Ho trovato questa foto sul sito del Washington Post.
La didascalia dice: “25 sett. 2011. Un contadino palestinese tiene un ramo d'ulivo rotto nel villaggio di Qusra, West Bank. Contadini palestinesi hanno trovato più di quattrocento ulivi sradicati o spezzati domenica e ne hanno dato la colpa ai vicini coloni ebrei estremisti”.
Ci sono foto così, che ti saltano agli occhi mentre stai facendo colazione e che ti fanno ribollire il sangue. In realtà è solo in un secondo momento che mi sono detto che l'ulivo è considerato come l'albero della pace da ebrei e cristiani. Non ci avevo nemmeno pensato perché l'ulivo è qualcosa di più forte: è tutti noi mediterranei, è l'antico simbolo di quelli che venivano chiamati i popoli dell'ulivo, le civiltà dell'ulivo. Non più di una settimana fa mi ha fatto sorridere l'osservazione di un'amica californiana che mi diceva “adesso gli ulivi e l'olio d'oliva ce l'abbiamo anche noi”, perché ce ne sono piantagioni in California. Ho quasi sentito un piccolo dolore, come se si fosse trattato di un'appropriazione indebita.
Gli ulivi della Toscana, quelli, vecchi, vecchissimi e magnifici delle Puglie, quelli del Marocco, della Grecia, dell'Egitto, di Israele, dell'Andalusia, che tengono su da secoli fino a diventare esseri contorti che fanno pensare a certi personaggi del Signore degli anelli sono... noi. E c'è un senso di immensa barbarie nell'idea di spezzarli volutamente e sistematicamente uno per uno. È come fare un falò di pane, o pisciare dentro un bicchiere d'acqua. Annientare, negare umanità, spargere odio a piene mani.
Trovo questa foto più insopportabile di mille immagini di guerra, forse perché immagini di guerra ne vediamo, ahimé, ogni giorno, mentre questa non me l'aspettavo proprio. E trovo che ci voglia una certa volontà per resistere alla tentazione dell'odio verso chi di questo crimine si è reso colpevole. Una volontà indispensabile, certo, ma faticosa, sempre più faticosa.