mercoledì 31 agosto 2011

Di fotografia

Una mia recente foto al festival Time in Jazz di Berchidda

Questo post sarà lungo. E parlerà di fotografia.
Se sarà lungo è perché prima voglio pubblicare un testo che un'amica mi ha mandato via Facebook. L'autore è Tony Sleep, un fotografo freelance inglese. Ecco ciò che scrive:

Ogni settimana, ricevo in media un paio di proposte di lavoro da parte di gente che “non ha soldi” per pagare le mie foto. Case editrici, riviste, giornali, organizzazioni, aziende affermate o appena avviate: tutti pensano che la fotografia non costi niente, o peggio che mi stiano facendo un favore ad offrirmi di pubblicare il mio lavoro offrendo come compenso di aggiungere il mio nome qui o là.
Ho smesso di rispondere a queste richieste personalmente e linko semplicemente al seguente testo.
Allora, mettiamo le cose in chiaro. “Non abbiamo un budget per le fotografie” significa in realtà: “Pensiamo che i fotografi siano dei coglioni”.
Questa interpretazione potrà forse sembrarvi offensiva, ma possiamo facilmente verificarla con un esperimento: provate ad entrare in un ristorante della vostra città dicendo garbatamente “vorrei mangiare qui, ma non ho previsto un budget per pagarvi”. Aggiungere che in cambio farete pubblicità presso tutti i vostri amici non impedirà al proprietario di sbattervi cortesemente fuori a calci.
Ora, immaginate di essere voi stessi i proprietari di un ristorante dove la maggior parte degli avventori provano a cenare gratis con questa tecnica. La risposta è NO, volendo essere esageratamente gentili.
E se in realtà “non abbiamo un budget” era solo una strategia per tastare il terreno, la risposta è sempre e comunque NO. Non voglio avere niente a che fare con degli avidi opportunisti che vorrebbero imbastire una relazione professionale mentendo sin dall'inizio. Avete già dimostrato di non meritare fiducia, dunque mi date anche ragione di pensare che non sarete onesti sullo sfruttamento delle immagini e che comunque farete di tutto per non pagare un euro.
Se invece siete di quelli che promettono un sacco di lavoro meglio pagato più avanti se io accetto di aiutarvi a costo zero adesso, ottimo, ci sto, offritemi un contratto. Altrimenti per quanto mi riguarda le vostre sono tutte stronzate e la risposta è NO.
Anche perché, vedete, non me ne frega niente di “farmi conoscere” regalandovi il mio lavoro. Quello che voglio è invece un rapporto professionale di mutua collaborazione e beneficio. Da parte mia cerco di offrire la massima onestà ed integrità professionale e mi aspetto che i miei clienti facciano lo stesso con me. “Farsi conoscere” è la naturale conseguenza di un lavoro ben fatto, non un mezzo per ottenere qualcosa e lo stesso vale per il mio nome pubblicato insieme al mio lavoro: è una prassi, nonché indice di correttezza. Al contrario, di guadagnarmi applausi lavorando come un dilettante non me ne frega niente. Se avere un prodotto gratis è più importante di avere un prodotto di qualità, chiedete pure a qualcun altro.
Come la maggior parte delle persone, anch'io lavoro per pagarmi le bollette e mandare avanti la mia professione e la mia famiglia. Il fatto che io ami quello che faccio è semplicemente la ragione per cui sono quarant'anni che mi impegno al massimo nonostante le difficoltà: se pensate di avere il diritto di mancare di rispetto alla mia professionalità in virtù di questo, vi sbagliate di grosso.
Perciò non vi sorprendete se scelgo di non aiutare dei parassiti che guadagnano, o pretendono di farlo, sfruttando il lavoro dei fotografi – e anche il mio – fino al midollo. Con alcune rare eccezioni (piccole associazioni veramente no profit, mandate avanti da volontari) sono io che questa volta non ho previsto un budget per rendere le imprese degli altri più redditizie: già far quadrare i miei bilanci non è cosa da poco, vista anche questa recente tendenza a far passare lo “sfruttamento” come “un'incredibile opportunità”.
Il mio sostegno lo garantisco volentieri quando posso, attraverso piccole donazioni ad organizzazioni che ritengo di voler aiutare o semplicemente offrendo un pranzo ad un senzatetto. Vi assicuro inoltre che quando lavoro per onlus e associazioni, lo faccio a tassi agevolati. Penso di essere una persona onesta, generosa e gentile, ma mi sento di non fare l'elemosina a degli accattoni stipendiati che mi chiedono di riempirgli le tasche con soldi a manciate. Mi fanno incazzare. Specialmente quando mi insultano dicendo che si, il mio è proprio un bel lavoro, però non lo pagherebbero un cent.
Ho avuto delle conversazioni esilaranti con un sacco di gente che, a quanto pare, pensa che delle buone immagini siano solo il frutto di circostanze fortunate e che dunque sia loro diritto averle a costo zero, semplicemente perché gli elettroni non hanno ancora un preciso valore di mercato. Come la volta in cui incontrai la manager di un'importante organizzazione inglese (con un utile dichiarato di oltre 3 milioni di sterline). La signora mi spiegava quanto tenesse a pubblicare più foto possibile sul sito internet del gruppo di cui era a capo: i visitatori le trovavano infatti più efficaci ed immediate dei testi (prodotti per altro da uno specifico team di scrittori retribuiti). Dunque l'importanza delle foto era fuori discussione. Ma, forse, sarebbe stato anche il caso di pagarle: magari usando una parte del budget annuo di 160.000 sterline che la suddetta organizzazione destinava ai contenuti web (di nuovo, ho controllato le cifre dichiarate, disponibili online). La signora proprio non riusciva a capire che la foto che aveva davanti e che avrebbe tanto voluto pubblicare esisteva solo perché io avevo investito tempo, denaro e lavoro nel crearla. “Ma tutti i fotografi di solito sono ben felici di lasciarci pubblicare le loro immagini gratuitamente” mi spiegava. Non credo proprio lo siano, probabilmente hanno solo omesso di dare un'occhiata alle solite cifre che dicevo sopra: se lo avessero fatto si sarebbero accorti che lei guadagnava qualcosa come 66.000 sterline l'anno (circa €74.000 al cambio attuale, ndr) – giusto qualche soldo in più della retribuzione zero che invece offriva in cambio delle immagini.
E' chiaro che soltanto i fotografi amatoriali possono permettersi di fornire servizi senza ricevere un compenso: la fotografia non è per loro una fonte di reddito. Fanno altri lavori, hanno una pensione, guadagnano in altro modo, sono dei romantici con tendenze suicide – non mi interessa. Io no. L'atteggiamento di far guerra ai professionisti per farsi belli è profondamente egoista e ha conseguenze disastrose: distrugge la fotografia come mestiere, come rispettabile fonte di guadagno per la vita.
Ecco, questa è gente vanitosa e piena di sé e davvero si accontenta di lavorare in cambio del proprio nome scritto accanto ad un'immagine: se è tutto ciò che avete da offrire, chiamate pure uno di loro. In alternativa, avete a disposizione una folta schiera di studenti e neolaureati da sfruttare – sono disperati ed inesperti, vi consiglio di cogliere al volo la ghiotta occasione di risparmiare qualche soldo e peggiorare di un altro po' le loro già precarie condizioni economiche.
Tutto questo significa che forse non riuscirete a procurarvi le immagini che volete a costo zero? Beh, benvenuti nel mondo, è dura. A me non danno certo macchine fotografiche, computer, programmi, benzina, una casa e da mangiare senza spendere un euro. La fotografia è facile ed economica no? Allora prendete una macchina fotografica e scattatevele da soli le vostre stupide foto.
E se dopo aver letto vi sentite offesi, probabilmente è perché almeno una volta, ci avete provato anche voi.

