Piazza Tahrir - Reuters
Titolo: Piazza
Tahrir: centinaia di stupri. Prima frase dell'articolo: “In
pochi giorni, quasi cento abusi sessuali in piazza Tahrir contro le
donne: Human Rights Watch denuncia la cifra e dà i dettagli.”
Vado sul sito di
Human Rights Watch e leggo un articolo pubblicato ieri, che
incomincia così: “Gli ufficiali egiziani e gli uomini politici
di ogni bordo dovrebbero condannare e fare passi immediati per
fermare gli orrendi livelli di violenza contro le donne sulla piazza
Tahrir. Alcuni gruppi egiziani contro la violenza fatta alle donne
confermano che la folla ha assalito sessualmente e in alcuni casi
stuprato almeno 91 donne sulla piazza Tahrir durante i quattro giorni
di protesta iniziati il 30 giugno 2013 in un clima di impunità.”
Non voglio
ovviamente sminuire la nefandezza delle violenze alle donne, ma, al
contrario, sottolineare come il ricorso sistematico al titolone da
scoop trasformi queste violenze in faits divers indegni di
serietà giornalistica, trattando il lettore da semianalfabeta e
sperando in una sua superficialità di lettura.
Di cosa stiamo
parlando? Di centinaia di stupri,
o di aggressioni sessuali e in alcuni casi anche di stupro su almeno
91 donne?
Il
titolone ad effetto, l'ingigantimento della realtà e il parallelo
riferimento a dati precisi di un'organizzazione rispettata
internazionalmente come Human Rights Watch altro non fanno che
annegare l'informazione in una melma confusa dalla quale ciò che
finisce con l'emergere è fondamentalmente un pericoloso sentimento
di ostilità sia verso il mondo arabo che verso il mondo musulmano in
generale. Il fatto riportato da H.R.W., almeno 91 aggressioni
sessuali, è di per sé raccapricciante. Ingigantendolo come lo fa il
titolo di Repubblica
si rischia di banalizzare ognuno di quei 91 casi
rendendoli singolarmente meno drammatici proprio per la loro relativa
“normalità”.
Se avessi letto
Dieci donne violentate dai manifestanti egiziani
ne sarei naturalmente stato indignato. Ma quel dieci (prendo una
cifra a caso) mi avrebbe permesso di “visualizzare” ognuna delle
vittime. Davanti a centinaia di stupri invece cambia tutto: la
sindrome dei grandi numeri mi impedisce quella visualizzazione e,
rendendomi impossibile di vedere i fatti riportati come 1+1+1+1... li
anestetizza e ne sminuisce la drammaticità.
Probabilmente
la giornalista Eleonora Vio, autrice dell'articolo, è stata lei
stessa turbata dall'anonimo titolatore in cerca di sensazionalismo.
Al suo posto, mi sarebbero girati vorticosamente i didimi.
C'è
un altro articolo interessante sul sito di Repubblica.
Lo firma Carlo Ciavoni. Eccone uno stralcio: “Il volto e
il corpo coperti dal niqab, l'abito tradizionale islamico che lascia
solo gli occhi scoperti, portato solo per mantenere l'anonimato,
garantito anche dalle luci soffuse e dalle telecamere spente. Poi il
racconto con voce tremante di giorni di stupri, sevizie, scosse
elettriche che le hanno fatto prima di perdere il bimbo che
aspettava, poi l'hanno resa sterile. Il drammatico racconto è
avvenuto alla Camera dei Deputati, nel corso del convegno La
verità necessaria - I processi di riconciliazione delle primavere
arabe, che ha affrontato il tema dello stupro come
arma da guerra e ancora praticata nei paesi post-conflitto, anche in
quelli della ormai incerta Primavera araba. La donna ha spiegato che
l'arresto è avvenuto dopo che lei ed alcune amiche erano state
riprese da Al Jazeera mentre invitavano le altre studentesse a
scendere in piazza contro Gheddafi. Poche ore dopo, iniziava
l'incubo. "Mi hanno arrestata, e tenuta nuda per tutto il tempo.
Gli stupri erano continui, poi le scariche elettriche. Chiedevo che
chiudessero la porta almeno quando dormivo. Le mie amiche, non le ho
più viste. E la mia famiglia che mi dice, se non ti fossi messa a
fare i proclami oggi non ti sarebbe successo nulla", ha
raccontato.”
Leggendo
queste righe, il mio sdegno è molto più grande che leggendo quelle
dell'altro articolo. Lo è perché queste righe mi permettono di
visualizzare una donna, una persona; mi fanno immaginare la cella, il
corpo nudo sdraiato alla ricerca del sonno che non viene, la seconda
e tremenda violenza subita, quella delle inaccettabili parole della
famiglia. Questo articolo mi permette quell'empatia e dunque quel
sentimento di solidarietà umana che il titolo che parla di centinaia
di stupri anestetizza. È individualizzando il problema e
focalizzandolo su un caso personale preso ad esempio tra molti che lo
si rende umano, non certo sparando numeri fantasiosi. È in questo
che risiede la forza della foto di reportage, come quella del
romanzo: se Guerra e pace è
una denuncia così potente dell'invasione napoleonica della Russia lo
è proprio perché Tolstoi ci fa vedere quei fatti attraverso lo
sguardo del principe Andrej, di Marja Nikolaevna e degli altri
personaggi che, pagina dopo pagina, finiamo col sentire vicini a noi,
comprendendone le motivazioni individuali, gli slanci e le debolezze.
Se la foto della “Vergine algerina” di Hocine o quella dell'anziana
palestinese che cerca di difendere un ulivo dai soldati israeliani
venuti a sradicarlo, di Abed Omar Qusini, smuovono le nostre
coscienze è proprio perché ci fanno vedere una
persona.
Donna algerina - Hocine
Ulivo palestinese - Abed Omar Qusini
La
nostra mente è fatta così: se diciamo “venti persone” riusciamo
ancora facilmente a visualizzarle e a sentirne le individualità; se
diciamo “seimila” il nostro giudizio si annebbia. Se poi diciamo
“migliaia” o anche “centinaia”, allora entriamo nel vago più
totale. Cosa sono “centinaia”? Trecento o novecento? O magari
milleseicento?
Davanti
a questi numeri imprecisi e approssimativi la nostra mente non ci
permette più di vedere persone, ma masse indistinte. “Sei milioni
di ebrei” sono molto meno reali e smuovono meno le nostre coscienze di quanto lo faccia il racconto individuale di Primo Levi in Se questo è un uomo.
Parlare
di “centinaia di stupri” è un'ulteriore offesa fatta ad ognuna
di quelle donne che hanno subito un'inaccettabile violenza.