La tomba di Sarmad, a Delhi
Non
so dirti perché mi piaccia la musica classica persiana. So dirti
ancora meno perché della Persia classica mi piaccia molto pure la
poesia. Ma è così e non posso farci niente. Quindi sono stato molto
contento quando qualche frase nell'ultimo libro di Arundhati Roy, "Il
ministero della suprema felicità," mi ha fatto scoprire un
poeta persiano che non conoscevo, Sarmad Shaheed, o, se vogliamo pure
mettergli il tradizionale titolo onorifico, Hazrat Sarmad Shaheed.
Sarmad
era sì persiano, ma di lingua, perché di famiglia era ebreo e in più
viveva in Armenia. Il che già me lo rende simpatico e interessante:
ebreo, che parla la lingua di un paese musulmano e vive in un paese
cristiano (mai dimenticare che l'Armenia è stato il primo paese
della storia a dichiararsi ufficialmente cristiano). Cose quasi
impensabili al giorno d'oggi.
Il
padre di Sarmad faceva il mercante. Ora, com'è come non è, al
giovane arrivò l'informazione che in India gli oggetti d'arte
persiana si vendevano molto bene. Detto fatto, ne radunò una certa
quantità e partì verso est. Anzi, per dire tutta la verità partì verso
sud, per girare a est solo una volta arrivato in Persia, visto che la
strada verso l'India passava da Ispahan.
Arrivato nella città di
Thatta, nell'attuale provincia pakistana del Sindh, incontrò un
giovane induista, Abhay Chand, e se ne innamorò perdutamente. Da un
giorno all'altro rinunciò alle sue ricchezze, rinunciò pure a
vestirsi e si mise ad andare in giro nudo per le strade, come lo
facevano i sadhu, gli asceti induisti. Ogni mattina andava a sedersi sui
gradini della casa nella quale abitava Abhay e se ne stava lì ad
aspettare, per ore. Alla fine il padre di Abhay, commosso da quella
perseveranza e dalla purezza dei sentimenti dell'asceta verso suo
figlio, lo invitò ad entrare. L'amore di Sarmad fu pienamente
ricambiato da Abhay, così i due lasciarono Thatta e dopo varie
peregrinazioni finirono con l'arrivare a Delhi.
L'imperatore
dell'India a quei tempi era quello Shah Jahan che fece costruire sia il
Forte Rosso che la Grande Moschea di Delhi, ma anche e soprattutto il
Taj Mahal di Agra, che tra tutte le cose belle che ho avuto la fortuna di vedre in vita mia è di sicuro la più bella.
Jahan aveva tre figli, Dara Shikoh, Shah Shujah e
Aurangzeb. Il primogenito, Dara Shikoh, era un musulmano estremamente
tollerante che si riconosceva nel sufismo, quella scuola di pensiero
mistico lontana dall'instransigenza dei mullah almeno quanto il
francescanesimo cristiano lo è stato dal fanatismo dei Crociati. È
del tutto naturalmente che Dara si avvicinò a Sarmad, del quale si
mise a seguire gli insegnamenti.
Purtroppo
alla morte di Shah Jahan fu il suo terzo figlio, Aurangzeb, un
musulmano intransigente, fautore della sharia, che si impadronì del
trono dopo avere sconfitto in battaglia i suoi due fratelli — che
più tardi farà uccidere, ma questa è un'altra storia. Siccome il
primo dei due, Dara, era stato un devoto di Sarmad, Aurangzeb fece
arrestare l'ormai vecchio saggio e lo condannò a morte. Sarmad fu
decapitato e la sua testa rotolò nella polvere nei pressi della
porta est della Grande Moschea, dove ancora oggi la sua tomba è meta
di pellegrinaggi.
Dei
suoi componimenti poetici, 334 rubayyat, o quartine, sono giunte fino
a noi. Tra queste ce n'è una nella quale lui stesso riconosce come suoi maestri due grandi poeti persiani, Khayyam e Hafez. Il primo, che
oltre ad essere poeta fu anche un importante matematico, al quale
dobbiamo la codificazione dei principi dell'algebra e la soluzione
delle funzioni cubiche, era nato nella provincia persiana del
Khorasan nel 1048. Il secondo, considerato il più grande poeta
persiano della storia, nacque a Shiraz nel 1315. Entrambi celebrarono
l'amicizia, il vino e l'amore ed entrambi stigmatizzarono l'ipocrisia
religiosa. Ricordo ancora con una certa emozione il giorno in cui
ebbi l'occasione di visitare la tomba di Hafez, nei giardini Musalla,
nella periferia nord di Shiraz.
Non
ho trovato traccia di una traduzione italiana delle quartine di
Sarmad. Ne esiste una in inglese, accompagnata da una nota biografica
di tale Paul Smith, traduttore anche di vari altri poeti classici
persiani. Amando quel genere di poesia, mi sono ovviamente subito
scaricato quel libro, del quale prevedo una lettura goduriosa.
Magari
mi dirai che la poesia persiana del XVII secolo, per non parlare di
quelle dell'XI e del XIV, ti interessa quanto la scultura
proto-bizantina dell'Anatolia settentrionale, o quanto la
composizione di canzonette da minatori nell'Alaska degli anni 30 del
'900, ma avrai torto. Almeno a mio modesto avviso.
Io
te l'ho detto. Mo' vedi tu.
Tanto per farti un esempio, questa quartina che traduco da una traduzione inglese,
quindi da prendersi con tutte le pinzette possibili, mi dà grande
gioia.
Sono
una cosa inutile. Un albero che non dà frutti.
Avendo
calcolato il mio valore ho capito.
Sono
la più piccola particella
che
non è nemmeno inclusa nel calcolo.