Ieri
pomeriggio ho fatto cuocere dei ceci. Come sono solito fare in questi
casi, ne ho messi in pentola più del necessario, dicendomi che il
resto l'avrei usato nei prossimi giorni, magari per un bell'hummus, o
una pasta e ceci, o altro.
Stamattina,
aprendo il frigorifero in vista della prima colazione, mi sono reso
conto che i ceci rimasti erano un po' tanti e ho deciso di dividerli
in due, mettendone una metà nel freezer. Stavo travasando ceci da un
contenitore medio a un contenitore piccolo quando mi è venuto da
chiedermi da dove venisse la parola cecio. E poi: cecio o cece? E
ancora: perché in inglese si chiama pisello di gallina (chickpea)
Perché
invece gli
americani
lo chiamano garbanzo
bean (fagiolo
garbanzo)? E i francesi, perché lo chiamano pois
chiche?
Non
preoccuparti: anch'io certe volte mi dico che la mia mente funziona
in modo strano. Ma non ci posso far niente, sono curioso. Soprattutto
quando si tratta di cose che probabilmente non serve a niente sapere.
Sbarazziamoci
subito delle traduzioni, incominciando dall'inglese, lingua
nella quale a quanto pare la parola chickpea
non vuole affatto dire pisello di gallina: quel chick
deriverebbe dal francese chiche
(misero),
derivato a sua volta dal latino cicer,
che già significava cece. In
latino però c'è anche ciccum,
parola che in origine indicava la membrana che ricopre i chicchi
della melagrana e che in italiano si chiama cica. La stesso ciccum
col tempo venne poi ad indicare una piccola quantità di qualcosa, un
generico nonnulla.
Speravo
che questo mio post avrebbe potuto essere essere ordinato,
proseguendo logicamente da un punto al seguente, ma quando si tratta
di etimologie — ed è questo il bello — non
si può mai procedere in linea retta. Ogni derivazione è un rimando
a qualcos'altro, che suscita nuove curiosità. Quindi non esitiamo a
procedere in maniera del tutto disordinata.
Nel
latino cicer
non
è difficile individuare la radice del cognomen
Cicero. C'è
chi sostiene che Cicerone si chiamasse così perché uno dei suoi
antenati si era arricchito con il commercio di ceci; c'è invece chi
sostiene che un altro
dei suoi antenati
avesse sul naso un bitorzolo grosso come un cece. Nessuno
parla di un antenato che commerciava in ceci e che contemporaneamente aveva un
bitorzolo sul naso, ma
non importa.
Tornando
all'inglese, l'Oxford
English Dictionary,
autorità assoluta in questo campo, ha la gentilezza di informarmi
che la parola chich
è
presente in
Inghilterra in
non so più quale testo scritto nel
1388 e
rispunta poi fuori nel
1548
nella
frase
cicer may be
named in English cich, or ciche pease, after the Frenche tongue
(il
cece in inglese può essere chiamato chich,
o chiche
pease,
dalla lingua francese).
Visto
che è venuto fuori il francese, la parola chiche,
che
si pronuncia
ʃiʃ,
(ovvero
scish)
è abbastanza comune, ma in un senso molto diverso. La si usa come
risposta a qualcuno che dice “scommettiamo che non saresti capace
di …?” ed è quindi traducibile con “scommettiamo!” La si può
anche usare nell'espressione tu
n'es pas chiche (non
sei chiche),
che vuol dire non hai il coraggio (di fare ciò di cui si sta
parlando). È
vero
che significha
anche misero, avaro, meschino, o scarso, come me lo indica il
dizionario Larousse, ma in
quel senso viene ormai usata molto poco.
Quanto
alla versione americana, garbanzo
bean
viene direttamente dallo spagnolo medio garbanço,
già presente nel 1565, che a sua volta deriva da algarroba,
ovvero dall'antico arvanço,
che deriverebbe dal gotico arwaits,
che deriverebbe dal protogermanico arwīts,
che avrebbe la stessa radice del latino ervum,
che come tutti sappiamo si traduce in italiano con veccia, che è
poi il nome regionale che viene dato qua e là a varie leguminose
selvatiche dei generi Lathyrus
e Lotus.
E
vista la fatica fatta per scrivere l'ultima frase, mo'
mi riposo un momento.
