giovedì 11 luglio 2013

Deportees

 Una tomba in California

Una delle più belle canzoni di Woody Guthrie è senz'altro Plane Wreck at Los Gatos, più nota come Deportees (qui la versione di Bruce Springsteen e qui il testo integrale) . Guthrie la scrisse nel 1948, indignato da un articolo sul New York Times del 29 gennaio che, commentando un incidente aereo avvenuto il giorno prima in California, spiegava che erano morte 32 persone, ovvero il pilota Frank Atkinson, sua moglie Bobbie Atkinson, il copilota Marion Ewing, l'ufficiale del servizio dell'immigrazione di San Francisco Frank E. Chaffin, e “28 deportati messicani.” L'aereo apparteneva al servizio dell'immigrazione degli Stati Uniti e stava riportando in Messico 28 immigrati entrati clandestinamente negli USA. Le vittime messicane furono sotterrate in una fossa comune nel cimitero di Fresno, dove una targa dice “28 cittadini messicani morti in un incidente aereo presso Coalinga, California, il 28 gennaio 1948. R.I.P.”
Il refrain della canzone di Guthrie dice Addio Juan, addio Rosalita / Addio amici Jesus e Maria / Non avrete un nome quando prenderete il grande aereo / Vi chiameranno solo “deportati”. Negli anni la canzone è stata ripresa da Dolly Parton Johnny Cash, Joan Baez, Bob Dylan, i Byrds, e Bruce Springsteen, oltre che dal figlio di Woody, Arlo Guthrie.
Oggi finalmente quei deportati hanno un nome. È il mio vecchio amico Avram che me l'ha fatto sapere, dicendomi che quando ha letto la notizia sul Los Angeles Times ha pensato a me, che tante volte avevo cantato quella canzone nei primi anni '70. Sarò anche irrimediabilmente romantico, ma la cosa mi ha commosso.
Tutto è incominciato con una visita dello scrittore, poeta e attore Tim Z. Hernandez al cimitero di Fresno. Vedendo quella tomba anonima si ricordò della canzone di Guthrie e si chiese se le famiglie dei morti fossero mai state informate dell'incidente. Si mise in testa di ritrovare i nomi di quei morti anonimi. Contattò la diocesi di Fresno, proprietaria del cimitero, ma non ricevette che risposte vaghe e un po' seccate. Senza darsi per vinto, cercò su internet i nomi di tutti i dipendenti della diocesi e finì col trovarne uno messicano, Carlos Rascon. Trovò il suo numero di telefono, lo chiamò e Rascon gli disse che i 28 nomi li aveva. Gli spiegò anche che da sempre qualcuno portava fiori su quella tomba nel Dia de los muertos, il giorno dei morti, che in Messico è una festa importante.
Quando Hernandez vide la lista si accorse che molti nomi avevano uno spelling improbabilmente americanizzato e che nessuno era accompagnato da una data di nascita o da un luogo di residenza. Ne parlò qualche tempo dopo a una riunione di scrittori al National Steinbeck Center, a Salinas, California. Immediatamente dopo il suo intervento gli si avvicinò una donna in lacrime. Era Nora Guthrie, figlia di Woody e presidente della Woody Guthrie Foundation. “Mio padre credeva nell'importanza dei nomi, gli disse. Trovare quei nomi è importante.”
Hernandez si mise a raccogliere soldi per erigere un monumento al posto dell'anonima lapide. I giornali ne parlarono e uno di loro scrisse anche i 28 nomi.
Nel frattempo Jaime Ramirez, un immigrato messicano che aveva sempre saputo che suo nonno era tra i 28 (i giornali messicani avevano pubblicato la lista nel '48), aveva anche lui trovato la tomba e aveva chiamato sua madre, che alla notizia era scoppiata in lacrime: “Ora che so dov'è sepolto mio padre posso andarmene in pace”, gli aveva detto. Ramirez ne parlò con un amico, che ne parlò con un altro. Quest'ultimo si ricordò di avere letto i nomi su un giornale. Ramirez contattò Hernandez e i due si ritrovarono al cimitero di Fresno.
A tutt'oggi il nome del nonno di Ramirez è il solo ad aver portato a un'identificazione precisa. Tutti gli altri restano anonimi. Ma il prossimo 2 settembre, Labor day, la festa americana del lavoro, il monumento sarà inaugurato. Comprenderà trentadue foglie: su quattro di loro ci saranno le iniziali delle vittime americane, sulle altre 28 i nomi dei deportees: Miguel Negrete Álvarez, Tomás Aviña de Gracia, Francisco Llamas Durán, Santiago García Elizondo, Rosalio Padilla Estrada, Tomás Padilla Márquez, Bernabé López Garcia, Salvador Sandoval Hernández, Severo Medina Lára, Elías Trujillo Macias, José Rodriguez Macias, Luis López Medina, Manuel Calderón Merino, Luis Cuevas Miranda, Martin Razo Navarro, Ignacio Pérez Navarro, Román Ochoa Ochoa, Ramón Paredes Gonzalez, Guadalupe Ramírez Lára, Apolonio Ramírez Placencia, Alberto Carlos Raygoza, Guadalupe Hernández Rodríguez, Maria Santana Rodríguez, Juan Valenzuela Ruiz, Wenceslao Flores Ruiz, José Valdívia Sánchez, Jesús Meza Santos e Baldomero Marcas Torres.
Se pubblico questi nomi lo faccio con una certa tristezza, nell'impossibilità di pubblicare tutti quelli, centinaia, degli africani morti in mare cercando di raggiungere le coste dell'Europa. Peccato che non ci sia oggi in Italia un Woody Guthrie, uno che sbarcò in Sicilia con l'esercito americano nel luglio '43 portandosi dietro una chitarra sulla quale aveva scritto “This machine kills fascists”. Le molte tombe anonime di Lampedusa meriterebbero anche loro un riconoscimento come quello ricevuto, 65 anni dopo i fatti, da quella di Fresno. Se le parole sono importanti, i nomi lo sono ancora di più.

