martedì 9 luglio 2013

La vita è un'altra cosa

Ieri sera Keith Jarrett ha suonato al buio davanti al pubblico di Umbria Jazz. Non era saltata la corrente. Semplicemente, il pianista non voleva essere fotografato, in particolare col flash.
Stamattina sia La Nazione che il Corriere della Sera parlano dei capricci dell'artista, mentre la Repubblica consacra una doppia pagina al fenomeno dei fotografi amatoriali e delle registrazioni pirata.
Che Jarrett sia uno che ha un suo caratterino ormai lo sappiamo tutti. Ne fui testimone anch'io una volta durante un suo concerto vicino a Tolone. Può anche darsi, come lo scrivono sia il quotidiano milanese che il fiorentino, che i suoi siano ormai capricci da star, ma la Repubblica ha fatto benissimo ad allargare la riflessione a un fenomeno più generale.
È un fatto che ormai fotografare tutto e qualsiasi cosa non sia solo più un diritto, ma una specie di necessità compulsiva e collettiva che contamina ogni strato sociale. Fotografo ergo sum sembra essere diventata la nuova filosofia, e se poi pubblico su Facebook allora sum ancora di più. Sennò non esisto.
Mi torna in mente una scenetta che ho vissuto più di quarant'anni fa sulle colline che dominano il Loch Ness, in Scozia. Ero lì con una tale Gabriella, bella insegnante di ginnastica, ad ammirare la bellezza del posto senza peraltro alcuna speranza di avvistare un qualsiasi mostro, quando si è fermata una macchina. All'interno, marito e moglie. Il marito è sceso con in mano una macchina fotografica, ha osservato e ha fatto uno scatto. Poi ha detto alla moglie a voce alta, attraverso i finestrini chiusi: “Vieni a vedere, è bellissimo.” E lei ha risposto “No, fa freddo. Tanto poi vedrò la foto.”
Oggi quell'aneddoto me lo scorderei dopo poche ore, tanto sarebbe normale viverlo. La scelta dei più sembra fatta: l'immagine di una cosa vale la cosa. Anzi, testimoniando della cosa originale, l'immagine è l'unica “prova” della sua esistenza e del fatto che noi l'abbiamo vista.
Ma a chi serve quella prova? Prova, ripeto, non testimonianza, il che sarebbe tutt'altro. La foto amatoriale standard, che sia opera del telefonino, dell'IPad, o di una macchina fotografica, o di qualunque altro marchingegno, non ritrae più una cosa, ma il fatto che noi l'abbiamo vista. Non è una cattura di un momento fugace della realtà, ma solo l'affermazione della nostra presenza davanti a quella realtà. È la sindrome L'Oréal: perché tu vali. È l'Epidemia del narcisismo, per riprendere il titolo di un libro di Jean M. Twenge and W. Keith Campbell, libro nel quale viene spiegato che questo movimento iniziò negli anni '60 quando la gente incominciò a scrollarsi di dosso i vincoli sociali a favore dell'esplorazione del potenziale umano individuale. Senonché in un paio di decenni si passò dalla ricerca individuale all'auto-ammirazione e poi all'auto-condiscendenza, per arrivare oggi all'auto-celebrazione a carattere onanista.
La Twenge, psicologa della San Diego State University, ha recentemente pubblicato uno studio nel quale afferma che i narcisisti americani rappresentano oggi il 30% della popolazione, mentre erano solo il 15% trent'anni fa. Non solo, ma i giovani narcisisti sono diventati il triplo degli anziani, mentre erano minoritari nel 1982.
Tra qualche settimana mi ritroverò per il terzo anno consecutivo a fotografare tutti i concerti di Time in Jazz, il festival di Paolo Fresu, a Berchidda e dintorni. So benissimo che per me saranno ancora dieci giorni di goduria totale, coll'occhio incollato al mirino da mattina a tarda notte. So però anche che i concerti me li perderò tutti perché non si può fotografare un concerto e goderne allo stesso tempo. Non a caso durante quei concerti mi offrirò delle lunghe pause fotografiche per ascoltare almeno alcuni pezzi. Non a caso la settimana scorsa, andando a sentire Fresu in duo con Omar Sosa, non mi sono portato la macchina fotografica, proprio perché volevo ascoltare il concerto.
Questa terribile confusione tra una cosa e la sua immagine tende sempre più a sterilizzarci e a fare di noi degli osservatori passivi, irretiti dalla falsa promessa che il documento della cosa ce la renderà più perenne nella memoria. In realtà è il contrario che succede: quello di cui ci si ricorderà non è la cosa, ma solo il momento nel quale l'abbiamo fotografata. Sarà un ricordo freddo e limitato, che nessuna spartizione su internet renderà più umano.
Come a tutti, capita anche a me di imbestialirmi con le migliaia di fotografi della domenica che spuntano come funghi davanti a qualsiasi cosa da fotografare (e non). Ma quel che sento soprattutto è una vera pena per quella gente che si desumanizza in maniera tanto entusiasta, rinunciando a vivere credendo di poter poi dimostrare di aver vissuto. Quanto alla coscienza di rovinare la vita degli altri, quella non esiste più: come immaginare che sto dando fastidio a qualcuno se sto immortalando ciò che vedo? Forse quel qualcuno è più importante del mio importantissimo io? No di certo.
Nel lontano 1967 Guy Debord già profetizzava che non solo il destino dei media era di spettacolizzare tutto, ma che anche il nostro destino individuale era di diventare ognuno lo spettacolo di sé stesso. Purtroppo quella profezia si sta avverando alla grande. A scapito della vita, che è un'altra cosa.