venerdì 21 febbraio 2014

And now a few moments of sex



I francesi sono gente strana. La radio nazionale, stamattina verso le 7 e mezzo, mi annuncia una serie di reportage sulla Polonia e me ne dà un primo, piccolo assaggio di un paio di minuti. La giornalista spiega che, nonostante il miracolo economico che ha permesso al Paese di prosperare anche durante la crisi finanziaria, il conservatorismo e il peso della chiesa cattolica costituiscono un freno possente allo sviluppo della libertà e dei diritti, in particolare a quelli delle donne.
E partono i due minuti, registrati a Varsavia. Dove? Per strada? No. In un caffè? Nemmeno. Nel salotto di un sociologo o nell'ufficio di un politico? Per nulla. Quando si tratta di libertà e di diritti delle donne, la giornalista francese (poiché di una donna si trattava) va a intervistare (indovina, indovinello) la proprietaria di un sex-shop! C'est ça, la liberté!
Ho vissuto più di tre decenni oltr'alpe e posso testimoniare dell'ossessione dei nostri vicini per il sesso, ovvero della loro ossessione a parlarne. Radio, televisione, programmi di divertimento, reportage, talk-show, trasmissioni di approfondimento, stampa cartacea a tutto tondo, dai rotocalchi femminili alle riviste politiche, finiscono prima o poi col parlare di sesso in maniera davvero imbarazzante.
Non che sia imbarazzante parlare di sesso, ovviamente, anche se personalmente trovo che un minimo di pudore in questo campo non guasti mai, in pubblico. Ciò che c'è d'imbarazzante in Francia è una specie di consenso attorno al fatto che più il sesso è acrobatico, fuori dalle righe, trasgressivo e accessoriato, più è bello e più rende liberi. Ora, non vorrei fare la parte del bacchettone ottocentesco, ma siamo proprio sicuri che il livello ginnico e la complessità dell'attrezzatura di sostegno al sesso costituiscano dei validi punti di riferimento per parlare di libertà?
La cosa mi dà particolarmente fastidio quando si offre questa falsa idea di libertà alle donne e me ne dà ancora di più quando sono delle donne a farlo. Senza entrare in inutili dettagli, posso dire che nella mia vita un po' di donne, biblicamente parlando, le ho conosciute. Magari sarò io che ho sempre cercato e/o attirato quelle sbagliate, però non ne ho incontrata una sola che mi abbia proposto per prima l'utilizzo di un qualche sex-toy, o che mi abbia imposto acrobazie da visita osteopatica obbligatoria l'indomani. Il che non mi ha impedito, con alcune più che con altre, di sbizzarrirmi un po'. O meglio, rifrasiamo: il che non ha impedito che, con alcune più che con altre, ci sbizzarrissimo un po', il che è già diverso.
Fino agli anni '60, di sesso non si parlava. Poi siamo arrivati noi, quei sessantenni di oggi ai quali anche i miei giovani lettori tendono a dare tutte le colpe, e le cose hanno incominciato a cambiare. È sempre bene ricordare che il Maggio '68 ha avuto inizio dalla rivendicazione degli studenti della residenza universitaria maschile dell'università di Nanterre di poter accedere alla residenza femminile. "Juissons sans entraves" (godiamo senza ostacoli) è stato uno dei primi slogan, di origine situazionista. Me ne ricordo anche un altro: "Je fais l'amour seulement avec ceux que j'aime. J'aime tout le monde" (faccio l'amore solo con chi amo. Amo tutti).
E va bene. In quel contesto e a quei tempi, questi slogan erano dirompenti e costituivano davvero qualcosa di rivoluzionario dentro a una società repressiva che non si distingueva solo per dei meccanismi di potere politico, poliziesco ed economico, ma anche per un estremo conservatorismo in tutta la sfera del privato, di cui le principali vittime erano le donne. Kate Millet, Simone de Beauvoir, Nancy Friedman, Erica Jong, furono scrittrici importanti, lette anche da molti di noi uomini, spinti poi dalla curiosità a scoprirne altre, dalla Achmatova alle sorelle Brönte, dalla Austen alla Dickinson, dalla Woolf alla Stein.
Ma quando oggi, cinquant'anni più tardi, vedo il livello di bieco disprezzo della donna portato avanti senza ritegno dalla pubblicità e dal cinema, dalla televisione e dai media in generale; quando continuo, al caffè o su Facebook, a sentire e leggere battute ammiccanti che perpetuano lo stesso misero maschilismo di sempre; quando continuo, ancora e ancora a sentire "beh, una che va in giro vestita così però se lo cerca", anche se quella di cui si parla è vestita da povera stronzetta, ha le labbra botulinate e il sedere tirato su che quasi le tocca le spalle; quando, soprattutto, tutti quegli artifici di pretesa femminilità mi vengono presentati come un esempio di libertà e di affermazione di diritti, mi cadono le braccia e, mi sia permesso di dirlo, mi cadono pure i gioielli di famiglia, compresa l'appendice principale, che a tutto pensa, meno che a mettersi sull'attenti.
L'Italia berlusconiana ha sviluppato il (pessimo) gusto della velina che sculetta con un sorriso finto come una moneta da tre euro, contrabbandandola per un'immagine di disinibizione e di successo. La Francia questo ha saputo evitarlo, almeno in parte.
Ma la stessa Francia, ah, la grandeur!, ha affidato agli intellettuali, attraverso la rilettura del Divino Marchese, come là amano chiamare Sade, e di vari suoi ammiratori ed emuli contemporanei, nonché attraverso infinite quanto fumose esegesi del cinema porno, dei sex-shop e della sessualità "libera" intesa come indispensabile passo verso la libertà di pensiero e di vita, il compito di servire da altoparlante pubblicitario a un mercato che continua a svilupparsi in barba al più elementare rispetto della donna. Il che non smette mai di sorprendermi e di farmi andare in bestia.
Fondamentalmente non me ne importa nulla di sapere chi fa cosa, con chi, a quale ritmo e con quali accessori, sotto le lenzuola. L'idea di sbandierare quello che ci faccio io poi, non parliamone nemmeno. Fare sesso è bello e con l'età e l'esperienza diventa ancora più bello. Fare sesso può essere ancora più bello di un bel libro, di una musica sublime, o, osiamo pure il tutto per tutto, di una finale olimpionica di curling femminile in televisione. Fare sesso può essere bello anche se non è accompagnato dall'amore. Fare sesso può essere doloroso e complicato se si ha l'impressione di non poterci trovare tutta la gioia che altri sembrano trovarci. Ma fare sesso perché "bisogna farlo" per sentirsi liberi e cercare di farlo come qualche intellettuale, rotocalco o filmetto porno ti spiega che va fatto, magari sentendosi inibiti e retrogradi se non si tirano fuori lacci, manette, pilloline, vibromassaggiatori e altri marchingegni vestimentari o tecnologici, mi sembra cosa di una tristezza infinita. Fare sesso senza ridere è di una tristezza infinita, così come lo è farlo come se fosse un passaggio obbligato verso la libertà. Si può fare molto sesso e restare stupidi come capre e infelici come animali in gabbia. E ci si può sforzare quanto si vuole di autoconvincersi che il numero di sveltine accumulate in una vita è direttamente proporzionale al livello del nostro più intimo benessere, ma non è vero. Se c'è una battaglia politica da portare avanti oggi è quella della distinzione tra libertà e caricatura della libertà. E questo vale anche per il sesso.

P.S. Scommettiamo che con il titolo e l'immagine che ho dato a questo post arriverò ad avere ancora più lettori di quello che avevo intitolato Normalità della patonza e che riscosse grande successo?