Woody Guthrie

martedì 9 luglio 2013

La vita è un'altra cosa

Ieri sera Keith Jarrett ha suonato al buio davanti al pubblico di Umbria Jazz. Non era saltata la corrente. Semplicemente, il pianista non voleva essere fotografato, in particolare col flash.
Stamattina sia La Nazione che il Corriere della Sera parlano dei capricci dell'artista, mentre la Repubblica consacra una doppia pagina al fenomeno dei fotografi amatoriali e delle registrazioni pirata.
Che Jarrett sia uno che ha un suo caratterino ormai lo sappiamo tutti. Ne fui testimone anch'io una volta durante un suo concerto vicino a Tolone. Può anche darsi, come lo scrivono sia il quotidiano milanese che il fiorentino, che i suoi siano ormai capricci da star, ma la Repubblica ha fatto benissimo ad allargare la riflessione a un fenomeno più generale.
È un fatto che ormai fotografare tutto e qualsiasi cosa non sia solo più un diritto, ma una specie di necessità compulsiva e collettiva che contamina ogni strato sociale. Fotografo ergo sum sembra essere diventata la nuova filosofia, e se poi pubblico su Facebook allora sum ancora di più. Sennò non esisto.
Mi torna in mente una scenetta che ho vissuto più di quarant'anni fa sulle colline che dominano il Loch Ness, in Scozia. Ero lì con una tale Gabriella, bella insegnante di ginnastica, ad ammirare la bellezza del posto senza peraltro alcuna speranza di avvistare un qualsiasi mostro, quando si è fermata una macchina. All'interno, marito e moglie. Il marito è sceso con in mano una macchina fotografica, ha osservato e ha fatto uno scatto. Poi ha detto alla moglie a voce alta, attraverso i finestrini chiusi: “Vieni a vedere, è bellissimo.” E lei ha risposto “No, fa freddo. Tanto poi vedrò la foto.”
Oggi quell'aneddoto me lo scorderei dopo poche ore, tanto sarebbe normale viverlo. La scelta dei più sembra fatta: l'immagine di una cosa vale la cosa. Anzi, testimoniando della cosa originale, l'immagine è l'unica “prova” della sua esistenza e del fatto che noi l'abbiamo vista.
Ma a chi serve quella prova? Prova, ripeto, non testimonianza, il che sarebbe tutt'altro. La foto amatoriale standard, che sia opera del telefonino, dell'IPad, o di una macchina fotografica, o di qualunque altro marchingegno, non ritrae più una cosa, ma il fatto che noi l'abbiamo vista. Non è una cattura di un momento fugace della realtà, ma solo l'affermazione della nostra presenza davanti a quella realtà. È la sindrome L'Oréal: perché tu vali. È l'Epidemia del narcisismo, per riprendere il titolo di un libro di Jean M. Twenge and W. Keith Campbell, libro nel quale viene spiegato che questo movimento iniziò negli anni '60 quando la gente incominciò a scrollarsi di dosso i vincoli sociali a favore dell'esplorazione del potenziale umano individuale. Senonché in un paio di decenni si passò dalla ricerca individuale all'auto-ammirazione e poi all'auto-condiscendenza, per arrivare oggi all'auto-celebrazione a carattere onanista.
La Twenge, psicologa della San Diego State University, ha recentemente pubblicato uno studio nel quale afferma che i narcisisti americani rappresentano oggi il 30% della popolazione, mentre erano solo il 15% trent'anni fa. Non solo, ma i giovani narcisisti sono diventati il triplo degli anziani, mentre erano minoritari nel 1982.
Tra qualche settimana mi ritroverò per il terzo anno consecutivo a fotografare tutti i concerti di Time in Jazz, il festival di Paolo Fresu, a Berchidda e dintorni. So benissimo che per me saranno ancora dieci giorni di goduria totale, coll'occhio incollato al mirino da mattina a tarda notte. So però anche che i concerti me li perderò tutti perché non si può fotografare un concerto e goderne allo stesso tempo. Non a caso durante quei concerti mi offrirò delle lunghe pause fotografiche per ascoltare almeno alcuni pezzi. Non a caso la settimana scorsa, andando a sentire Fresu in duo con Omar Sosa, non mi sono portato la macchina fotografica, proprio perché volevo ascoltare il concerto.
Questa terribile confusione tra una cosa e la sua immagine tende sempre più a sterilizzarci e a fare di noi degli osservatori passivi, irretiti dalla falsa promessa che il documento della cosa ce la renderà più perenne nella memoria. In realtà è il contrario che succede: quello di cui ci si ricorderà non è la cosa, ma solo il momento nel quale l'abbiamo fotografata. Sarà un ricordo freddo e limitato, che nessuna spartizione su internet renderà più umano.
Come a tutti, capita anche a me di imbestialirmi con le migliaia di fotografi della domenica che spuntano come funghi davanti a qualsiasi cosa da fotografare (e non). Ma quel che sento soprattutto è una vera pena per quella gente che si desumanizza in maniera tanto entusiasta, rinunciando a vivere credendo di poter poi dimostrare di aver vissuto. Quanto alla coscienza di rovinare la vita degli altri, quella non esiste più: come immaginare che sto dando fastidio a qualcuno se sto immortalando ciò che vedo? Forse quel qualcuno è più importante del mio importantissimo io? No di certo.
Nel lontano 1967 Guy Debord già profetizzava che non solo il destino dei media era di spettacolizzare tutto, ma che anche il nostro destino individuale era di diventare ognuno lo spettacolo di sé stesso. Purtroppo quella profezia si sta avverando alla grande. A scapito della vita, che è un'altra cosa.

