domenica 23 febbraio 2014

Caro Mattia

Val di Susa


Caro Mattia,

non ti conosco. Ma conosco tuo padre. Lui ha qualche anno più di me, non mi ricordo mai quanti. Io ne avevo quattordici o quindici quando ci siamo conosciuti, a Bellaria. È lui che mi ha fatto ascoltare per la prima volta Bob Dylan. L'LP era Freewheelin', quello con Blowin' in the Wind e Masters of War. Era rimasto al sole, sul lunotto posteriore della '600 di tuo nonno e aveva assunto una forma tutta ondulata. La voce di Dylan, che già di suo sembrava un mucchietto di sassi che scivolavano dentro un tubo inclinato di PVC, pareva venire dall'interno di una lavatrice sul programma cotone delicato, 40°. Una meraviglia. Momenti indimenticabili.
Forse uno o due anni dopo, tuo padre dormiva in una stanza separata dalla casa, non ricordo più bene dove. Io ero mattiniero, lui no. Andavo a svegliarlo, lui apriva un occhio, mi guardava, dubbioso, e invariabilmente diceva "Tanto, un giorno vale l'altro". Poi si alzava. Ammiravo molto il suo esistenzialismo dandy.
Eravamo pacifisti, molto pacifisti. Io avevo una chitarra Eko da due lire sulla quale avevo scritto No more war. All'epoca non sapevo ancora che Woody Guthrie, sulla sua, ci aveva scritto This machine kills fascists. Una sera eravamo in spiaggia, Paolo e io, a cantare, da soli, seduti per terra, con la schiena contro le cabine. Si sono avvicinati quattro ragazzotti, cominciando a provocarci. Come sai, tuo padre credo che viaggi al di sotto del metro e settanta, mentre io, una quindicina di centimetri di più, all'epoca i 60 chili li vedevo da lontano. Ero sicuro che ci avrebbero dato una manica di botte. Allora abbiamo continuato a cantare We shall overcome, facendo finta di niente. Dopo un po' quelli se ne sono andati, lasciandoci in pace. Una grande vittoria per la non-violenza mondiale.
Ti racconto queste cose perché non so bene cosa dirti d'altro, non ti conosco. Ma so che sei in galera, accusato di terrorismo. Pare che in Val di Susa tu abbia fatto una brutta cosa. Sì, lo so, non hai dirottato un Airbus 380 con l'intenzione di schiantare 500 passeggeri sul Duomo di Torino nella segreta quanto inaccettabile speranza di dare fuoco alla Sacra Sindone, però hai danneggiato un compressore.
A dirti la verità, non so nemmeno bene cosa sia un compressore. Io mi intendo di teatro di marionette e magari anche un po' di patafisica, ma molto poco di compressori. Però dubito che qualcun altro, a parte te e i tuoi amici, sia mai stato accusato di terrorismo per averne danneggiato uno, almeno in uno dei pochi Paesi democratici del mondo. Mi viene quasi da ridere, o almeno da sorridere, ma capisco che la cosa possa non suscitare in te lo stesso effetto, dal fondo della tua cella nel carcere di Alessandria.
Questa cosa del TAV, io l'ho seguita molto poco. Non so nemmeno se si dice il TAV, in quanto acronimo di Treno ad Alta Velocità, oppure la TAV, in quanto TAV Spa. Sono tornato in Italia pochi anni fa, dopo aver passato quasi tutta la mia vita adulta fuori, e ci sono cose sulle quali ho recuperato il ritardo e altre no. Siccome non mi piace parlare di ciò che non conosco e siccome, non essendo né un politico, né un conduttore di talk-show, non mi sento in obbligo di avere un'opinione su tutto, ammetto che del TAV non sono molto. Ho solo una vaga impressione di qualcosa che è andato marcendo poco a poco, di posizioni che si sono irrigidite e di dialogo impossibile.
Ma non è questo il punto.
Che tu e i tuoi amici abbiate ragione o torto, che la vostra azione contro il compressore fosse o no la cosa giusta da fare (ho il forte sospetto che non lo fosse), resta quella marca d'infamia assoluta, quell'accusa di terrorismo. E le parole contano, sempre.
Nella mia vita mi sono trovato a lavorare in molti Paesi del mondo. Paesi dell'ex-blocco sovietico, Paesi tra i più miseri dell'Africa, Paesi dittatoriali come la Birmania, la Guinea e la Bielorussia. Ho perfino passato qualche mese a Sarajevo, durante l'assedio, a giocare al coniglio con i cecchini serbi. In tutte quelle occasioni la cosa più strabiliante è sempre stata scoprire quanto fosse facile vivere in quelle condizioni. Non era facile mangiare, dormire, vivere la vita quotidiana, naturalmente. Ma era facilissimo essere uomini. Avere una dignità. Avere una speranza. Avere voglia di partecipare a qualcosa di positivo. Erano situazioni nelle quali era così ovvio chi stesse dalla parte