mercoledì 26 luglio 2017

L'isola che mi fa sognare



Sono anni che mi dico che vorrei andarci. So che non ci andrò mai — e non solo perché andarci è molto difficile e complicato. Non è un'isola dei Mari del Sud, anche se è in mezzo al mare ed è a sud. È un posto dove piove in media 252 giorni all'anno. La temperatura massima mai registrata è di 24,4° e anche se la minima è di 4,6° la cosa è poco consolante. La superficie è un quarto di quella della Repubblica di San Marino, ma un buon terzo delle terre è occupato dai pendii del vulcano Queen Mary's Peak. C'è un unico paese, dove abitano 293 persone.
La prima isola di cui ho sognato in vita mia è stata quella di Robinson Crusoe. Defoe la mette dalle parti di Trinidad, al largo del Venzuela, anche se a ispirarlo è stata l'avventura vissuta da un certo Alexander Selkirk, un pirata scozzese che fu volontariamente abbandonato dal capitano della nave a bordo della quale si trovava su un'isoletta che oggi porta il suo nome, a 700 chilometri dalle rive cilene.
Più tardi sono arrivate L'isola misteriosa di Jules Verne e quella della Tortuga di Salgari, poi le Trobriand di Malinowski e la Ta'u di Margaret Mead, la Pitcairn degli ammutinati della Bounty, l'Isola di Pasqua e le Kerguelen. Ancora qualche giorno fa, quando ho letto che l'isoletta di Little Ross — quasi 12 ettari, con un casa e un faro, al largo della Scozia — era in vendita per 365.000€ non ho potuto evitare di pensare che beh, se fossi ricco magari...
Ma questa è diversa. Questa è la terra abitata più lontana da un'altra terra abitata che ci sia al mondo. E quell'altra terra abitata è anche lei uno sputacchio d'isola con poco più di 700 abitanti, più di 2.100 chilometri a nord, Sant'Elena. Se poi uno vuole trovare dei negozi, dei ristoranti e un po' di facce sconosciute ha la scelta tra farsi 2.431 chilometri verso est, per arrivare a Città del Capo, oppure 3.415 verso ovest, per arrivare a Montevideo. In nave, visto che sull'isola non c'è un aeroporto. Non esiste al mondo posto più sperduto.
Le uniche navi ad andarci con una certa regolarità sono dei pescherecci sudafricani, otto o nove volte all'anno. Ogni tanto arriva anche una nave da crociera, ma è raro. La nave deve buttare l'ancora al largo, poi ci vogliono le scialuppe per sbarcare i pochi turisti che non vedono l'ora di bighellonare per le vie del paese, spingendosi magari fino ai campi di patate e ai pascoli delle pecore. Prima di partire comprano qualche francobollo e magari un maglione e poi via di nuovo sulle scialuppe.
Sì, lo so, gli abitanti non sono molto accoglienti. Per sbarcare devi prima chiedere l'autorizzazione ed è già capitato che quell'autorizzazione venisse rifiutata a qualche navigatore solitario di passaggio che magari avrebbe voluto solo bersi un paio di birre in compagnia di qualche altro essere umano, o mangiarsi un'aragosta o un po' di carne di pecora con le patate dopo settimane e settimane di solitudine.
Sì, lo so, passare la vita in capo al mondo senza mai vedere più di 292 altre facce non può che indurirti e renderti diffidente verso tutto ciò che viene dall'esterno.
Eppure io su quell'isola sogno davvero di andarci. Anche se non ci andrò mai.
Quello che succede lo so da Facebook. Per esempio venerdì scorso la nave Edinbugh ha lasciato l'isola con a bordo tre ragazze che andranno a continuare i loro studi in Gran Bretagna. Scrivo queste righe e le immagino a bordo. Ormai dovrebbero vedere da lontano le coste sudafricane. Se tutto va bene sbarcheranno stasera. Chissà se è il loro primo viaggio lontano da casa? Dove dormiranno a Città del Capo? Quanti giorni si fermeranno prima di partire per Londra? E una volta arrivate là come sopporteranno lo choc? Difficile da immaginare.
Sì, lo so, oggi sull'isola hanno una connessione internet, possono vedere il mondo. Ma se penso al mio choc, quello della mia prima volta a New York, città che avevo visto decine e decine di volte al cinema, se penso a quel mio choc di ragazzo che comunque aveva sempre vissuto in una grande città, non riesco ad immaginare nemmeno da lontano quale sarà il loro.
Ricordo quanto successe nel 1961. Un'improvvisa eruzione vulcanica spinse tutti gli abitanti ad andarsi a rifugiare su un'isola deserta a 35 chilometri da casa. Da lì furono tratti in salvo da una nave olandese, che li portò in Gran Bretagna. Ma due anni dopo, quando venne loro proposto di scegliere tra restare in Inghilterra e tornare a casa, la maggior parte delle famiglie decise di tornare, alla faccia delle autostrade, degli scones, del tè delle 5 e della BBC. Gente fiera. Gente solitaria.
Pare che le rare volte che un italiano passa da quelle parti la prima cosa che si sente chiedere è se è di Camogli. Già, perché tra gli otto maschi e le sette femmine da cui tutta la popolazione discende, due erano dei camogliesi, Gaetano Lavarello e Andrea Repetto, che vi naufragarono nel 1892.
Va bene, la smetto qui.
Una sola cosa ancora: l'isola è ovviamente Tristan da Cunha. E mi fa sognare.

