Questa
bella ragazza, sempre pronta ad accoglierti al suo fianco su una
panchina, si trova all'ingresso del Centre Culturel Français
di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso. Ieri mattina, verso le 10,
a una cinquantina di metri da lei, praticamente sul marciapiedi di
fronte, un gruppetto di uomini armati ha prima fatto saltare per aria
un'automobile parcheggiata, poi ha
incominciato a sparare sui passanti ed è entrato nella sede
dello Stato Maggiore dell'esercito burkinabé. Allo stesso momento un
altro gruppo armato tentava di dare l'assalto all'ambasciata
francese, a un paio di chilometri da lì. Verso mezzanotte il
Ministro della Sicurezza, Clément Sawadogo, ha comunicato in una
conferenza stampa che 8 assalitori e 8 militari burkinabé erano
stati uccisi e che i feriti erano 80, ma questa mattina il
giornale-radio francese parlava della possibilità di 30 morti.
Sono
stato più volte a Ouagadougou. Nel 2005 ci ho passato un mese
intero. Dirigevo un seminario di formazione per marionettisti allo
Spazio Culturale Gambidi, un po' in periferia, ma dormivo in un
albergo sullo stesso marciapiedi del Centre Culturel. Al mattino era
una macchina del Centre che mi portava a Gambidi, ma al pomeriggio
tornavo seduto sul portabagli di un motorino cinese guidato da uno
dei miei stagisti, che zigzagava allegramente nel traffico dei viali
polverosi della capitale.
Ho
molto amato il Burkina Faso. I francesi l'avevano chiamato Alto
Volta, dal nome del fiume che ha origine nel paese e poi va a
gettarsi nel Golfo di Guinea dopo aver attraversato il Ghana da nord
a sud. È Thomas Sankara, “il Che Guevara africano”, che l'ha
chiamato Burkina Faso, “la terra degli uomini integri.”
Dal
medioevo alla metà dell'800 quella parte di Africa Occidentale
ospitava il regno dei Mossi, popolo fiero, che seppe resistere per
secoli a tutti i tentativi di invasione e anche di penetrazione
dell'Islam. Poi arrivarono i francesi e dissero che quella era terra
loro. Tracciarono arbitrariamente delle frontiere, prima dicendio che
quelle terre erano parte integrante dell'Africa Occidentale Francese,
poi dividendole un po' tra Costa d'Avorio, Mali e Niger, poi
cambiando idea e dicendo che facevano parte della Costa d'Avorio,
poi cambiando di nuovo e inventandosi l'Alto Volta. Il tutto nel
giro di un centinaio di anni. Nel frattempo avevano distrutto il
tessuto sociale, cancellato le tradizioni, imposto una nuova lingua,
nuove leggi, nuovi comportamenti e dei libri di storia che incominciavano con
Nos ancêtres, les Gaulois (i nostri antenati, i Galli), come lo
sanno tutti quelli che sono nati nelle colonie francesi in giro per
il mondo.
Sì,
ho molto amato il Burkina Faso e ho spesso notato come nei paesi
vicini, come il Mali e il Niger, ma anche il Senegal, che è un po'
più in là, il Burkina avesse la reputazione di ospitare popoli
onesti e lavoratori. Dico popoli al plurale perché le frontiere
coloniali non hanno mai tenuto conto dei popoli, ma solo degli
interessi dei colonizzatori. Le frontiere dei paesi africani sono
linee immaginarie e decise a Parigi, a Londra, a Berlino, a Lisbona,
a Bruxelles e un po' anche a Roma. Posti lontani dove nessuno perdeva
tempo a chiedersi che senso avrebbero avuto quelle linee e che
tensioni avrebbero creato tra popoli diversi, che avevano sempre
vissuto in maniera autonoma e che improvvisamente si scoprivano
cittadini (di seconda classe, ovviamente) di paesi inventati. Allora è sempre
bene ricordare che nel Burkina Faso non vivono solo i Mossi, ma anche
i Gurunsi, i Bobo, i Senufo, i Fulbe e molti, molti altri.
Stamattina,
quando ho sentito dell'attentato di ieri, forse perché dieci minuti
dopo essersi svegliato uno è un po' più sensibile, o fragile, non
so, sono andato in sala e ho preso in mano la iena di bronzo che mi
piace tanto. L'ho comprata in un negozietto tra il Centre Culturel e
lo Stato Maggiore, dietro il grosso leone di cemento con la targhetta
che spiega che quello è un monumento simbolo dell'amicizia tra la
comunità urbana di Lione e la città di Ouagadougou
e che è stato inaugurato il 12 febbraio 2000.
Già, cent'anni
di colonizzazione, di appropriamento indebito, di distruzione di
tutto ciò che c'era da distruggere, e poi un bel monumento di
cemento come simbolo di amicizia.
Vallo
a raccontare a Augustin Varin, morto il 9 ottobre del 1918 e sepolto
nel piccolo cimitero militare francese di Ouagadougou. A quel
cimitero si accede dalla platea del teatro del Centre Culturel,
attravreso una porticina in ferro. La chiave ce l'ha uno dei custodi.
È per puro caso che un giorno l'ho visto aprire quella porticina e
passare dall'altra parte, dove ho intravisto delle tombe. L'ho subito
seguito.
C'erano
già stati attentati a Ouagadougou negli
ultimi anni, all'Hotel Splendid, al caffè Cappuccino, all'Aziz
Istanbul e al Taxi Brousse. Ce ne saranno altri, non c'è bisogno di
essere un profeta per immaginarlo.
Ho
rimesso
la mia iena sulla sua mensola. Ho guardato il quadro di fianco alla
poltrona, non firmato, ma dipinto da un pittore burkinabé. Quando
sono uscito di casa per andarmi a comprare il giornale, ho
accarezzato la piccola spirale di bronzo che da anni è fissata al
mio portachiavi.
E
poi mi è tornata in mente un'altra foto. L'ho scattata una domenica
pomeriggio. Eravamo andati non so più dove con il direttore del
Centre Culturel e stavamo tornando indietro. Avevo la macchina
fotografica in mano e il finestrino abbassato. Ogni tanto scattavo,
d'istinto. Per questo l'immagine è leggermente storta e anche un po'
sfuocata. Ma non importa. Questa foto l'ho sempre trovata assurda.
Piena di quell'assurdità che un po' dappertutto in Africa ti
sorprende e ti suscita una risata. Ma poi ti accorgi
che la risata ti si ferma in gola e diventa amara e
non sai più cosa farne. E di colpo ti senti solo e ti chiedi cosa ci
fai lì, a scattare foto e a insegnare come si muovono le marionette.
E
anni dopo, quando senti parlare di passanti uccisi da pallottole, di
passanti che magari stavano proprio andando al Centre Culturel, dove
magari avevano appuntamento ai tavolini del caffè di fianco alla
panchina dove quella ragazza sorridente e colorata è sempre
pronta ad accoglierti al suo fianco, ti
accorgi di avere un nodo in gola e di avere voglia di gridare e
magari anche un po' di piangere. Poi vai a comprare il giornale e
guardando la prima pagina ti torna in mente che domani si va a votare
e il nodo in gola si fa ancora ancora più grosso e quasi ti
impedisce di respirare. E per continuare a camminare sotto la pioggia
devi sforzarti, devi pensare al caffè che ti aspetta al bar e che
magari almeno una briciola di quel nodo se la porterà via.