domenica 7 luglio 2013

Il Somaliland all'avanguardia

Una pubblicità di Zaad

Basta. È inutile che continui a lamentarti di non avere notizie fresche sul Somaliland se poi non leggi il Globe and Mail. Ti chiedi perché dovresti leggere un quotidiano dal ridicolo titolo di Globo e Posta? Guarda, non cercare scuse. Intanto se il Globe and Mail si chiama così è perché è nato nel 1936 dalla fusione del Globe (1884) e del Mail and Empire, che nel 1895 era nato dalla fusione del Toronto Mail col Toronto Empire. Ringrazia quindi che il giornale non si chiami The Toronto Globe and Mail and Empire e vai avanti.
Il Globe and Mail del 21 giugno scorso pubblicava un interessante articolo del suo inviato speciale a Hargheisa, Geoffrey York. Come tutti ben sappiamo, Hargheisa altro non è che la capitale del Somaliland, che è poi un pseudo-Stato che nessun altro ha riconosciuto ufficialmente come tale, nonostante uno dei suoi due motti ufficiali sia Giustizia, Pace, Democrazia e Successo per tutti, il che è una bella cosa (l'altro motto ufficiale è Non c'è altro Dio all'infuori di Allah; Maometto è il suo profeta, ma questa è un'altra storia).
Completata questa breve introduzione resa necessaria dalla tua abissale ignoranza, veniamo al dunque, che sarebbe poi questo: in un mondo sempre più tecnologico nel quale i paesi più ricchi fanno la parte del leone, il Somaliland è all'avanguardia assoluta nell'uso della moneta elettronica, con una media di 34 pagamenti online al mese per ognuno dei tre milioni e mezzo di somalilandesi. Certo, lo scellino del Somaliland esiste, anche se ce ne vogliono ben 4.500 per comprarsi un misero dollaro americano con su scritto In God We Trust. Ma le banche praticamente no. Pare ce ne sia qualcuna a Hargheisa, ma se uno abita a Gabilei o a Buuhoodle come fa? Semplice: si compera un cellulare e si fa un bell'abbonamento a Zaad, che è poi una filiale della compagnia telefonica Telesom.
Può sembrarti strano che esista una rete di telefonia mobile in un paese così povero, ma i telefonini sono una realtà ormai ben radicata in ogni angolo d'Africa. E non resisto alla tentazione di raccontarti un aneddoto.
Mi trovavo a Pointe Noire, città petrolifera del Congo Brazzaville. Il direttore del Centre Culturel Français mi ha proposto la sua 4x4 con tanto di autista per farmi un giro fuori città una domenica mattina, consigliandomi di andare a mangiare in un ristorantino su un'isoletta nell'estuario del fiume Congo. Detto fatto, dopo un 'oretta di strade sterrate, sono arrivato sui bordi del grande fiume, in un posto deve le uniche cose visibile erano tre o quattro capanne, un paio di piroghe sfondate e un bambino di dieci anni che giocava sulla spiaggetta. In mezzo al fiume c'era l'isola e al momento del mio arrivo c'era una piroga a motore che spariva dietro l'isola. Ho chiesto al bambino se quella fosse la piroga che dovevo prendere per andare a mangiare. Risposta positiva. “E quando