Bob Dylan due giorni fa
L'ha
rifatto. Ci ha sorpreso di nuovo. Come tante volte prima di oggi.
Come al
solito ci sono i delusi, quelli che dicono che è arrivato alla
frutta, che non è più lui, che è un traditore. I dylanisti. Quelli
che credono di possedere la verità. Quelli fermi a Blowin'
in the wind
e A Hard Day's A-Gonna Fall.
Io
trovo l'ultimo CD di Bob Dylan bellissimo. Stavo per scrivere
entusiasmante, ma non sarebbe stata la parola giusta. L'entusiasmo è
rumoroso, scoppiettante, mentre qui tutto è sussurrato, accennato,
appena suggerito. Un CD da vecchio, sì, da uomo di 73 anni che
continua ad infischiarsene della sua immagine, delle mode e dei
cliché.
Sempre
come al solito, ci sono quelli che parlano di una svolta. Quelli non
sono i dylanisti, forse i dylanologi, quelli che cercano sempre una
logica, una sorta di consecutio
temporum
musicale in grado di spiegare e razionalizzare tutte le sorprese che
Dylan ci ha offerto nella sua lunga carriera. Senonché anche questa,
come tutte le precedenti, sarà probabilmente seguita da un altro CD
che, lungi dal confermare, ci spiazzerà di nuovo.
Ed
è proprio in questo che Bob Dylan è stato sempre importante per me,
fin da quando, nel 1965, uscì il suo quinto album, Bringing
It All Back Home.
I quattro precedenti (Bob Dylan,
The Freewheelin' Bob Dylan,
The Times They Are A-Changin'
e Another Side of Bob Dylan)
erano stati tutti rigorosamente acustici. Una voce accompagnata da
una chitarra, un po' di armonica a bocca. Tutto qui. Un folk
singer. Il
“poeta della sua generazione”, scrivevano i giornali.
Bringing
It All Back Home
era un album “elettrico”: chitarra elettrica, basso elettrico,
organo elettrico. Per molti quello fu un tradimento, un vendersi al
mercato, alla moda.
Ma
quella fu solo la prima volta. La sorpresa fu altrettanto grande ai
primi del '68, quando arrivò John
Wesley Harding,
poi di nuovo con quel fulmine a ciel sereno che fu Nashville
Skyline, nel
'69, con quel Self Portrait
del '70 che sembrava tutto, meno che un autoritratto, con New
Morning,
dello stesso anno (“Dylan è tornato!”, si entusiasmava la
rivista Rolling Stone,
manco gli album precedenti fossero stati opera di un fratello minore
e psicolabile del profeta), con Saved
(nobbuono) nell'80, col ritorno al suono 100% acustico di Good
As I Been To You e
World Gone Wrong,
del '92, con la voce completamente trasformata di Time
Out Of Mind,
del '97, per non parlare dell'ineffabile Christmas
In The Heart del
2009, fatto tutto di canti natalizi (tra i quali Adeste
Fideles!).
Adesso
è arrivato Shadows In The Night,
che contiene dieci pezzi classici, dalle Foglie morte di
Prévert e Kosma a varie cosa cantate in precedenza da Frank Sinatra.
Il tutto con una sobrietà e un'eleganza assolutamente sorprendenti.
Ho
detto che Dylan è sempre stato importante per me. Lo è stato
proprio per questi suoi cambiamenti continui e per questa
impossibilità a classificarlo e chiuderlo in un genere o in uno
stile. Il contrario di una pop star. Quello che tutti questi album mi
hanno sempre detto, Dylan l'aveva detto, con umorismo surreale, nel
testo di Subterranean Homesick Blues,
del '65: don't follow leaders, watch
the parking meters
(non seguire i capi, osserva i parchimetri). E nello stesso album
c'era un'altra cosa importante: he who
is not busy being born is busy dying
(chi non è occupato a nascere è occupato a morire).
Fosse
anche solo per queste due frasi, senza la voce, senza la musica,
senza tutto il resto, resterei un ammiratore di Dylan fino al mio
ultimo giorno di vita.
Due
giorni fa, in occasione dell'ennesimo premio ricevuto (questa volta
dalle mani di Jimmy Carter), Dylan si è lasciato andare a parlare
per ben 35 minuti, durata per lui astronomica. Tra l'altro ha detto:
I critici hanno scritto che io ho fatto carriera
scombinando le aspettative. Davvero? È solo quello che faccio? È
quello che penso?
Scombinare le aspettative. Come dire che sto su fino
a tada notte a pensare come scombinare le aspettative.
“Cosa fai nella vita?” “Io? Scombino
aspettative”.
Uno va a cercare lavoro e gli dicono “Tu cosa fai?”
“Io scombino aspettative”. E allora gli dicono “Beh, quel posto
è già occupato. Richiamaci. Oppure no, ti richiamiamo noi”.
Scombinare le aspettative, non so nemmeno cosa voglia
dire e chi abbia tempo per occuparsene.
“Perché proprio io, Signore?” È ovvio che il
mio lavoro scombina qualcuno, ma non so proprio come. [...]
Adesso me ne vado. Spero ci rivedremo. Un giorno o
l'altro. E ci rivedremo, come diceva Hank Williams, se Dio vuole e se
il fiume non straripa”.
Non
c'è niente da fare: davanti a Dylan ridivento sempre il
quattordicenne che ascoltò per la prima volta The Freewheelin' Bob Dylan. Sempre
la stessa ammirazione, la stessa sorpresa, la stessa impressione di
avere ancora molto da imparare. Passano gli anni, passano i decenni
(ormai cinque) e lui è sempre lì, sempre uguale e sempre diverso
allo stesso tempo. Come a dirmi che il tempo non passa e la morte non
esiste. Tanta roba.