giusta e chi dalla sbagliata che vivere era facile. E ogni volta che tornavo indietro, in Europa, da un lato mi dicevo quanto fosse più difficile vivere qui, nel grigiore dei mezzi toni e dei dubbi, ma dall'altro non potevo fare a meno di pensare che nascendo qui avevo vinto il biglietto della lotteria, nascendo in questo grigiore nel quale ci arrovelliamo tanto spesso il cervello per capire da che parte stare e poi siamo tanto spesso delusi da noi stessi, dalle decisioni che abbiamo preso e dalle scelte che abbiamo fatto. Vivere in questo posto dove comunque non rischiamo di servire da conigli a un cecchino e se danneggiamo un compressore paghiamo per ciò che abbiamo fatto senza bisogno di pagare anche per la distruzione della biblioteca di Alessandria e l'invasione degli Unni.
Sono certo che per te in questo momento è diverso. Non so quale sia la soluzione che hai trovato per non lasciarti divorare dall'insopportabile umiliazione e dalla solitudine. Immagino che ti sarai ripetuto mille volte che sei stato un idiota ad andare o a non andare in un certo posto un certo giorno, a fare o a non fare una certa cosa, a dirne o a non dirne un'altra. Ti immagino anche indurito, perché devi stringere i denti e perché quel che ti manca è la dolcezza, lì dentro, comunque, sempre.
Ma sono solo cose che immagina uno che se ne sta seduto in tinello davanti al suo computer e che tra poco deve andare a Firenze a vedere uno spettacolo.
Mattia, non so cosa succederà, né come tu ne verrai fuori. Tuo padre mi ha detto che hai 29 anni, non sei un ragazzino, anche se sei più giovane dei miei figli. Ti auguro di riuscire a uscirne bene. Te lo auguro di tutto cuore. Ti auguro di non venirne fuori disgustato e rotto, ma intero e pieno di quella generosità che credo ti abbia spinto all'inizio a sostenere questa causa.
Non credo che viviamo in un Paese dove tutto è merda, anche se ce in giro ce n'è tanta. Non credo che non abbiamo un futuro. Non lo credo anche perché siamo in tanti, ognuno a modo suo, a rifiutarci di crederlo e a continuare a partecipare e ad agire.
La cosa di cui ti accusano, quella parola, terrorismo, è una delle più infamanti che si possano immaginare. E forse la lotta vera, oggi, in questa Italia, è proprio quella delle parole, che spariamo a vanvera, gli uni e gli altri, senza ritegno, accusandoci mutualmente di tutti i mali e di tutti gli orrori, capaci solo di gridare e non più di ascoltare. Oh, stai tranquillo, lo so bene che se per tutti è difficile ascoltare, per molti è semplicemente impossibile, sempre. Non sto dicendo che è tutto uno schifo, ma esattamente il contrario.
Forse ciò che sto dicendo è che tutti noi che siamo qui fuori, anche se magari non proviamo una spontanea e immediata simpatia verso chi va a distruggere un cacchio di compressore, qualunque cosa sia, dobbiamo sentirci fieri dell'impegno che lo ha portato, con altri ragazzi, giovani e meno giovani, a difendere una valle e i suoi abitanti, a difendere promesse ricevute e poi mai mantenute, ad opporsi a un potere e a una burocrazia troppo spesso così cinici, ciechi e inumani.
Così, anche se non me la sento di escludere che tu i tuoi amici abbiate fatto una cazzata (ma non ne so abbastanza per farmene un'idea), anche se magari quella cazzata fosse degna di una punizione, compresa una pena carceraria, voglio dirti che la mostruosità e la dismisura della parola usata per accusarti sono tali da non lasciare alcun dubbio su come pensarla adesso. Per questo voglio esprimerti tutta la mia solidarietà e, se accetti l'abbraccio di uno sconosciuto, ti offro volentieri pure quello.
Non diamogliela vinta, Mattia. Non abbassiamoci ad accettare le loro regole di combattimento.
Noi, qui fuori, oggi, abbiamo bisogno di te almeno quanto tu hai bisogno di noi. Lo so che rischio di metterti ancora più pressione addosso, ma è così: è importante che tu esca di lì il prima possibile, visto che tutto il tempo che ci hai già passato mi pare abbastanza non per uno, ma per una buona dozzina di compressori; ma è ancora più importante che tu ne esca bene, con dignità, non come uno che ha vinto o che ha perso qualcosa, ma come... non so bene nemmeno io come. Questo sarai tu a doverlo capire e trovare. Quello che ti auguro è di trovare presto il modo, una volta fuori, di non restare quello-che-è-stato-in-galera-per-la-TAV. Quella sì che sarà una battaglia da vincere. Auguri.
Ti saluto.
Massimo