martedì 25 luglio 2017

Della carota



Che in altre parti del mondo — in India per esempio — le carote fossero viola lo sapevo perché l'ho visto con i miei occhi. Non sapevo però perché le nostre carote fossero arancioni. Ma incominciamo dall'inizio. E parliamo della daucus carota.
Botanicamente parlando, daucus è un genere della famiglia delle apiaceae, dell'ordine degli apiales, delle sottoclasse delle rosidae e mi fermo qui, tanto siamo tutti fatti di quella roba di cui sono fatti i sogni, carote comprese. Pare che nell'antica Grecia la carota la chiamassero καρωτόν, cioè karotòn, il che è un po' ridicolo, ma non importa. Ciò che importa è che le carote erano un po' viola, un po' rosa, un po' biancastre e un po' gialle.
Poi cos'è successo? È successo che verso la fine del '600, in seguito a una sere di cose che non ti sto a raccontare e che vanno dalla Pace di Münster del 1648 alla Guerra degli Otto Anni, con tanto di presa di possesso del porto di Brielle da parte della Marina indipendentista olandese, tutte cose delle quali puoi trovare notizie su internet, è nata la Repubblica delle Sette Province Unite. Non che gli olandesi ci tenessero a vivere in una repubblica, per carità. Ma visto che Guglielmo I, detto il Taciturno, era morto e che non sembrava esserci in giro qualcun altro che desse voglia di farlo re, decisero di mettere su una repubblica.
Ma laddove tutto questo interessa le carote (si fa per dire) è che Guglielmo I, ancora oggi considerato il Padre della Patria con tanto di maiuscole, apparteneva alla dinastia dei Nassau-Orange.
Lasciamo pure perdere i Nassau, che come tutti sappiamo erano originari della Renania-Palatinato, che in tedesco fa Rheinland-Pfalz, con quel Pfalz un po' ridicolo ma non importa, e discendevano da tale Dudo-Enrico che visse a cavallo (non perché era nobile, aspetta), dicevo a cavallo dell'XI e del XII secolo. Sì, lasciamoli da parte e veniamo agli Orange, casato fondato da Bertrand I (o Bertrando di Baux) attraverso il suo matrimonio con Tiburge II di Orange nel 1173. Questi Orange vivevano dalle parti dell'omonima città francese, non tiravano il loro nome dall'arancia, frutto che sarebbe arrivato in Europa dal sud-est asiatico solo verso il 1300, bensì dal dio celtico dell'acqua Arausio. Quando i Romani fondarono un insediamento sulle rive del Rodano, nell'anno 35, lo chiamarono proprio così, Aurasio. Cioè, lo chiamarono Colonia Julia Firma Secundanorum Arausio, ma siccome il nome era un po' lungo, la gente si mise a chiamarlo solo Aurasio, il che era nettamente più comodo. Com'è come non è, Aurasio diventò prima Aurenja e poi Aurenjo in provenzale.
Là dove le cose si complicano è che il nome dell'arancia deriva dal sanscrito naranga, diventato poi narang in persiano e naranj in arabo. E qui, se mi permetti, mi offro una digressione. Eccola qua.
Pare siano stati i portoghesi a importare l'arancia in Europa ed è per questo che in Albania si chiama portokall, in Bulgaria e in Macedonia portokal, in Grecia portokali, in Romania portocala, in Georgia p'ort'oxali e persino in Etiopia birtukan. Senza poi parlare del dialetto napoletano, che usa la parola purtuallo. Come vedi, questa digressione valeva la pena di essere fatta.
Ma torniamo alla carota. Verso la fine del '600, come dicevo all'inizio, un contadino olandese, per rendere omaggio a Guglielmo I, Padre della Patria, e a tutta la sua dinastia, si mise a selezionare le carote fino a ottenerne di arancioni. Lui non se l'aspettava, ma quelle carote arancioni, oltre ad essere più belle da vedere, avevano anche un sapore più dolce e delicato di tutte le altre. Inutile dire che tutti i contadini d'Olanda e poi d'Europa si misero a fare la stessa cosa e che è così che le nostre carote odierne hanno lo stesso colore dell'ornithogalum dubium, o stella di Betlemme, che è un fiore sudafricano del quale magari ti parlerò un'altra volta.
Per ora vado a farmi un buon caffè.