torna qua?”, l'ho incalzato. “Per farla tornare devi telefonare”, mi ha risposto. Mi è subito venuto da fargli notare che eravamo in un punto sperduto del delta del Congo, in mezzo al niente, e non in via Garibaldi, a Sesto San Giovanni. Ma lui, che già l'aveva notato, mi ha chiesto se avessi un telefonino e, soddisfatto della mia risposta positiva, mi ha dettato un numero. Ho chiamato e cinque minuti dopo ho visto riapparire la piroga, manco fosse stata un radiotaxi torinese.
Ma torniamo al Somaliland. Lì, come ovunque in Africa, quasi tutti hanno un telefonino. E il commercio telefonico ha ridotto drasticamente il livello di criminalità, visto che di soldi da rubare ce n'è sempre meno. “Il sistema è estremamente semplice e sicuro — ci informa il Globe and Mail.Chi ha un abbonamento paga occasionalmente un po' di soldi a Telesom e poi li usa per pagare telefonicamente i negozianti. Per effettuare un pagamento basta digitare un numero di tre cifre e un codice PIN di quattro, seguito dal numero Zaad del venditore e dalla somma da pagare. Tutti i commercianti, anche quelli che vendono per strada, hanno il loro numero Zaad bene in vista. In un attimo sia il venditore che l'acquirente ricevono un SMS di conferma del pagamento ed ecco che la transazione è fatta.”
Mustapha Osman Guelleh, responsabile della Coca-Cola locale, spiega che più dell'80% delle transazioni della compagnia vengono fatte così e che in questo modo non c'è più rischio di furti. Quanto ad Adan Abokor, attivista democratico, dice che se uno dei suoi figli vuole comprarsi un panino, io gli mando i soldi con Zaad e lui li riceve immediatamente.” Lo stesso Abokor spiega anche che tra le ragioni dello sviluppo della telefonia mobile nel suo Paese ce n'è anche una culturale: “La società somala si basa su una cultura orale, per questo tutti hanno bisogno di un telefonino.
Il paese africano con più telefonini per abitante è il vicino Kenya, dove la principale compagnia telefonica si chiama Safaricom. All'inizio il telefonino era usato soprattutto dagli emigranti che volevano mandare soldi a casa risparmiando sulle tariffe di compagnie tipo MoneyGram, ma ormai è per telefono che vengono pagati anche la maggior parte degli stipendi, nonché ogni genere d'acquisto. In più il telefonino permette anche di prendere a prestito piccole somme di denaro a un tasso inferiore a quello proposto dai numerosi prestasoldi di strada. “Non c'è bisogno di andare a fare la coda in banca, spiega Doris Obondo, un'impiegata ventunenne di Nairobi. Verso la fine del mese, quando il mio stipendio finisce, prendo un prestito da M-Shwari (la Zaad keniana). Una sera non avevo da mangiare e ho chiesto 200 scellini (poco più di 2 dollari), che ho poi rimborsato un mese dopo pagandone 215.
Mi chiederai perché abbia tenuto a informarti sul commercio telematico nel Somaliland. Beh, coi tempi che corrono qui da noi, mi sembra ora che incominciamo a prepararci, no?...

