo spettacolo di ieri sera. Torna, ci ridà i biglietti. Al momento dell'imbarco verifico, scopro che i biglietti sono cambiati, viaggeremo in prima classe. Urca. E merci, Air France.
Kuala Lumpur, Malesia. Grattacieli in costruzione dappertutto, spettacolo e poi cena con il Viceré (manco sapevo che avessero un re, in Malesia). Malesi, cinesi, indiani, incroci, meticciamenti, le donne più belle del mondo, torcicollo assicurato. Lunga serata, da night-club a night-club con la limousine del Principe Abdul, accolti ovunque come VIP. Donne sempre più belle, Abdul che mi dice "Massimo, sèrviti pure...", ma non ce la faccio proprio a farmi pagare una ragazza da un principe malese. Regent Hotel, con il letto più largo in cui abbia mai dormito. Risveglio, doccia, poi giù in accappatoio fino alla piscina del decimo piano, qualche tuffo, prima colazione ai bordi della piscina, per l'uovo alla coque quattro minuti, grazie. Visita al museo del durian, che è il frutto più puzzolente del mondo — tipo formaggio iperstagionato in barili di ammoniaca, ma peggio —, però i malesi lo adorano.
Tre o quattro giorni a Singapore, città-Stato pulitissima e ubuesca. Severamente vietato attraversare fuori dalle striscie, vietato far cadere cenere di sigaretta sul marciapiede, vietato tutto, anche se poi il tassista ti offre prostitute o, se preferisci, bambini. Altro hotel di superlusso, con giardino incredibile. Questa non è più una tournée teatrale, è un viaggio da milionari interamente pagato coi soldi dei contribuenti francesi. Infatti non mi ricordo nemmeno dello spettacolo. Negozi e negozi e negozi di elettronica duty-free, mi compro un walkman e una cassetta del quartetto La Morte e la fanciulla di Schubert. Singapore è così deprimente che la sera, al ristorante dell'hotel, ordino una bottiglia di Borgogna (Gevrey-Chambertin, se non sbaglio), anche se mi costa un monte e mezzo. Fanculo.
Ultima tappa, una settimana a Rangoon, Birmania. L'aereo per arrivarci è piccolo e siccome noi io, il mio assistente Daniel e altre due compagnie di teatro di figura abbiamo in tutto 18 o 19 casse con dentro il nostro materiale, all'ultimo momento gli operai della compagnia aerea birmana smontano una dozzina di sedili e caricano le casse in cabina. Per i dodici viaggiatori messi a terra che problema c'è? Nessuno: partiranno con il prossimo aereo, tra una settimana. Mi vergogno come un cane.
Altro spettacolo con temperatura e umidità disumane. Intervista mattutina nei locali del Daily Worker, quotidiano inglese situato all'interno del palazzo del Ministero degli Interni, così è più comodo da sorvegliare. Lussuosissimo pranzo nel migliore ristorante della città in compagnia del fottutissimo Ministro della Cultura. Impossibile e semplicemente vietato uscire dall'hotel senza scorta. È per il nostro bene, ci dicono, è pericoloso andare in giro da soli. Visita della grande pagoda di Shwedagon (meraviglia!), accompagati da soldati che non esitano a colpire con il manico del fucile chiunque cerchi di avvicinarsi. Ultimo giorno, dobbiamo partire per l'aeroporto alle 11 del mattino, riesco a sgattaiolare fuori poco dopo le 5, me ne vado in giro da solo per la città, torno alla grande pagoda, compro una statuetta di legno di sandalo, torno in albergo verso le 10, ci sono poliziotti e militari nel panico, mi cercano da ore, ma, signori miei, sono un invitato ufficiale, non potete farmi niente, andate a farvi fottere.
Aereo per Singapore, poi da lì a Bangkok. Sei ore di attesa. Da Bangkok a Parigi, da Parigi a Roma, da Roma a Palermo con due ore di ritardo, in tutto 22 ore di viaggio. Ma non ci posso fare niente: domani ho uno spettacolo nel teatrino di Mimmo Cuticchio.
Bei tempi.

