sabato 2 maggio 2015

Intervista a un manifestante milanese


Questa è la trascrizione della breve intervista di un manifestante, ieri, a Milano, da parte di un giornalista di Repubblica TV.

G. Cos'è successo?
M. No, niente; noi siamo arrivati e c'era un bordello e, tipo, eravamo in mezzo al corteo, casino... Ho spaccato un po' di robe, così...
G. Perché?
M. Perché? Perchè è una protesta, nel senso...
G. Una protesta, secondo te... Non è violenza fine a se stessa questa?
M. In che senso non è violenza fine a se stessa? No, è una protesta e io faccio bordello.
G. Lanciare le molotov alla polizia...
M. E vabbè, ma è una protesta, ripeto, cioè è...
G. È giusto così?
M. Certo, perché, cioè, noi dobbiamo fare sentire la nostra voce, secondo me, e se non lo capiscono con le buone, prima o poi lo capiranno in qualche altro modo, nel senso, cioè i politici e le persone normali, c'è un divario enorme e poi loro rubano.
G. Non hai avuto paura?
M. Vabbè, paura un pochino. Più che altro esaltato perché volevo anche avere qualcosa in mano per spaccare qualcosa, quello sì. Però è stato una bella esperienza, cioè ci stava.
G. Tu da dove vieni?
M. Provincia. Provincia di Milano.
G. Quindi è giusto quello che è successo? La polizia come si è comportata? La polizia, i carabinieri...
M. Ma, cioè, sinceramente io non ho visto scontri perché ero proprio in mezzo al casino. Poi siamo usciti un po' più in qua, siamo usciti da una parte con un po' di meno gente, un po' di meno bordello. Però io prima ero proprio in mezzo al corteo e ci stava di brutto, cioè...
G. Rifaresti quello che avete fatto oggi?
M. Ma io sinceramente non ho fatto niente, io ho visto tanta gente che spaccava le cose e ho pensato “cazzo, se avessi anch'io qualcosa in mano, spaccherei pure io”, cioè io ho guardato, non è che sono stato lì... Però è stato una bellissima esperienza, ci stava. Non era, cioè, il primo corteo in cui stavo, sono stato anche a altri cortei...
G. Per che motivo a questo punto dar fuoco a una banca? Che senso ha?
M. Minchia! Ma la banca è l'emblema della ricchezza, cioè se non do fuoco alla banca sono un coglione, minchia, secondo me...
G. Senza parolacce, scusa.
M. No, scusa, mi esprimo male probabilmente.
G. No, no, per carità, la tua testimonianza è importantissima.
M. [incomprensibile] comunque se dico le parolacce vuol dire che ti sto raccontando cose che ci sono veramente dentro. Se invece non le dicessi te le racconterei come una persona che è venuta qua, cioè, boh, fuori dalla cosa, tipo una persona che c'ha i soldi, che c'ha ricchezza. Io cerco di essere sempre dentro le cose, le esperienze, le emozioni.
G. Questi ragazzi hanno fatto bene sostanzialmente? Tu sei contento di come è andata questa giornata?
M. Boh, io quando sono in mezzo ai disastri sono contento comunque, cioè. È una protesta e ci sta.
G. Tu aderisci a qualche gruppo di contestazione?
M. Boh, non lo so, quando c'è casino mi ritrovo in mezzo e faccio casino anch'io, nel senso... Cioè... Mi diverto. Grazie. Ciao.

Prenditi pure qualche momento per piangere.
Fatto? Ok, allora vado avanti.
Temo che la disarmante stupidità di questo ragazzo sia rappresentativa di molti di quelli che ieri hanno bruciato macchine, rotto vetrine, imbrattato muri, e altro, a Milano. Lo temo, o forse lo spero: spero davvero che non ci sia nessuno pronto a mettere dietro questo vuoto cosmico una giustificazione socio-politico-psicologica, perché quella sarebbe l'ultima beffa.
Erano tutti così imanifestanti di ieri? Non lo so. Questo ragazzo ne rappresenta almeno una congrua parte? Non so nemmeno questo. Non so se il bicchiere sia mezzo vuoto o mezzo pieno.
Ma mi pare che quella volontà rivendicata di fare casino indichi innanzitutto quanto l'intervistato sia succube di quella sacralizzazione dell'immagine — meglio se virtuale — che fa sì che fare casino possa magari portare a farsi intervistare in televisione, cosa che decisamente ci sta. Non importa se l'intervista ti fa fare la figura del cretino, di quello che non sa articolare nemmeno un'ombra di pensiero logico e coerente; quello che conta è essere visto in televisione, solo quello.
Questo ignaro schiavo dello schermo piatto è solo un servo fedele, nonché prevedibile, di quel sistema che forse lui, se riuscisse ad articolare anche solo un'ombra di pensiero, vorrebbe abbattere. Ne è schiavo perché la sua unica preoccupazione è come arrivare a far parte di quel sistema, come trarne il massimo profitto, come vivere momenti che ci stanno, senza preoccupazioni, senza impegni, senza doveri. Senza futuro. Senza pensiero. Perché l'importante non è pensare, ma cercare di essere sempre dentro le cose, le esperienze, le emozioni.
L'importante non è ciò che si fa, l'importante è ciò che si prova facendolo, e se ti diverti ci sta. Quello è l'unico ideale, perché in mezzo ai disastri uno è contento comunque, cioè.
Questo è un ragazzo che si scusa di dire le parolacce, che spiega che dirle vuol dire che ti sto raccontando cose che ci sono veramente dentro, perché è ovviamente impossibile parlare di ciò che uno ha dentro senza parolacce. Questo è uno che usa anche qualche congiuntivo e che, per sua stessa ammissione, non ha fatto niente (anche se prima aveva detto che anche lui aveva spaccato un po' di robe). Ma l'idea di dire al giornalista che siccome non ha fatto niente non ha niente da dire non lo sfiora nemmeno. Se avesse avuto qualcosa in mano avrebbe spaccato anche lui, [...] però è stato comunque una bellissima esperienza, ci stava.
E che dire del giornalista, che afferma spudoratamente che quella (non) testimonianza è importantissima, che dire se non che anche lui appare come un piccolo schiavo fedele di quell'assurda logica secondo la quale parlare è più importante di dire?
Immensa tristezza. Vuoto intersiderale.
Presto, un buon caffè!