giovedì 4 luglio 2013

Approssimazioni pericolose

Piazza Tahrir - Reuters
Titolo: Piazza Tahrir: centinaia di stupri. Prima frase dell'articolo: “In pochi giorni, quasi cento abusi sessuali in piazza Tahrir contro le donne: Human Rights Watch denuncia la cifra e dà i dettagli.
Vado sul sito di Human Rights Watch e leggo un articolo pubblicato ieri, che incomincia così: “Gli ufficiali egiziani e gli uomini politici di ogni bordo dovrebbero condannare e fare passi immediati per fermare gli orrendi livelli di violenza contro le donne sulla piazza Tahrir. Alcuni gruppi egiziani contro la violenza fatta alle donne confermano che la folla ha assalito sessualmente e in alcuni casi stuprato almeno 91 donne sulla piazza Tahrir durante i quattro giorni di protesta iniziati il 30 giugno 2013 in un clima di impunità.
Non voglio ovviamente sminuire la nefandezza delle violenze alle donne, ma, al contrario, sottolineare come il ricorso sistematico al titolone da scoop trasformi queste violenze in faits divers indegni di serietà giornalistica, trattando il lettore da semianalfabeta e sperando in una sua superficialità di lettura.
Di cosa stiamo parlando? Di centinaia di stupri, o di aggressioni sessuali e in alcuni casi anche di stupro su almeno 91 donne?
Il titolone ad effetto, l'ingigantimento della realtà e il parallelo riferimento a dati precisi di un'organizzazione rispettata internazionalmente come Human Rights Watch altro non fanno che annegare l'informazione in una melma confusa dalla quale ciò che finisce con l'emergere è fondamentalmente un pericoloso sentimento di ostilità sia verso il mondo arabo che verso il mondo musulmano in generale. Il fatto riportato da H.R.W., almeno 91 aggressioni sessuali, è di per sé raccapricciante. Ingigantendolo come lo fa il titolo di Repubblica si rischia di banalizzare ognuno di quei 91 casi rendendoli singolarmente meno drammatici proprio per la loro relativa “normalità”.
Se avessi letto Dieci donne violentate dai manifestanti egiziani ne sarei naturalmente stato indignato. Ma quel dieci (prendo una cifra a caso) mi avrebbe permesso di “visualizzare” ognuna delle vittime. Davanti a centinaia di stupri invece cambia tutto: la sindrome dei grandi numeri mi impedisce quella visualizzazione e, rendendomi impossibile di vedere i fatti riportati come 1+1+1+1... li anestetizza e ne sminuisce la drammaticità.
Probabilmente la giornalista Eleonora Vio, autrice dell'articolo, è stata lei stessa turbata dall'anonimo titolatore in cerca di sensazionalismo. Al suo posto, mi sarebbero girati vorticosamente i didimi.
C'è un altro articolo interessante sul sito di Repubblica. Lo firma Carlo Ciavoni. Eccone uno stralcio: “Il volto e il corpo coperti dal niqab, l'abito tradizionale islamico che lascia solo gli occhi scoperti, portato solo per mantenere l'anonimato, garantito anche dalle luci soffuse e dalle telecamere spente. Poi il racconto con voce tremante di giorni di stupri, sevizie, scosse elettriche che le hanno fatto prima di perdere il bimbo che aspettava, poi l'hanno