Per chi non l'avesse già letta sulla mia pagina Facebook, ecco anche la lettera che mi aveva mandato il mio amico Paolo, chiedendomi di diffonderla:


In queste settimane avete sentito parlare di loro. Sono le persone arrestate il 9 dicembre con l’accusa, tutta da dimostrare, di aver assaltato il cantiere Tav di Chiomonte. In quell’assalto è stato danneggiato un compressore, non c’è stato un solo ferito. Ma l’accusa è di terrorismo perché “in quel contesto” e con le loro azioni presunte “avrebbero potuto” creare panico nella popolazione e un grave danno al Paese. Quale? Un danno d’immagine. Ripetiamo: d’immagine. L’accusa si basa sulla potenzialità di quei comportamenti, ma non esistendo nel nostro ordinamento il reato di terrorismo colposo, l’imputazione è quella di terrorismo vero e volontario. Quello, per intenderci, a cui la memoria di tutti corre spontanea: le stragi degli anni 70 e 80, le bombe sui treni e nelle piazze e, di recente, in aeroporti, metropolitane, grattacieli. Il terrorismo contro persone ignare e inconsapevoli, che uccideva, che, appunto, terrorizzava l’intera popolazione. Al contrario i nostri figli, fratelli, sorelle hanno sempre avuto rispetto della vita degli altri. Sono persone generose, hanno idee, vogliono un mondo migliore e lottano per averlo. Si sono battuti contro ogni forma di razzismo, denunciando gli orrori nei Cie, per cui oggi ci si indigna, prima ancora che li scoprissero organi di stampa e opinione pubblica. Hanno creato spazi e momenti di confronto. Hanno scelto di difendere la vita di un territorio, non di terrorizzarne la popolazione. Tutti i valsusini ve lo diranno, come stanno continuando a fare attraverso i loro siti. E’ forse questa la popolazione che sarebbe terrorizzata? E può un compressore incendiato creare un grave danno al Paese?

Le persone arrestate stanno pagando lo scotto di un Paese in crisi di credibilità. Ed ecco allora che diventano all’improvviso terroristi per danno d’immagine con le stesse pene, pesantissime, di chi ha ucciso, di chi voleva uccidere. E’ un passaggio inaccettabile in una democrazia. Se vincesse questa tesi, da domani, chiunque contesterà una scelta fatta dall’alto potrebbe essere accusato delle stesse cose perché, in teoria, potrebbe mettere in cattiva luce il Paese, potrebbe essere accusato di provocare, potenzialmente, un danno d’immagine. E’ la libertà di tutti che è in pericolo. 
E non è una libertà da dare per scontata. 
Per il reato di terrorismo non sono previsti gli arresti domiciliari ma la detenzione in regime di alta sicurezza che comporta l’isolamento, due ore d’aria al giorno, quattro ore di colloqui al mese. Le lettere tutte controllate, inviate alla procura, protocollate, arrivano a loro e a noi con estrema lentezza, oppure non arrivano affatto. Ora sono stati trasferiti in un altro carcere di Alta Sorveglianza, lontano dalla loro città di origine. Una distanza che li separa ancora di più dagli affetti delle loro famiglie e dei loro cari, con ulteriori incomprensibili vessazioni come la sospensione dei colloqui, il divieto di incontro e in alcuni casi l’isolamento totale. Tutto questo prima ancora di un processo, perché sono “pericolosi” grazie a un’interpretazione giudiziaria che non trova riscontro nei fatti.

Questa lettera si rivolge: 
Ai giornali, alle Tv, ai mass media, perché recuperino il loro compito di informare, perché valutino tutti gli aspetti, perché trovino il coraggio di indignarsi di fronte al paradosso di una persona che rischia una condanna durissima non per aver trucidato qualcuno ma perché, secondo l’accusa, avrebbe danneggiato una macchina o sarebbe stato presente quando è stato fatto.  
Agli intellettuali, perché facciano sentire la loro voce. Perché agiscano prima che il nostro Paese diventi un posto invivibile in cui chi si oppone, chi pensa che una grande opera debba servire ai cittadini e non a racimolare qualche spicciolo dall’Ue, sia considerato una ricchezza e non un terrorista. 

Alla società intera e in particolare alle famiglie come le nostre che stanno crescendo con grande preoccupazione e fatica i propri figli in questo Paese, insegnando loro a non voltare lo sguardo, a restare vicini a chi è nel giusto e ha bisogno di noi.
Grazie
I familiari di Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò