sabato 3 marzo 2018

Ouagadougou mon amour



Questa bella ragazza, sempre pronta ad accoglierti al suo fianco su una panchina, si trova all'ingresso del Centre Culturel Français di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso. Ieri mattina, verso le 10, a una cinquantina di metri da lei, praticamente sul marciapiedi di fronte, un gruppetto di uomini armati ha prima fatto saltare per aria un'automobile parcheggiata, poi ha incominciato a sparare sui passanti ed è entrato nella sede dello Stato Maggiore dell'esercito burkinabé. Allo stesso momento un altro gruppo armato tentava di dare l'assalto all'ambasciata francese, a un paio di chilometri da lì. Verso mezzanotte il Ministro della Sicurezza, Clément Sawadogo, ha comunicato in una conferenza stampa che 8 assalitori e 8 militari burkinabé erano stati uccisi e che i feriti erano 80, ma questa mattina il giornale-radio francese parlava della possibilità di 30 morti.
Sono stato più volte a Ouagadougou. Nel 2005 ci ho passato un mese intero. Dirigevo un seminario di formazione per marionettisti allo Spazio Culturale Gambidi, un po' in periferia, ma dormivo in un albergo sullo stesso marciapiedi del Centre Culturel. Al mattino era una macchina del Centre che mi portava a Gambidi, ma al pomeriggio tornavo seduto sul portabagli di un motorino cinese guidato da uno dei miei stagisti, che zigzagava allegramente nel traffico dei viali polverosi della capitale.
Ho molto amato il Burkina Faso. I francesi l'avevano chiamato Alto Volta, dal nome del fiume che ha origine nel paese e poi va a gettarsi nel Golfo di Guinea dopo aver attraversato il Ghana da nord a sud. È Thomas Sankara, “il Che Guevara africano”, che l'ha chiamato Burkina Faso, “la terra degli uomini integri.”
Dal medioevo alla metà dell'800 quella parte di Africa Occidentale ospitava il regno dei Mossi, popolo fiero, che seppe resistere per secoli a tutti i tentativi di invasione e anche di penetrazione dell'Islam. Poi arrivarono i francesi e dissero che quella era terra loro. Tracciarono arbitrariamente delle frontiere, prima dicendio che quelle terre erano parte integrante dell'Africa Occidentale Francese, poi dividendole un po' tra Costa d'Avorio, Mali e Niger, poi cambiando idea e dicendo che facevano parte della Costa d'Avorio, poi cambiando di nuovo e inventandosi l'Alto Volta. Il tutto nel giro di un centinaio di anni. Nel frattempo avevano distrutto il tessuto sociale, cancellato le tradizioni, imposto una nuova lingua, nuove leggi, nuovi comportamenti e dei libri di storia che incominciavano con Nos ancêtres, les Gaulois (i nostri antenati, i Galli), come lo sanno tutti quelli che sono nati nelle colonie francesi in giro per il mondo.
Sì, ho molto amato il Burkina Faso e ho spesso notato come nei paesi vicini, come il Mali e il Niger, ma anche il Senegal, che è un po' più in là, il Burkina avesse la reputazione di ospitare popoli onesti e lavoratori. Dico popoli al plurale perché le frontiere coloniali non hanno mai tenuto conto dei popoli, ma solo degli interessi dei colonizzatori. Le frontiere dei paesi africani sono linee immaginarie e decise a Parigi, a Londra, a Berlino, a Lisbona, a Bruxelles e un po' anche a Roma. Posti lontani dove nessuno perdeva tempo a chiedersi che senso avrebbero avuto quelle linee e che tensioni avrebbero creato tra popoli diversi, che avevano sempre vissuto in maniera autonoma e che improvvisamente si scoprivano cittadini (di seconda classe, ovviamente) di paesi inventati. Allora è sempre bene ricordare che nel Burkina Faso non vivono solo i Mossi, ma anche i Gurunsi, i Bobo, i Senufo, i Fulbe e molti, molti altri.
Stamattina, quando ho sentito dell'attentato di ieri, forse perché dieci minuti dopo essersi svegliato uno è un po' più sensibile, o fragile, non so, sono andato in sala e ho preso in mano la iena di bronzo che mi piace tanto. L'ho comprata in un negozietto tra il Centre Culturel e lo Stato Maggiore, dietro il grosso leone di cemento con la targhetta che spiega che quello è un monumento simbolo dell'amicizia tra la comunità urbana di Lione e la città di Ouagadougou e che è stato inaugurato il 12 febbraio 2000


Già, cent'anni di colonizzazione, di appropriamento indebito, di distruzione di tutto ciò che c'era da distruggere, e poi un bel monumento di cemento come simbolo di amicizia.
Vallo a raccontare a Augustin Varin, morto il 9 ottobre del 1918 e sepolto nel piccolo cimitero militare francese di Ouagadougou. A quel cimitero si accede dalla platea del teatro del Centre Culturel, attravreso una porticina in ferro. La chiave ce l'ha uno dei custodi. È per puro caso che un giorno l'ho visto aprire quella porticina e passare dall'altra parte, dove ho intravisto delle tombe. L'ho subito seguito. 

 
C'erano già stati attentati a Ouagadougou negli ultimi anni, all'Hotel Splendid, al caffè Cappuccino, all'Aziz Istanbul e al Taxi Brousse. Ce ne saranno altri, non c'è bisogno di essere un profeta per immaginarlo.
Ho rimesso la mia iena sulla sua mensola. Ho guardato il quadro di fianco alla poltrona, non firmato, ma dipinto da un pittore burkinabé. Quando sono uscito di casa per andarmi a comprare il giornale, ho accarezzato la piccola spirale di bronzo che da anni è fissata al mio portachiavi.
E poi mi è tornata in mente un'altra foto. L'ho scattata una domenica pomeriggio. Eravamo andati non so più dove con il direttore del Centre Culturel e stavamo tornando indietro. Avevo la macchina fotografica in mano e il finestrino abbassato. Ogni tanto scattavo, d'istinto. Per questo l'immagine è leggermente storta e anche un po' sfuocata. Ma non importa. Questa foto l'ho sempre trovata assurda. Piena di quell'assurdità che un po' dappertutto in Africa ti sorprende e ti suscita una risata. Ma poi ti accorgi che la risata ti si ferma in gola e diventa amara e non sai più cosa farne. E di colpo ti senti solo e ti chiedi cosa ci fai lì, a scattare foto e a insegnare come si muovono le marionette.

 
E anni dopo, quando senti parlare di passanti uccisi da pallottole, di passanti che magari stavano proprio andando al Centre Culturel, dove magari avevano appuntamento ai tavolini del caffè di fianco alla panchina dove quella ragazza sorridente e colorata è sempre pronta ad accoglierti al suo fianco, ti accorgi di avere un nodo in gola e di avere voglia di gridare e magari anche un po' di piangere. Poi vai a comprare il giornale e guardando la prima pagina ti torna in mente che domani si va a votare e il nodo in gola si fa ancora ancora più grosso e quasi ti impedisce di respirare. E per continuare a camminare sotto la pioggia devi sforzarti, devi pensare al caffè che ti aspetta al bar e che magari almeno una briciola di quel nodo se la porterà via.