resa sterile. Il drammatico racconto è avvenuto alla Camera dei Deputati, nel corso del convegno La verità necessaria - I processi di riconciliazione delle primavere arabe, che ha affrontato il tema dello stupro come arma da guerra e ancora praticata nei paesi post-conflitto, anche in quelli della ormai incerta Primavera araba. La donna ha spiegato che l'arresto è avvenuto dopo che lei ed alcune amiche erano state riprese da Al Jazeera mentre invitavano le altre studentesse a scendere in piazza contro Gheddafi. Poche ore dopo, iniziava l'incubo. "Mi hanno arrestata, e tenuta nuda per tutto il tempo. Gli stupri erano continui, poi le scariche elettriche. Chiedevo che chiudessero la porta almeno quando dormivo. Le mie amiche, non le ho più viste. E la mia famiglia che mi dice, se non ti fossi messa a fare i proclami oggi non ti sarebbe successo nulla", ha raccontato.
Leggendo queste righe, il mio sdegno è molto più grande che leggendo quelle dell'altro articolo. Lo è perché queste righe mi permettono di visualizzare una donna, una persona; mi fanno immaginare la cella, il corpo nudo sdraiato alla ricerca del sonno che non viene, la seconda e tremenda violenza subita, quella delle inaccettabili parole della famiglia. Questo articolo mi permette quell'empatia e dunque quel sentimento di solidarietà umana che il titolo che parla di centinaia di stupri anestetizza. È individualizzando il problema e focalizzandolo su un caso personale preso ad esempio tra molti che lo si rende umano, non certo sparando numeri fantasiosi. È in questo che risiede la forza della foto di reportage, come quella del romanzo: se Guerra e pace è una denuncia così potente dell'invasione napoleonica della Russia lo è proprio perché Tolstoi ci fa vedere quei fatti attraverso lo sguardo del principe Andrej, di Marja Nikolaevna e degli altri personaggi che, pagina dopo pagina, finiamo col sentire vicini a noi, comprendendone le motivazioni individuali, gli slanci e le debolezze. Se la foto della “Vergine algerina” di Hocine o quella dell'anziana palestinese che cerca di difendere un ulivo dai soldati israeliani venuti a sradicarlo, di Abed Omar Qusini, smuovono le nostre coscienze è proprio perché ci fanno vedere una persona.

 Donna algerina - Hocine

Ulivo palestinese - Abed Omar Qusini
La nostra mente è fatta così: se diciamo “venti persone” riusciamo ancora facilmente a visualizzarle e a sentirne le individualità; se diciamo “seimila” il nostro giudizio si annebbia. Se poi diciamo “migliaia” o anche “centinaia”, allora entriamo nel vago più totale. Cosa sono “centinaia”? Trecento o novecento? O magari milleseicento?
Davanti a questi numeri imprecisi e approssimativi la nostra mente non ci permette più di vedere persone, ma masse indistinte. “Sei milioni di ebrei” sono molto meno reali e smuovono meno le nostre coscienze di quanto lo faccia il racconto individuale di Primo Levi in Se questo è un uomo.
Parlare di “centinaia di stupri” è un'ulteriore offesa fatta ad ognuna di quelle donne che hanno subito un'inaccettabile violenza.