venerdì 2 settembre 2011

Di fotografia, ancora

Leica A

Il mio post dell'altro ieri, intitolato Di fotografia, mi ha valso vari commenti. Grazie innanzitutto a chi mi ha offerto la sua opinione. Ma vorrei tornare sul tema della fotografia, sul quale non solo ci sarebbero un sacco di cose da dire, ma sul quale in molti abbiamo, a torto o a ragione, l'impressione di avere un sacco di cose da dire.
Mi è tornata in mente quella storiella secondo la quale dando a una scimmia una tastiera di computer su cui scrivere, statisticamente prima o poi ci si dovrebbe trovare in mano il testo integrale della Bibbia (o dell'Iliade, o di quello che volete).
Allo stesso modo, dando in mano alla stessa, occupatissima scimmia una macchina fotografica, sarà inevitabile, prima o poi, avere sotto gli occhi una cosa degna di Avedon, Koudelka, o Burri.
La “bella” fotografia, se non addirittura il capolavoro, non è di per sé indice di genialità creativa. Può essere un incidente di percorso, un caso, un unicum dovuto a un'ineluttabilità legata alla quantità di scatti. La differenza tra il dilettante e il professionista sta nella ripetibilità di questo unicum molto più che nelle indicazioni riportate sulla busta paga del fotografo. Che chi ha fatto lo scatto sia “fotografo professionista” o no, cioé che si guadagni da vivere o no scattando foto, c'entra ben poco.
Non solo: non è nemmeno detto che questa ripetibilità sia più probabile per chi si guadagna da vivere scattando foto che per altri, che fanno altri mestieri. Non si capirebbe altrimenti perché esistanto tante foto scattate da “professionisti” che sono tanto scadenti, ininteressanti, banali e insulse.
La “professionalità” non è mai prova di qualità, tanto meno nelle nostre società mercantili. Semmai è prova di professionalità nella vendita, il che è un'altra cosa. Confondere le due è profondamente errato e serve solo a portare acqua al mulino dei mercanti più disonesti.
Con questo non voglio dire che non ci sia mai nessuna differenza tra dilettanti e professionisti. Le differenze ci sono, ma quando ci troviamo davanti a una situazione nella quale chiunque ha la possibilità di produrre migliaia e decine di migliaia di scatti all'anno per un prezzo irrisorio, queste differenze si trovano altrove, nella conoscenza tecnica del mezzo impiegato, nella capacità o meno a incorrere in errori madornali di esposizione, inquadratura, ecc. Il che è un vero problema, perché ci spinge a un cambiamento epocale della valutazione della professionalità e del dilentattismo: o restiamo ancorati a una logica che ci fa chiamare professionista chiunque riesca a vivere delle sue foto, oppure dobbiamo trovarne un'altra.
In realtà tutte le discipline artistiche hanno la stessa caratteristica: lasciano spazio sia ai maestri che ai ciarlatani. Finché i mercati erano limitati e meno dominanti, si operava una specie di selezione naturale che lasciava adito a pochi dubbi. Ma oggi, quando la figura dell'artista è spesso considerata più importante della sua creazione, tutto diventa più complesso. Se da un lato i maestri restano maestri e i fotografi della domenica restano fotografi della domenica (come i teatranti, i ballerini, i cineasti, ecc. della domenica), assistiamo a un'espansione pazzesca di quell'area grigia e indistinta nella quale si situano milioni di dilettanti che “hanno un occhio” e sanno sfruttare al meglio le possibilità tecniche di apparecchi accessibili e relativamente semplici.
C'è chi si indigna di questa nuova situazione, prendendo spunto da comportamenti particolarmente scorretti. C'è chi ne approfitta in maniera vergognosa, spostando il rapporto coi professionisti verso un piano amatoriale. Ma queste reazioni mi sembrano destinate a sparire col tempo. Cosa verrà fuori da questo rimescolamento delle carte? Nessuno lo può dire con certezza, tanto più che il rimescolamento in corso va largamente al di là del campo dell'espressione artistica allargandosi alla politica, alle ideologie, all'etica, alla morale, al modo di vivere di tutti noi in società che sembrano impazzite e che corrono al baratro gridando di gioia.
Ogniqualvolta mi sono trovato a lavorare in paesi poveri, del terzo mondo, mi sono sorpreso a pensare quanto la vita laggiù fosse più “facile”. Non certo più facile nei rapporti con lo Stato, né coi datori di lavoro, ma estremamente più facile umanamente ed eticamente. Quando guadagnarsi da vivere è difficile (e parlo di vere difficoltà, ben più grandi di quelle che molti di noi hanno, difficoltà da terzo mondo, appunto), è molto più facile distinguere il bene dal male, il giusto dall'ingiusto, l'accettabile dall'inaccettabile. I “buoni” sono davvero buoni e i cattivi lo sono fino in fondo. C'è poco da discutere in società “semplici” nelle quali la sopravvivenza quotidiana è il problema essenziale della maggior parte della popolazione. Le disquisizioni dotte e complesse nascono solo nel momento in cui una data società diventa lei stessa dotta e complessa. La risposta alle domande che tanti di noi si pongono oggi non può essere trovata se non attraverso posizioni di rifiuto quanto più possibile radicale dell'insieme dei valori che la nostra società attuale tende ad imporci. Non si tratta di essere passeisti e di sognare un ritorno indietro verso una società rurale, ma di cercare quotidianamente e in tutti i campi di non lasciarsi abbindare da chi ha bisogno che le cose siano sempre più confuse e complesse per aumentare il suo potere e il suo controllo sugli altri.
Ci sono discussioni che vanno semplicemente rifiutate perché non hanno altra utilità che quella di togliere dignità a chi vi prende parte. Non è vero che si debba sempre e comunque cercare di dimostrare a chi ha torto che lo ha: è sempre più vero che il silenzio e il rifiuto del finto dialogo sono le sole scelte dignitose da fare.
Vabbé, mi sono lasciato prendere la mano... Ma spero che quel che volevo dire sia comunque chiaro. Dilettanti o professionisti che siamo, cerchiamo di andare avanti in maniera dignitosa, senza occuparci di nani, ballerine, incantatori e profeti che senza la nostra complicità cesserebbero semplicemente di esistere. Smettiamo di accordare importanza a chi blatera e sproloquia, a chi vende fumo e soprattutto a chi fa di tutto per farci credere che senza quel fumo saremmo dei poveri sprovveduti, degli ignoranti e delle vittime inconsapevoli. È vero proprio il contrario: è sprecando adrenalina e saliva ad ogni nuova baggianata che rischiamo di finire tutti come i personaggi del 1984 di Orwell.
E adesso un buon caffé, prima di fare qualche scatto.