domenica 23 luglio 2017

Quattro piccoli appunti



Prendo il mio Foglie d'erba, di Walt Whitman. Voglio verificare una citazione che ho appena trovato nell'ultimo capitolo dell'autobiografia di Andre Agassi: 

Do I contradict myself? 
Very well then I contradict myself,
(I am large, I contain multitudes).
 
Credevo che il mio vecchio libro fosse con testo a fronte, inglese e italiano, ma scopro che è solo in italiano. L'ha pubblicato Einaudi, nel 1965. Io l'ho comprato nel '69, lo so perché metto sempre la data su tutti imiei libri.

Sullo scaffale riservato alla poesia, Foglie d'erba è di fianco a una versione originale inglese, Leaves of Grass, pubblicata da Signet Classics, una casa editrice newyorkese che dal '48 in poi ha pubblicato testi classici in formato tascabile a basso costo. Quel libro me l'ha regalato nel '72 Heather, una ragazza di Vancouver. Avevamo passato un paio di mesi insieme, grazie a lei avevo fatto il mio primo bagno nell'Oceano Pacifico. Ricordo che in piena estate l'acqua era freddissima. Il giorno della mia partenza, Heather mi ha accompagnato alla stazione ferroviaria e all'ultimo momento mi ha messo in mano un pacchetto, dicendomi di aprirlo sul treno. Il viaggio da Vancouver a Montreal durava 70 ore, ma il pacchetto l'ho aperto appena seduto. Sulla prima pagina interna, sopra una nota biografica dell'autore, c'era scritto Massimo - All my love.

Trovo la citazione in italiano, la traduzione non mi convince: 

Forse che mi contraddico?
Benissimo, allora vuol dire che mi contraddico,
(io sono vasto, contengo moltitudini)

Preferirei: 

Mi contraddico? 
Va bene, allora mi contraddico, 
(sono largo, contengo moltitudini).
 

Sfoglio il libro, qua e là trovo qualche sottolineatura. Per esempio: 

Dell'Uguaglianza — come se potesse danneggiar me concedere agli altri le stesse opportunità, i diritti che godo io — come se non fosse indispensabile ai miei diritti che anche altri li godano al pari di me.


Arrivo alla fine, all'ultima pagina e alla terza di copertina. Sulla destra c'è una semplice annotazione: Thoreau; sulla sinistra, tre citazioni. La prima, scritta con una biro nera:


Avete superato gli altri? Siete Presidente?

