Ero già stato
colpito, qualche settimana fa, dalla notizia che nelle scuole di 45
dei 50 Stati statunitensi non è ormai più obbligatorio imparare a
scrivere in corsivo. Questa mattina Il Venerdì
di Repubblica ne parla
più in dettaglio, riportando in particolare una frase pubblicata da
Morgan Polikoff, un assistente universitario presso la Rossier
School of Education della
University of Southern California,
sul Los Angeles Times:
"Con tutti i problemi che ha l'istruzione in questo
Paese gli insegnanti farebbero meglio a concentrarsi sulle materie
che servono davvero."
Viene
immediatamente da chiedersi quali mai possano essere le materie "che
servono davvero". Al tempo della mia frequentazione delle scuole
medie, le materie insegnate erano italiano, latino, lingua straniera,
storia e geografia, matematica, scienze naturali, musica, disegno,
religione ed educazione fisica. Oggi alcune di quelle materie sono
sparite (latino, scienze naturali, disegno), mentre altre hanno
cambiato nome o carattere: la lingua straniera è diventata lingua
inglese, la religione è diventata religione cattolica (sempre con
possibilità di domanda di esenzione), la matematica è diventata
matematica e scienze, l'educazione fisica è diventata scienze
motorie e sportive. Nuove materie hanno fatto la loro apparizione:
tecnologia, seconda lingua comunitaria, arte e immagine, con in più
la possibilità di approfondimento di una materia a scelta.
Uno
dei problemi fondamentali della scuola è naturalmente che la massa
di informazioni di cui disponiamo oggi è enorme rispetto a quella di
cui disponevano uomini e donne di qualche secolo fa. Questa
massa fa sì che sia sempre più difficile far tenere all'interno del
tempo della scuola l'insegnamento di un numero così gigantesco di
dati. Ricordo, a questo proposito — e mi pare di averne già
parlato in questo blog — che si stima che Shakespeare, in
tutta la sua vita, abbia avuto accesso a non più di una trentina di
libri. È chiaro che davanti al gigantismo del sapere disponibile la
società si trova di fronte alla necessità di operare delle scelte e
a quella di rinviare a più tardi, nella vita di un giovane,
l'apprendimento di tutta una serie di materie che nei secoli passati
potevano essere insegnate a età più precoci. E siccome è
inimmaginabile che oggi una sola persona possa essere erudita in
campi tanto diversi quanto la letteratura classica, la fisica
quantistica, la musica e la microbiologia, il nostro
mondo è molto più specialistico di quanto non lo fosse quello del
Medioevo o del Rinascimento. Eliminare materie di studio e proporne
di nuove non è di per sé aberrante, è anzi indispensabile. Meno
chiari però sono i criteri che portano a queste eliminazioni e a queste
nuove proposte.
Che
cosa "serve davvero" nella scuola dell'obbligo? E, per
tornare al punto di partenza di questo post, "serve davvero"
saper leggere e scrivere e in corsivo? Soprattutto, cosa vuol dire
"serve davvero"?
Mi
pare banale segnalare quanto oggi viviamo in una società la cui
economia è sempre più basata sulla produzione di cose che non
servono a niente e il cui unico scopo è di continuare a far
funzionare una macchina che peraltro funziona sempre peggio e che
sembra secretare sempre più insoddisfazione, infelicità,
precarietà, umiliazione e perdita del senso della vita. Mentre
filosofi e umanisti di tutti i tempi e di tutte le origini
geografiche e culturali si sono sforzati di farci notare che la
felicità è raggiungingibile solo attraverso una certa frugalità e
una chiara distinzione tra ciò che serve davvero e ciò che è
superfluo, ci troviamo oggi davanti a un mondo che si applica sempre
più a farci accettare come indispensabile il superfluo e come
rinunciabile l'indispensabile. Lo sviluppo delle tecniche
dell'informazione funziona sempre di più come un vero e proprio
lavaggio del cervello che ci porta a comperare l'ultimo smartphone o
l'ultimo vestito alla moda, a vedere l'ultimo film e a sentire
l'ultimo CD (prodotti entrambi con molta più attenzione al mercato
che al contenuto), con la scusa che tutto questo produce lavoro, fa
girare l'economia e quindi ci rende più felici. Che poi questa
pseudo-felicità ci sia offerta sulla pelle di quei milioni e milioni
di individui che quei prodotti li creano lavorando in condizioni
degradanti e umilianti è cosa considerata secondaria. E se
qualcuno si lamenta, basta che la grande multinazionale x o y versi
una percentuale irrisoria dei suoi giganteschi profitti in opere di
beneficienza per rifarsi una verginità.