Fatto.
A
questo punto devo confessarti che mi ritrovo con una serie
impressionante di pagine aperte sul mio navigatore e che non mi
ricordo più come sono arrivato ad alcune di loro. Trovo per esempio
il
dizionario spagnolo-italiano aperto alla
parola guisante,
che pare voglia dire pisello e che è anche omonima di
quell'algarroba
che voleva dire carruba. Trovo la pagina che Wikipedia dedica al
Capitulare
de villis,
un decreto
emanato negli ultimi anni del regno di Carlo Magno, verso la fine
dell'VIII
secolo, per disciplinare le attività rurali, agricole e commerciali
delle aziende agricole dell'impero o ville. Trovo
un pagina di Google Maps nella quale appare il paesino di
Dimina, nella Tessaglia greca. Trovo una pagina sulla quale posso
iscrivermi a un corso di sami, lingua della Lapponia.
Trovo la pagina che l'Enciclopedi Treccani
dedica a Domenico di Giovanni, detto il Burchiello, poeta nato a
Firenze da
un legnaiuolo, Giovanni, e da una tessitrice, Antonia, nel 1404.
Premettendo
che di mestiere il Burchiello faceva il barbiere, la Treccani mi dice
che il suo soprannome viene dai versi
alla "burchia", genere di poesia comico-realistica che ebbe
nel barbiere fiorentino, se non l'inventore, certo uno dei più
brillanti creatori e divulgatori, tanto che dal genere stesso,
secondo A. F. Grazzini detto il Lasca, curatore di una edizione dei
sonetti di D. nel 1552, derivò il soprannome di Burchiello.
E
vedendo
queste pagine godo
come un grillo. E
godo ancora di più quando mi accorgo che cliccando arbitrariamente
sul terzo link che ognuna delle pagine citate mi offre, arrivo
sull'aggettivo spagnolo guisado,
che vuol dire in umido, sulla lista degli avvenimenti e dei
personaggi importanti dell'VIII secolo, sul sito del Museo delle
Tegole e dei Mattoni della città di Volos, su un altro sito
che
mi parla di una lingua parlata solo da 300 finlandesi e sulla pagina
che la Treccani dedica a Siena. E
godo ancora di più dicendomi che a questo mondo tutto è legato a
tutto e che se almeno internet servisse a farlo capire a un po' più
di gente, magari il mondo si metterebbe ad andare un po' meglio. Ma
poi mi dico anche che quando mi metto a pensare cose così mi sento
un po' ridicolo e
a questo punto ti lascio perché prima di partire
alla ricerca di poesie del Burchiello sento il bisogno di farmi un
buon caffè.
No,
aspetta, dimenticavo una cosa. Visto che ho parlato di ceci, ci
tenevo a regalarti una chicca poco conosciuta, un breve testo di
Italo Calvino pubblicato a
Parigi
dalla Bibliothèque
Oulipienne,
credo nel '75. Si tratta, come lo spiega lo stesso autore, di
un
brevissimo testo narrativo la cui chiave viene data in fondo: [...]
[il
testo] equivale
semanticamente a un altro testo di poche sillabe che a sua volta
equivale foneticamente alla successione d'una consonante e delle
cinque vocali come nei sillabari: BA-BE-BI-BO-BU, CA-CE-CI-CO-CU,
DA-DE-DI, DO-DU, e così via per tutte le consonanti dell'alfabeto.
Se
la spiegazione ti pare complicata, non temere: il testo vero e
proprio non lo è:
CIA-CE-CI-CIO-CIU
L'istituzione
delle Comuni, nella Cina di Mao, si scontrò agli inizi contro gravi
difficoltà. La distribuzione dei generi alimentari avveniva in modo
irregolare e i magazzini di vendita al pubblico restavano talora
completamente sprovvisti. Poteva succedere che una massaia che
chiedeva allo spaccio la sua razione di legumi si sentisse rispondere
che le scorte erano finite e che nel negozio vuoto non restava che il
ritratto del primo ministro appeso al muro.
—
Ci
ha ceci?
—
Ci
ho Ciu.
Vabbè,
se non sapevi che Ciù En-lai è stato a lungo primo ministro della
Cina maoista, allora sallo!