venerdì 27 marzo 2015

Senza chiasso

Maschera di donna vietnamita
Bread and Puppet Theater

Spero che Michele Serra non me ne vorrà se pubblico qui il testo integrale della sua Amaca di ieri mattina, ma il fatto è che il resto del mio post non sarebbe comprensibile senza questa previa lettura.

Non condivido una virgola di quanto pensa, a proposito di “famiglia”, il movimento delle Sentinelle in Piedi, scrive Serra. Ma è molto suggestiva la modalità della loro presenza pubblica: silenziosa, composta, con un libro in mano. Inevitabile il contrasto con le contromanifestazioni, in genere variopinte e chiassose. Si coglie, di primo acchito, la contrapposizione tra l'estroversione e la vitalità dei movimenti gay e anti-omofobi, in rappresentanza di milioni di persone per secoli costrette al silenzio e all'occultamento di sé; e la compunzione un poco penitenziale delle Sentinelle, che richiama, in chi ha ricevuto un'educazione cattolica, la ritualità non allegrissima nella quale è cresciuto. Ma c'è anche una seconda lettura di quel contrasto, che lentamente ma inesorabilmente si sta sovrapponenedo alla prima: il silenzio e l'atto di leggere finiscono per essere, alla lunga, più incisivi del fracasso, più “drammatici”, più comunicativi. E soprattutto: più anticonformisti. Niente è più conformista del baccano e del dileggio degli altri. Hanno fatto il loro tempo. A fronteggiare le sentinelle ci vorrebbero altre figure silenziose e leggenti (magari con in mano Jean Genet, Voltaire, Henry Miller, Pasolini e altri autori “degenerati”) per vedere chi resiste più a lungo. Oppure la parodia intelligente, come il ragazzo che a Bergamo si unì alle sentinelle travestito da “nazista dell'Illinois”, con Mein Kampf in mano. Le Sentinelle, per l'occasione, hanno chiamato la Digos: un travestito è pur sempre un travestito.

