lunedì 9 febbraio 2015

Dylan, come al solito

Bob Dylan due giorni fa

L'ha rifatto. Ci ha sorpreso di nuovo. Come tante volte prima di oggi.
Come al solito ci sono i delusi, quelli che dicono che è arrivato alla frutta, che non è più lui, che è un traditore. I dylanisti. Quelli che credono di possedere la verità. Quelli fermi a Blowin' in the wind e A Hard Day's A-Gonna Fall.
Io trovo l'ultimo CD di Bob Dylan bellissimo. Stavo per scrivere entusiasmante, ma non sarebbe stata la parola giusta. L'entusiasmo è rumoroso, scoppiettante, mentre qui tutto è sussurrato, accennato, appena suggerito. Un CD da vecchio, sì, da uomo di 73 anni che continua ad infischiarsene della sua immagine, delle mode e dei cliché.
Sempre come al solito, ci sono quelli che parlano di una svolta. Quelli non sono i dylanisti, forse i dylanologi, quelli che cercano sempre una logica, una sorta di consecutio temporum musicale in grado di spiegare e razionalizzare tutte le sorprese che Dylan ci ha offerto nella sua lunga carriera. Senonché anche questa, come tutte le precedenti, sarà probabilmente seguita da un altro CD che, lungi dal confermare, ci spiazzerà di nuovo.
Ed è proprio in questo che Bob Dylan è stato sempre importante per me, fin da quando, nel 1965, uscì il suo quinto album, Bringing It All Back Home. I quattro precedenti (Bob Dylan, The Freewheelin' Bob Dylan, The Times They Are A-Changin' e Another Side of Bob Dylan) erano stati tutti rigorosamente acustici. Una voce accompagnata da una chitarra, un po' di armonica a bocca. Tutto qui. Un folk singer. Il “poeta della sua generazione”, scrivevano i giornali.
Bringing It All Back Home era un album “elettrico”: chitarra elettrica, basso elettrico, organo elettrico. Per molti quello fu un tradimento, un vendersi al mercato, alla moda.
Ma quella fu solo la prima volta. La sorpresa fu altrettanto grande ai primi del '68, quando arrivò John Wesley Harding, poi di nuovo con quel fulmine a ciel sereno che fu Nashville Skyline, nel '69, con quel Self Portrait del '70 che sembrava tutto, meno che un autoritratto, con New Morning, dello stesso anno (“Dylan è tornato!”, si entusiasmava la rivista Rolling Stone, manco gli album precedenti fossero stati opera di un fratello minore e psicolabile del profeta), con Saved (nobbuono) nell'80, col ritorno al suono 100% acustico di Good As I Been To You e World Gone Wrong, del '92, con la voce completamente trasformata di Time Out Of Mind, del '97, per non parlare dell'ineffabile Christmas In The Heart del 2009, fatto tutto di canti natalizi (tra i quali Adeste Fideles!).
Adesso è arrivato Shadows In The Night, che contiene dieci pezzi classici, dalle Foglie morte di Prévert e Kosma a varie cosa cantate in precedenza da Frank Sinatra. Il tutto con una sobrietà e un'eleganza assolutamente sorprendenti.
Ho detto che Dylan è sempre stato importante per me. Lo è stato proprio per questi suoi cambiamenti continui e per questa impossibilità a classificarlo e chiuderlo in un genere o in uno stile. Il contrario di una pop star. Quello che tutti questi album mi hanno sempre detto, Dylan l'aveva detto, con umorismo surreale, nel testo di Subterranean Homesick Blues, del '65: don't follow leaders, watch the parking meters (non seguire i capi, osserva i parchimetri). E nello stesso album c'era un'altra cosa importante: he who is not busy being born is busy dying (chi non è occupato a nascere è occupato a morire).
Fosse anche solo per queste due frasi, senza la voce, senza la musica, senza tutto il resto, resterei un ammiratore di Dylan fino al mio ultimo giorno di vita.
Due giorni fa, in occasione dell'ennesimo premio ricevuto (questa volta dalle mani di Jimmy Carter), Dylan si è lasciato andare a parlare per ben 35 minuti, durata per lui astronomica. Tra l'altro ha detto:
I critici hanno scritto che io ho fatto carriera scombinando le aspettative. Davvero? È solo quello che faccio? È quello che penso?
Scombinare le aspettative. Come dire che sto su fino a tada notte a pensare come scombinare le aspettative.
Cosa fai nella vita?” “Io? Scombino aspettative”.
Uno va a cercare lavoro e gli dicono “Tu cosa fai?” “Io scombino aspettative”. E allora gli dicono “Beh, quel posto è già occupato. Richiamaci. Oppure no, ti richiamiamo noi”.
Scombinare le aspettative, non so nemmeno cosa voglia dire e chi abbia tempo per occuparsene.
Perché proprio io, Signore?” È ovvio che il mio lavoro scombina qualcuno, ma non so proprio come. [...]
Adesso me ne vado. Spero ci rivedremo. Un giorno o l'altro. E ci rivedremo, come diceva Hank Williams, se Dio vuole e se il fiume non straripa”.
Non c'è niente da fare: davanti a Dylan ridivento sempre il quattordicenne che ascoltò per la prima volta The Freewheelin' Bob Dylan. Sempre la stessa ammirazione, la stessa sorpresa, la stessa impressione di avere ancora molto da imparare. Passano gli anni, passano i decenni (ormai cinque) e lui è sempre lì, sempre uguale e sempre diverso allo stesso tempo. Come a dirmi che il tempo non passa e la morte non esiste. Tanta roba.