Ieri sera Keith
Jarrett ha suonato al buio davanti al pubblico di Umbria Jazz. Non
era saltata la corrente. Semplicemente, il pianista non voleva essere
fotografato, in particolare col flash.
Stamattina sia La
Nazione che il Corriere della Sera parlano dei capricci dell'artista,
mentre la Repubblica consacra una doppia pagina al fenomeno dei
fotografi amatoriali e delle registrazioni pirata.
Che Jarrett sia uno
che ha un suo caratterino ormai lo sappiamo tutti. Ne fui testimone
anch'io una volta durante un suo concerto vicino a Tolone. Può anche
darsi, come lo scrivono sia il quotidiano milanese che il fiorentino,
che i suoi siano ormai capricci da star, ma la Repubblica ha fatto
benissimo ad allargare la riflessione a un fenomeno più generale.
È un fatto che
ormai fotografare tutto e qualsiasi cosa non sia solo più un
diritto, ma una specie di necessità compulsiva e collettiva che
contamina ogni strato sociale. Fotografo ergo sum
sembra essere diventata la nuova filosofia, e se poi pubblico su
Facebook allora sum
ancora di più. Sennò non esisto.
Mi
torna in mente una scenetta che ho vissuto più di quarant'anni fa
sulle colline che dominano il Loch Ness, in Scozia. Ero lì con una
tale Gabriella, bella insegnante di ginnastica, ad ammirare la bellezza del posto senza
peraltro alcuna speranza di avvistare un qualsiasi mostro, quando si
è fermata una macchina. All'interno, marito e moglie. Il marito è
sceso con in mano una macchina fotografica, ha osservato e ha fatto
uno scatto. Poi ha detto alla moglie a voce alta, attraverso i
finestrini chiusi: “Vieni a vedere, è bellissimo.” E lei ha
risposto “No, fa freddo. Tanto poi vedrò la foto.”
Oggi
quell'aneddoto me lo scorderei dopo poche ore, tanto sarebbe normale
viverlo. La scelta dei più sembra fatta: l'immagine di una cosa vale
la cosa. Anzi, testimoniando della cosa originale, l'immagine è
l'unica “prova” della sua esistenza e del fatto che noi l'abbiamo
vista.
Ma
a chi serve quella prova? Prova, ripeto, non testimonianza, il che
sarebbe tutt'altro. La foto amatoriale standard, che sia opera del
telefonino, dell'IPad, o di una macchina fotografica, o di qualunque altro marchingegno, non
ritrae più una cosa, ma il fatto che noi l'abbiamo vista. Non è una
cattura di un momento fugace della realtà, ma solo l'affermazione
della nostra presenza davanti a quella realtà. È la sindrome
L'Oréal: perché tu vali.
È l'Epidemia del narcisismo,
per riprendere il titolo di un libro di Jean M. Twenge and W. Keith
Campbell, libro nel quale viene spiegato che questo movimento iniziò
negli anni '60 quando la gente incominciò a scrollarsi di dosso i
vincoli sociali a favore dell'esplorazione del potenziale umano
individuale. Senonché in un paio di decenni si passò dalla ricerca
individuale all'auto-ammirazione e poi all'auto-condiscendenza, per
arrivare oggi all'auto-celebrazione a carattere onanista.
La Twenge, psicologa della San Diego State University, ha recentemente pubblicato uno studio nel quale afferma che i narcisisti americani rappresentano oggi il 30% della popolazione, mentre erano solo il 15% trent'anni fa. Non solo, ma i giovani narcisisti sono diventati il triplo degli anziani, mentre erano minoritari nel 1982.
Tra
qualche settimana mi ritroverò per il terzo anno consecutivo a
fotografare tutti i concerti di Time in Jazz,
il festival di Paolo Fresu, a Berchidda e dintorni. So benissimo che
per me saranno ancora dieci giorni di goduria totale, coll'occhio
incollato al mirino da mattina a tarda notte. So però anche che i
concerti me li perderò tutti perché non si può fotografare un
concerto e goderne allo stesso tempo. Non a caso durante quei
concerti mi offrirò delle lunghe pause fotografiche per ascoltare
almeno alcuni pezzi. Non a caso la settimana scorsa, andando a
sentire Fresu in duo con Omar Sosa, non mi sono portato la macchina
fotografica, proprio perché volevo ascoltare il concerto.
Questa
terribile confusione tra una cosa e la sua immagine tende sempre più
a sterilizzarci e a fare di noi degli osservatori passivi, irretiti
dalla falsa promessa che il documento della cosa ce la renderà più
perenne nella memoria. In realtà è il contrario che succede: quello
di cui ci si ricorderà non è la cosa, ma solo il momento nel quale
l'abbiamo fotografata. Sarà un ricordo freddo e limitato, che
nessuna spartizione su internet renderà più umano.
Come
a tutti, capita anche a me di imbestialirmi con le migliaia di
fotografi della domenica che spuntano come funghi davanti a qualsiasi
cosa da fotografare (e non). Ma quel che sento soprattutto è una
vera pena per quella gente che si desumanizza in maniera tanto
entusiasta, rinunciando a vivere credendo di poter poi dimostrare di
aver vissuto. Quanto alla coscienza di rovinare la vita degli altri,
quella non esiste più: come immaginare che sto dando fastidio a
qualcuno se sto immortalando ciò che vedo? Forse quel qualcuno è
più importante del mio importantissimo io? No di certo.
Nel
lontano 1967 Guy Debord già profetizzava che non solo il destino dei
media era di spettacolizzare tutto, ma che anche il nostro destino
individuale era di diventare ognuno lo spettacolo di sé stesso.
Purtroppo quella profezia si sta avverando alla grande. A scapito
della vita, che è un'altra cosa.