venerdì 1 novembre 2013

Scrivere in corsivo

Ero già stato colpito, qualche settimana fa, dalla notizia che nelle scuole di 45 dei 50 Stati statunitensi non è ormai più obbligatorio imparare a scrivere in corsivo. Questa mattina Il Venerdì di Repubblica ne parla più in dettaglio, riportando in particolare una frase pubblicata da Morgan Polikoff, un assistente universitario presso la Rossier School of Education della University of Southern California, sul Los Angeles Times: "Con tutti i problemi che ha l'istruzione in questo Paese gli insegnanti farebbero meglio a concentrarsi sulle materie che servono davvero."
Viene immediatamente da chiedersi quali mai possano essere le materie "che servono davvero". Al tempo della mia frequentazione delle scuole medie, le materie insegnate erano italiano, latino, lingua straniera, storia e geografia, matematica, scienze naturali, musica, disegno, religione ed educazione fisica. Oggi alcune di quelle materie sono sparite (latino, scienze naturali, disegno), mentre altre hanno cambiato nome o carattere: la lingua straniera è diventata lingua inglese, la religione è diventata religione cattolica (sempre con possibilità di domanda di esenzione), la matematica è diventata matematica e scienze, l'educazione fisica è diventata scienze motorie e sportive. Nuove materie hanno fatto la loro apparizione: tecnologia, seconda lingua comunitaria, arte e immagine, con in più la possibilità di approfondimento di una materia a scelta.
Uno dei problemi fondamentali della scuola è naturalmente che la massa di informazioni di cui disponiamo oggi è enorme rispetto a quella di cui disponevano uomini e donne di qualche secolo fa. Questa massa fa sì che sia sempre più difficile far tenere all'interno del tempo della scuola l'insegnamento di un numero così gigantesco di dati. Ricordo, a questo proposito — e mi pare di averne già parlato in questo blog — che si stima che Shakespeare, in tutta la sua vita, abbia avuto accesso a non più di una trentina di libri. È chiaro che davanti al gigantismo del sapere disponibile la società si trova di fronte alla necessità di operare delle scelte e a quella di rinviare a più tardi, nella vita di un giovane, l'apprendimento di tutta una serie di materie che nei secoli passati potevano essere insegnate a età più precoci. E siccome è inimmaginabile che oggi una sola persona possa essere erudita in campi tanto diversi quanto la letteratura classica, la fisica quantistica, la musica e la microbiologia, il nostro mondo è molto più specialistico di quanto non lo fosse quello del Medioevo o del Rinascimento. Eliminare materie di studio e proporne di nuove non è di per sé aberrante, è anzi indispensabile. Meno chiari però sono i criteri che portano a queste eliminazioni e a queste nuove proposte.
Che cosa "serve davvero" nella scuola dell'obbligo? E, per tornare al punto di partenza di questo post, "serve davvero" saper leggere e scrivere e in corsivo? Soprattutto, cosa vuol dire "serve davvero"?
Mi pare banale segnalare quanto oggi viviamo in una società la cui economia è sempre più basata sulla produzione di cose che non servono a niente e il cui unico scopo è di continuare a far funzionare una macchina che peraltro funziona sempre peggio e che sembra secretare sempre più insoddisfazione, infelicità, precarietà, umiliazione e perdita del senso della vita. Mentre filosofi e umanisti di tutti i tempi e di tutte le origini geografiche e culturali si sono sforzati di farci notare che la felicità è raggiungingibile solo attraverso una certa frugalità e una chiara distinzione tra ciò che serve davvero e ciò che è superfluo, ci troviamo oggi davanti a un mondo che si applica sempre più a farci accettare come indispensabile il superfluo e come rinunciabile l'indispensabile. Lo sviluppo delle tecniche dell'informazione funziona sempre di più come un vero e proprio lavaggio del cervello che ci porta a comperare l'ultimo smartphone o l'ultimo vestito alla moda, a vedere l'ultimo film e a sentire l'ultimo CD (prodotti entrambi con molta più attenzione al mercato che al contenuto), con la scusa che tutto questo produce lavoro, fa girare l'economia e quindi ci rende più felici. Che poi questa pseudo-felicità ci sia offerta sulla pelle di quei milioni e milioni di individui che quei prodotti li creano lavorando in condizioni degradanti e umilianti è cosa considerata secondaria. E se qualcuno si lamenta, basta che la grande multinazionale x o y versi una percentuale irrisoria dei suoi giganteschi profitti in opere di beneficienza per rifarsi una verginità.
Non sto dicendo che la tecnologia sia inutile, che il fatto di poter ascoltare un trio di Schubert o una canzone di Leonard Cohen su un IPod sia qualcosa di negativo, che la possibilità di guarire un tumore o di offrire una gamba artificiale a un amputato siano cose da niente. Rifiuto però l'idea che l'immensa dose di infelicità secretata dallo sviluppo tecnologico sia da considerarsi come un ineluttabile danno collaterale.
Non saprei dire con esattezza a cosa serva saper leggere e scrivere in corsivo. Ma non saprei nemmeno dire con esattezza a cosa serva leggere le poesie di Walt Whitman, guardare un quadro di Vermeer, camminare sotto la navata centrale dell'Abbazia di Westminster, o ascoltare un'improvvisazione di Charlie Parker. Dirò di più, non saprei nemmeno dire con esattezza a cosa serva quella strana cosa alla quale ho dedicato tutta la mia vita, il teatro.
Moltissimi anni fa — ero ragazzo, ma me ne ricordo come se fosse successo ieri — su un tram milanese, lungo via Torino, mi venne una strana idea: mi chiesi che forma avrebbe potuto avere una macchina che servisse a capire a che cosa serve. Una cosa che serve a capire a che cosa serve.
Oltre ad indicare quanto la mia mente fosse già bacata in gioventù, l'idea di una cosa che serve a capire a che cosa serve non mi pare però solo un abile gioco di parole. Tant`è che dopo averci pensato su un bel po', per più giorni a dire il vero, giunsi alla conclusione che l'unica cosa che serva a capire a che cosa serve è la vita. Vabbé, come filosofo ammetto di essere uno scalino, o una gradinata, o un dirupo chilometrico sotto Spinoza. Però quella strana cosa che mi è venuta in mente anni fa su un tram in via Torino non me la sono mai dimenticata e in un certo senso mi è poi molto "servita" nella vita, soprattutto in momenti difficili. E non a caso mi è tornata ancora in mente questa mattina, leggendo Il Venerdì di Repubblica.
Credo che la vera questione sollevata nelle mie piccole connessioni neuronali dalle aberranti parole di Morgan Polikoff non sia tanto quella di sapere se la lettura e la scrittura in corsivo "servano" a qualcosa, ma di accettare o no che un altro, se non addirittura la società nel suo insieme, abbia il diritto di impormi cosa possa servirmi e cosa no. Io quel diritto non lo vedo. E se anche ammetto senza difficoltà che tutto questo lo sto scrivendo muovendo le dita sulla tastiera di un computer alla velocità di un bradipo anestetizzato, mi dico che non solo il giorno in cui rinunciassi a usare la meravigliosa Montblanc Meisterstück regalatami da mia suocera qualche anno fa perderei qualcosa di quel tutto che fa di me ciò che sono, ma anche che se ai miei nipoti o pronipoti non fosse nemmeno più insegnato a scrivere senza servirsi di un computer sarebbe un grande peccato e una grande violenza che gli sarebbe fatta. Perché? Non lo so: lo sento, lo percepisco. E alle mie sensazioni e alle mie percezioni non intendo assolutamente rinunciare, anche se magari alla Rossier School of Education o in qualche ministero c'è qualcuno che pensa che non servano a niente.