Non
sto dicendo che la tecnologia sia inutile, che il fatto di poter
ascoltare un trio di Schubert o una canzone di Leonard Cohen su un
IPod sia qualcosa di negativo, che la possibilità di guarire un
tumore o di offrire una gamba artificiale a un amputato siano cose da
niente. Rifiuto però l'idea che l'immensa dose di infelicità
secretata dallo sviluppo tecnologico sia da considerarsi come un
ineluttabile danno collaterale.
Non
saprei dire con esattezza a cosa serva saper leggere e scrivere in
corsivo. Ma non saprei nemmeno dire con esattezza a cosa serva
leggere le poesie di Walt Whitman, guardare un quadro di Vermeer,
camminare sotto la navata centrale dell'Abbazia di Westminster, o
ascoltare un'improvvisazione di Charlie Parker. Dirò di più, non
saprei nemmeno dire con esattezza a cosa serva quella strana cosa
alla quale ho dedicato tutta la mia vita, il teatro.
Moltissimi
anni fa — ero ragazzo, ma me ne ricordo come se fosse
successo ieri — su un tram milanese, lungo via Torino, mi
venne una strana idea: mi chiesi che forma avrebbe potuto avere una
macchina che servisse a capire a che cosa serve. Una cosa che serve a
capire a che cosa serve.
Oltre
ad indicare quanto la mia mente fosse già bacata in gioventù,
l'idea di una cosa che serve a capire a che cosa serve non mi pare
però solo un abile gioco di parole. Tant`è che dopo averci pensato
su un bel po', per più giorni a dire il vero, giunsi alla
conclusione che l'unica cosa che serva a capire a che cosa serve è
la vita. Vabbé, come filosofo ammetto di essere uno scalino, o una
gradinata, o un dirupo chilometrico sotto Spinoza. Però quella
strana cosa che mi è venuta in mente anni fa su un tram in via
Torino non me la sono mai dimenticata e in un certo senso mi è poi
molto "servita" nella vita, soprattutto in momenti
difficili. E non a caso mi è tornata ancora in mente questa mattina,
leggendo Il Venerdì
di Repubblica.
Credo
che la vera questione sollevata nelle mie piccole connessioni
neuronali dalle aberranti parole di Morgan Polikoff non sia tanto
quella di sapere se la lettura e la scrittura in corsivo "servano"
a qualcosa, ma di accettare o no che un altro, se non addirittura la
società nel suo insieme, abbia il diritto di impormi cosa possa
servirmi e cosa no. Io quel diritto non lo vedo. E se anche ammetto
senza difficoltà che tutto questo lo sto scrivendo muovendo le dita sulla tastiera di un computer alla velocità di un bradipo anestetizzato, mi dico che non solo il giorno in cui
rinunciassi a usare la meravigliosa Montblanc Meisterstück
regalatami da mia suocera qualche anno fa perderei qualcosa di quel
tutto che fa di me ciò che sono, ma anche che se ai miei nipoti o
pronipoti non fosse nemmeno più insegnato a scrivere senza servirsi
di un computer sarebbe un grande peccato e una grande violenza che
gli sarebbe fatta. Perché? Non lo so: lo sento, lo percepisco. E
alle mie sensazioni e alle mie percezioni non intendo assolutamente
rinunciare, anche se magari alla Rossier School of Education o in qualche ministero c'è qualcuno che pensa che non servano a
niente.