È una sciocchezza, tutti raggiungeranno quel punto, ciascuno d'essi, e passeranno oltre (p. 65)


La seconda, scritta con una biro blu: 
 

Producete grandi Individui, il resto seguirà (p. 424)


La terza, scritta con un pennarello nero:

Non ci siamo ottenebrati e instupiditi abbastanza coi libri? (p. 515)


Quattro piccoli appunti di 48 anni fa. Come un messaggio da quel Massimo di cui ho ricordi appannati.

Il messaggio dovrebbe insegnarmi qualcosa. Ma non so bene cosa.

 






venerdì 21 luglio 2017

Una ferita al silenzio



Credo di avere già parlato, in un post di un paio d'anni fa, di un cofanetto di tre CD introduttivi alla musica indiana che ho comprato molto tempo fa all'aeroporto di Delhi. C'è una voce narrante che spiega e ci sono dei brevi brani che permettono di capire meglio le spiegazioni.
Ieri mattina mi è venuta voglia di riascoltare il primo di quei CD e ascoltandolo mi sono detto che trovavo davvero molto belli i primi minuti di narrazione. E siccome quando trovo una cosa molto bella ho voglia di condividerla, eccola qua:

Nel cuore della musica c'è il silenzio. Quando questo silenzio, anhad, è reso udibile diventa nad, il suono primordiale. Nad è il suono percepibile, quello che i sensi possono captare. Ma è un suono ancora indifferenziato, non è ancora filtrato attraverso la scala melodica, il saptak delle sette note. Forse perché è indivisibile, nad viene anche chiamato Nad Brahma — la realtà suprema resa manifesta attraverso il suono.
La voce del musicista è cullata in questo ventre onnicomprensivo del suono, di cui il tambura [strumento indiano a quattro o cinque corde che vengono pizzicate durante tutto un raga per creare un bordone] si sforza di diventare l'eco.
È questo suono primordiale, puro, che è evocato, vissuto e comunicato attraverso la miriade di raga che i musicisti creano durante le loro esibizioni. E miracolosamente è attraverso l'esperienza del Nad Brahma che possiamo fondere le nostre identità individuali in quell'eterno e sempre creativo oceano di silenzio che è anhad.
Due oggetti devono colpirsi l'un l'altro per produrre nad — dev'esserci aghat.
È significativo che aghat voglia dire 'colpire', o 'ferire.' È solo una volta che il silenzio è stato ferito che nad può sorgere.
Nel cuore della musica indiana c'è quindi questa ammissione di vulnerabilità, questo riconoscimento del fatto che il cuore dev'essere trafitto. Dobbiamo arrenderci volontariamente al dolore della ferita del silenzio. Solo così possono nascere la gioia e la bellezza della musica, che è la più perfetta delle arti.
L'anhad può essere colpito in vari modi per creare il nad, con i palmi delle mani, con le unghie, con il vento o con il fiato, con del cuoio o con il corpo. Lo strumento principale della musica è la voce umana. Questa resta, malgrado la multitudine di strumenti, l'ideale al quale ogni strumento fa di tutto per avvicinarsi. Perché la voce è suprema?
Si pensa che tutti gli strumenti, per quanto sofisticati, abbiano dei limiti, mentre la voce non ne ha nessuno. Inoltre la voce è l'eco di ciò che l'orecchio sente naturalmente e spontaneamente. E poi la voce sembra creare musica da sola, senza oggetti a lei esterni: è indivisibile e autosufficiente. Se la musica è un dono divino, la voce umana è l'esempio più perfetto di questo dono.

A questo punto sul mio CD c' è l'inizio del Raga Shankara cantato da Pandit Jasraj, che puoi trovare qui.
E poi, tanto per permetterti di fare la differenza, ecco lo stesso raga cantato dalla voce femminile di Veena Sahasrabuddhe, o suonato dal sarangi di Ram Narayan.

sabato 8 luglio 2017

Un grande poeta

La tomba di Sarmad, a Delhi



Non so dirti perché mi piaccia la musica classica persiana. So dirti ancora meno perché della Persia classica mi piaccia molto pure la poesia. Ma è così e non posso farci niente. Quindi sono stato molto contento quando qualche frase nell'ultimo libro di Arundhati Roy, "Il ministero della suprema felicità," mi ha fatto scoprire un poeta persiano che non conoscevo, Sarmad Shaheed, o, se vogliamo pure mettergli il tradizionale titolo onorifico, Hazrat Sarmad Shaheed.
Sarmad era sì persiano, ma di lingua, perché di famiglia era ebreo e in più viveva in Armenia. Il che già me lo rende simpatico e interessante: ebreo, che parla la lingua di un paese musulmano e vive in un paese cristiano (mai dimenticare che l'Armenia è stato il primo paese della storia a dichiararsi ufficialmente cristiano). Cose quasi impensabili al giorno d'oggi.
Il padre di Sarmad faceva il mercante. Ora, com'è come non è, al giovane arrivò l'informazione che in India gli oggetti d'arte persiana  si vendevano molto bene. Detto fatto, ne radunò una certa quantità e partì verso est. Anzi, per dire tutta la verità partì verso sud, per girare a est solo una volta arrivato in Persia, visto che la strada verso l'India passava da Ispahan. 
Arrivato nella città di Thatta, nell'attuale provincia pakistana del Sindh, incontrò un giovane induista, Abhay Chand, e se ne innamorò perdutamente. Da un giorno all'altro rinunciò alle sue ricchezze, rinunciò pure a vestirsi e si mise ad andare in giro nudo per le strade, come lo facevano i sadhu, gli asceti induisti. Ogni mattina andava a sedersi sui gradini della casa nella quale abitava Abhay e se ne stava lì ad aspettare, per ore. Alla fine il padre di Abhay, commosso da quella perseveranza e dalla purezza dei sentimenti dell'asceta verso suo figlio, lo invitò ad entrare. L'amore di Sarmad fu pienamente ricambiato da Abhay, così i due lasciarono Thatta e dopo varie peregrinazioni finirono con l'arrivare a Delhi.
L'imperatore dell'India a quei tempi era quello Shah Jahan che fece costruire sia il Forte Rosso che la Grande Moschea di Delhi, ma anche e soprattutto il Taj Mahal di Agra, che tra tutte le cose belle che ho avuto la fortuna di vedre in vita mia è di sicuro la più bella. 
Jahan aveva tre figli, Dara Shikoh, Shah Shujah e Aurangzeb. Il primogenito, Dara Shikoh, era un musulmano estremamente tollerante che si riconosceva nel sufismo, quella scuola di pensiero mistico lontana dall'instransigenza dei mullah almeno quanto il francescanesimo cristiano lo è stato dal fanatismo dei Crociati. È del tutto naturalmente che Dara si avvicinò a Sarmad, del quale si mise a seguire gli insegnamenti.
Purtroppo alla morte di Shah Jahan fu il suo terzo figlio, Aurangzeb, un musulmano intransigente, fautore della sharia, che si impadronì del trono dopo avere sconfitto in battaglia i suoi due fratelli — che più tardi farà uccidere, ma questa è un'altra storia. Siccome il primo dei due, Dara, era stato un devoto di Sarmad, Aurangzeb fece arrestare l'ormai vecchio saggio e lo condannò a morte. Sarmad fu decapitato e la sua testa rotolò nella polvere nei pressi della porta est della Grande Moschea, dove ancora oggi la sua tomba è meta di pellegrinaggi.
Dei suoi componimenti poetici, 334 rubayyat, o quartine, sono giunte fino a noi. Tra queste ce n'è una nella quale lui stesso riconosce come suoi maestri due grandi poeti persiani, Khayyam e Hafez. Il primo, che oltre ad essere poeta fu anche un importante matematico, al quale dobbiamo la codificazione dei principi dell'algebra e la soluzione delle funzioni cubiche, era nato nella provincia persiana del Khorasan nel 1048. Il secondo, considerato il più grande poeta persiano della storia, nacque a Shiraz nel 1315. Entrambi celebrarono l'amicizia, il vino e l'amore ed entrambi stigmatizzarono l'ipocrisia religiosa. Ricordo ancora con una certa emozione il giorno in cui ebbi l'occasione di visitare la tomba di Hafez, nei giardini Musalla, nella periferia nord di Shiraz.
Non ho trovato traccia di una traduzione italiana delle quartine di Sarmad. Ne esiste una in inglese, accompagnata da una nota biografica di tale Paul Smith, traduttore anche di vari altri poeti classici persiani. Amando quel genere di poesia, mi sono ovviamente subito scaricato quel libro, del quale prevedo una lettura goduriosa.
Magari mi dirai che la poesia persiana del XVII secolo, per non parlare di quelle dell'XI e del XIV, ti interessa quanto la scultura proto-bizantina dell'Anatolia settentrionale, o quanto la composizione di canzonette da minatori nell'Alaska degli anni 30 del '900, ma avrai torto. Almeno a mio modesto avviso.
Io te l'ho detto. Mo' vedi tu.
Tanto per farti un esempio, questa quartina che traduco da una traduzione inglese, quindi da prendersi con tutte le pinzette possibili, mi dà grande gioia.

Sono una cosa inutile. Un albero che non dà frutti.
Avendo calcolato il mio valore ho capito.
Sono la più piccola particella
che non è nemmeno inclusa nel calcolo.

venerdì 7 luglio 2017

Elogio del pelo



Siamo ormai in piena estate e come ogni anno è arrivata la solita epidemia di isteria pseudo-salutista e di fanatismo anti-pilosità femminile. A me, come ogni anno, viene un po' da vomitare.
Non credo di essere solo. Credo però che la pressione sia tale che molti esitano a confessare di non essere d'accordo con il dogma politicamente corretto della femmina depilata.
A più di quarant'anni di distanza ricordo ancora con un certo ribrezzo l'impressione che mi fece il primo contatto con un pube femminile interamente rasato. Fu una cosa tanto raccapriciante quanto sorprendente, che mi provocò uno stupore di quelli che si provano davanti a qualcosa, o qualcuno, di incommensurabilmente stupido. Perché?, mi chiesi. Perché?
Da allora sono stato abbastanza fortunato, o forse sono solo stato estremamente vigile, rifiutando anche solo la possibilità di un contatto intimo con qualunque persona di sesso femminile mi lasciasse sospettare una propensione sconsiderata alla rasatura totale. Negli anni ho dovuto finire con l'accettare l'assenza di peli sulle gambe, andando fino a sorridere, falsamente compiaciuto, quando la donna con la quale ero mi diceva "guarda che bello! Mi sono rasata le gambe!", manco quello fosse stato un giustificabile motivo d'orgoglio. 
Ma sono soprattutto i peli sotto le ascelle che mi sono (troppo) spesso mancati. Mi è mancata la ricchezza del loro mistero, la profondità del loro sentore, il contatto vellutato con la loro densità.
Quanto al pube, quanta miseria in quelle colline spelacchiate, in quelle tristi superfici umiliate da rasoi e cerette, rese sterili e morte da incomprensibili aneliti verso non so quale stupida purezza! Un sesso privato della sua corona di peli l'ho sempre visto come una cosetta squallida e umiliata, come uno di quegli alberelli potati fino ad assomigliare a dei vasi barocchi, o una di quelle statuette di ceramica da quattro soldi che la gente compra per metterle sul comò ad affermare un buon gusto che buon gusto lo è solo per chi gusto non ne ha.
Forse prenderai queste mie parole per le divagazioni di un vecchio solitario che, non avendo di meglio da fare, di sesso si limita a parlare. Fai pure. Ma quando cammino per le vie di una città e mi sento assalito da ogni parte da immagini di giovani donne che sembrano affermare come una vittoria alle Termopili la loro triste rinuncia ad ogni traccia di animalità, di pilosità e di odore, quando incrocio, a centinaia, quelle specie di insipidi surrogati di femmine dalle quali emanano solo profumi artificiali, quei corpi negati sotto strati di creme, deodoranti, ciglia finte, sederi e seni rifatti, nasi limati e labbra botulinate, quando vedo solo movimenti studiati e coreografati, sguardi calcolati e ammiccamenti privi di ogni spontaneità ripenso con gioia a quegli anni passati ad assaporare ambrosie delle quali ormai resta solo il ricordo.