Il trafiletto di Serra mi vede d'accordo con ognuna delle sue parole. Ma se mi è venuta voglia di scrivere questo post è perché quelle parole mi hanno fatto tornare alla mente qualcosa che successe molti anni fa.
Il 18 dicembre 1972 Richard Nixon diede inizio a una breve ma pesante serie di bombardamenti sul Nord Vietnam e in particolare sulla capitale, Hanoi. I bombardamenti andarono avanti fino al 24 dicembre, poi furono sospesi per tre giorni, per riprendere in seguito il 28 e il 29. Trattandosi del periodo natalizio, quei bombardamenti, che fecero molte vittime tra i civili, suscitarono grande scalpore negli Stati Uniti, paese tradizionalmente molto attaccato alle feste cristiane.
Io in quel periodo ero nel Vermont con il Bread and Puppet e ricordo il grande scalpore suscitato da quegli avvenimenti non solo in tutti noi oppositori alla guerra in Vietnam, pacifisti, hippies, militanti, democratici, o comunque uno ci volesse definire, ma anche in una fetta ben più larga della popolazione.
Io ne fui così colpito che decisi di fare qualcosa, pur conscio che quel qualcosa sarebbe stato solo una goccia d'acqua persa nell'oceano. Così mi misi ad andare, giorno dopo giorno, a Montpelier, la capitale del Vermont, distante una quindicina di chilometri dalla fattoria dove abitavo con il resto del Bread and Puppet. Ci andavo poco prima di mezzogiorno, in autostop, portandomi dietro un costume nero (gonna lunga fino ai piedi e casacca nera con cappuccio, una maschera di donna vietnamita e un cartoncino bianco legato a uno spago, sul quale c'era scritto VIETNAM). Arrivato a Montpelier, andavo nella via principale, opportunamente chiamata Main street. Lì, su un piccolo spiazzo, quelli del Comune avevano messo un presepe i cui personaggi erano di taglia umana. C'erano Giuseppe e Maria, con tanto di bue, asinello e qualche pastore, dentro un piccolo recinto. Io mi infilavo maschera e costume, mi mettevo il cartellino intorno al collo, scavalcavo la piccola barriera che proteggeva il presepe e me ne stavo lì immobile, in mezzo alle statue, per un'ora, da mezzogiorno all'una, a significare la presenza del Vietnam in piene celebrazioni natalizie. Poi, quando sentivo scoccare l'una, mi toglievo maschera e costume e me ne andavo al caffé di fronte a bermi una cioccolata calda, visto che la temperatura esterna andava da -5° a -15° a seconda dei giorni e che starsene lì immobile per un'ora, pur con due paia di calzettoni, tre golf sovrapposti e delle lunghe mutande di lana non era cosa. Va detto che a quei tempi gran parte della popolazione locale era pro-Nixon e che al mio arrivo nel caffè c'era sempre qualcuno che rideva alle mie spalle. Ma siccome il Vermont è uno stato fondamentalmente rurale e siccome chi ci vive sa bene cosa vuol dire starsene al freddo, quelle prime prese in giro si trasformavano rapidamente in conversazioni nelle quali traspariva un certo rispetto nei miei confronti, rispetto verso uno che se n'era stato immobile per un'ora in una temperatura polare, pur se per motivi con i quali non si era d'accordo. E così si apriva un dialogo.
Successe poi che già il terzo o quarto giorno qualcuno, vedendomi regolarmente trasformato in statua del presepe, decise di unirsi a me, standosene lì in piedi, accanto al recinto, per affermare così la sua solidarietà. In breve le persone diventarono due, poi tre, fino a quando me ne ritrovai un certo numero sia a destra che a sinistra.
Un giorno però si avvicinò un pick-up che parcheggiò proprio lì davanti. Attraverso gli occhi della maschera notai subito la sua strana targa, che era una di quelle, personalizzate, che si possono ottenere a pagamento negli USA. Invece dei soliti numeri e cifre, la targa portava la scritta NIXON. "Guai in vista", mi dissi. 
Dal pick-up scese un ragazzo di una trentina d'anni. Senza degnarmi di un'occhiata salì sulla parte posteriore del veicolo, tirò fuori un grande cartello sul quale aveva scritto non so più cosa a favore di Nixon e dei bombardamenti in corso e si mise a fare ciò che facevo io, cioè niente. Se ne stette lì, immobile, a fronteggiarmi.
Dopo qualche minuto, guardando il riflesso sulle vetrine del bar, vidi che si stava formando un piccolo capannello. C'era gente che guardava per qualche istante e poi se ne andava via, ma altri si fermavano, chi prendendo posto di fianco a me, chi di fianco al pick-up. Quando sentii scoccare l'una mi dissi che naturalmente non potevo essere il primo ad andarmene e continuai a starmene lì, immobile. 
Cominciò allora una lunghissima attesa: io aspettavo che se ne andasse quello del pick-up, lui aspettava che me ne andassi io. Ad un certo punto arrivò qualcuno con un thermos, offrendomi del te caldo. Io non mi mossi, lui insisteva. Allora feci segno con la mano di offrirne prima al mio “avversario”, che però rifiutò, dicendo “prima lui”. Non so quanto la cosa andò avanti, credo più di un'ora. Ormai erano decine le persone dalla mia parte, mentre quelli che ci facevano fronte erano molto meno numerosi. Finalmente quello sul pick-up decise di andarsene, forse non sopportando più il freddo, davvero pungente, e rapidamente se ne andarono anche i suoi sparuti sostenitori. Io aspettai ancora qualche minuto, poi mi tolsi maschera e costume. Tutti quelli che erano rimasti lì con me vennero uno per uno a stringermi la mano. Alcuni se ne andarono, altri vennero con me a scaldarsi dentro al caffè.
Nei giorni successivi non successe più nulla, ma i partecipanti alla mia manifestazione silenziosa diventarono decisamente più numerosi.
Non mi sarei mai aspettato, tanti anni dopo, di vedere quel mio statuario modo di protestare — che qualche mese dopo misi in atto anche a New York, di fronte all'ufficio di reclutamento dei Marines sull'isoletta pedonale in mezzo a Times square — riinventato da persone così lontane dal mio modo di vedere e di agire. Ma il trafiletto di Serra, facendo riemergere quei ricordi, mi ha fatto anche pensare all'inadeguatezza dei mezzi spesso impiegati dalla “sinistra” per rispondere alla bigotteria e al conservatismo di gente come le Sentinelle in Piedi; gente attaccata a valori di esclusione e di rifiuto della diversità, gente abbarbicata a ideologie (religiose e non) che non ammettono dialogo né scambio, che demonizzano sistematicamente chi pensa o agisce diversamente, che negano senza esitazione la dignità altrui. Forse, se venissi a sapere in anticipo di una prossima manifestazione delle Sentinelle, dovrei davvero fare ciò che suggerisce Serra, fabbricarmi un grosso libro di cartone con su scritti i nomi di Genet, Voltaire, Miller e Pasolini, ai quali aggiungerei volentieri Vonnegut, Ginsberg, Gertrude Stein e qualche altro, e dovrei andarmene in piazza, accanto a loro, e starmene lì, immobile, per tutto il tempo necessario. Senza fare chiasso.