lunedì 4 giugno 2018

Ateismo e teismo

Jim Al-Khalili, fisico ed ex-presidente della British Humanist Association

Se non credi in una qualsiasi religione sei un ateo. L'unico parola italiana che hai per definirti è quella: ateo. Una parola che incomincia con un a privativo. Come se non credere in una divinità facesse di te qualcuno a cui manca qualcosa.
Lo stesso vale per il francese, mentre l'inglese ci offre un'altra possibilità, quella della parola “humanist.”
Humanist” non è traducibiole con umanista. Dovrebbe esserlo, ma non lo è. In italiano un umanista, secondo il vocabolario Treccani, è un insegnante di lettere classiche, oppure un rappresentante dell'umanesimo del XV e XVI secolo.
A me secca sempre molto definirmi ateo, proprio per via di quella a iniziale, perché non ho per nulla la sensazione di mancare di qualcosa. Mi pare che sia chi “crede” che dovrebbe essere definito teista. E lo dico senza nessuna acrimonia. Che qualcuno “creda” in una potenza soprannaturale non mi dà fastidio. Tutt'al più mi fa sorridere, come mi fanno sorridere gli oroscopi, le predizioni di Nostradamus, o la psicanalisi.
Lo sviluppo della scienza, ovvero della conoscenza, fa sì che, secondo tutti i dati disponibili, ci siano nel mondo sempre meno teisti e sempre più “humanist.” Che poi varie religioni tendano oggi a un'indiscutibile radicalizzazione, mentre altre vanno diluendosi è un altro discorso. Il cammino verso un non teismo maggioritario è ancora lungo, ma appare sempre più inesorabile. Da secoli le religioni tentano di contrastarlo, insistendo sulla correlazione, del tutto mendace, tra religione e morale, come se le due cose fossero intrinsecamente legate l'una all'altra. Lo fanno mettendo da parte la storia di tutte le guerre di religione, dei placet pontifici alle Crociate, alla schiavitù, alla conversione forzata, all'esclusione dei non credenti. Lo fanno difendendo la sacralità del matrimonio, la superiorità degli scritti “divini” sulla scienza, impadronendosi sfacciatamente di concetti come la compassione, la pietà, o l'amore, arrampicandosi sui vetri della pseudo compatibilità tra l'idea di creazione divina e teoria dell'evoluzione. Lo fanno, almeno per quanto riguarda il cristianesimo, ingoiando un rospo dopo l'altro, affermando che ciò che è scritto nero su bianco nel loro libro sacro — e che è contrario all'evidenza scientifica — va preso in senso allegorico, mentre per secoli ce l'avevano venduto come verità assoluta.
Discutere di religione con un teista può essere faticoso. Prima o poi viene sempre fuori che loro, i teisti, Dio lo “sentono” nel cuore. Non importa che quel sentimento non sia dissimile da molti altri, altrettanto indimostrabili ed errati. Non abbiamo tutti “sentito” per millenni che il Sole girava intorno alla Terra? Che pregare per la pioggia aveva un senso? Che il cuore era il centro dei sentimenti? Che il coraggio ci veniva dal fegato? Che i lampi li scagliava Zeus? Che il passaggio di una cometa era un segno divino? Che la “fortuna” e la “sfortuna” decidevano almeno in parte delle nostre vite? Non abbiamo dato per millenni importanza a mille altre baggianate che la conoscenza scientifica ci ha insegnato poco per volta a trattare come superstizioni? Eppure non c'è niente da fare: il bisogno di aggrapparsi a spiegazioni facili quanto illusorie resta ancora una caratteristica della nostra specie. È un danno collaterale della nostra evoluzione. Ma se consideriamo la relativa giovinezza dell'homo sapiens, visto che 2 o 300.000 anni sono davvero poca cosa davanti agli 85 milioni di anni dell'esistenza dei mammiferi, quel danno collaterale appare solo come un problema adolescenziale. Il teismo è l'acne giovanile dell'homo sapiens.
Due sondaggi della Gallup, uno del 2005 e uno del 2012, che hanno raccolto le opinioni di più di 50.000 persone in 57 paesi del mondo, offrono informazioni interessanti.
  1. Innanzitutto, il 59% degli intervistati si dichiara religioso, il 23% non religioso e il 13% ateo. Già queste cifre dovrebbero fare riflettere tutti quelli che credono che il teismo sia una specie di componente genetica dell'essere umano.
  2. La religiosità è più presente tra i poveri e diminuisce man mano che il benessere aumenta — e questo è vero sia mettendo a confronto paesi poveri e paesi ricchi che individui appartenenti ai ceti poveri o ricchi in uno stesso paese.
  3. In soli sette anni, il numero di persone che si dichiarano religiose è diminuito nel mondo del 9%, mentre quello degli atei è aumentato del 3% (rispettivamente 1% e 2% in Italia).
  4. Nel 2012 i tre paesi più religiosi erano Ghana, Nigeria e Armenia, mentre i tre meno religiosi erano Cina, Giappone e Repubblica Ceca. Le tre regioni mondiali più religiose erano l'Africa (89%), l'America Latina (84%) el'Asia del Sud (83%). La meno religiosa era l'Asia del Nord (17%), seguita dall'Asia dell'Est (39%) e dall'Europa Occidentale (51%).
Purtroppo noi — tu che leggi e io che scrivo — non ci saremo più da molto tempo quando i nostri lontani discendenti racconteranno con un sorriso che i loro avi credevano nell'esistenza di esseri supremi. Lo faranno sorridendo, nello stesso modo in cui noi oggi sorridiamo alla storia di Giosuè che chiede a Dio di fermare il Sole durante durante la battaglia di Gerico, o a quella, parallela, di Krishna che fa risorgere il Sole già tramontato durante la battaglia di Kurukshetra. Non che quelle storie non abbiano una loro bellezza e un loro valore mitologico. Forse i nostri avi continueranno a raccontarle. Magari non racconteranno più che la donna è stata creata dalla costola di un uomo, o che un profeta ha cavalcato un cavallo alato che gli ha fatto fare in una notte i 1500 chilometri dalla Mecca a Gerusalemme. Chissà… 
Ma non è solo per ottimismo che credo che un giorno (lontano) non ci saranno più religioni. Lo credo perché sono sicuro che alla lunga la ragione, la scienza e la conoscenza ci permetteranno di liberarci dagli orpelli delle superstizioni che troppo spesso ci impediscono ancora di comportarci da mammiferi davvero ragionevoli e ragionanti. Non è perché il cammino è lungo che si deve rinunciare a percorrerlo.