Non mi sento offeso. Ma siccome non più tardi di dieci giorni fa due quotidiani hanno pubblicato mie fotografie avute gratis, voglio commentare.
Innanzitutto, sono fondamentalmente d'accordo con quanto scrive Sleep, anche perché nel mio lavoro di teatrante ho spesso avuto reazioni simili. È vero, qualsiasi lavoro merita una retribuzione ed è vero anche che l'avere foto gratis è diventata una specie di cosa “normale” per moltissimi editori.
Preciso subito che non sono un professionista della fotografia, nel senso che non è con quella che mi pago il burro da mettere sulla pasta e la Nutella da spalmare sul pane. Sono uno dei numerosi dilettanti che cercano di prendere la fotografia sul serio e ci si applicano in maniera diversa da quella del turista col telefonino. Il che non è un motivo di vanto, ma una semplice constatazione.
Negli ultimi anni mi è capitato di fare qualche mostra, di pubblicare un libro e di vendere qualche foto a riviste teatrali e anche a case editrici per qualche libro. Queste vendite mi hanno fruttato poche decine di euro.
Ho amici fotografi professionisti e so quanto sia difficile per loro guadagnarsi da vivere. Anche per questo nel quadro di un rapporto professionale chiedo che le foto mi siano pagate, pur accettando i prezzi imposti senza discutere.
Ovviamente mi fa piacere vedere una mia foto pubblicata, ma non è certo vedendone una su La nuova Sardegna, come successo recentemente, che il mio ego si gonfia a dismisura.
Mi pare che il problema fondamentale sia che oggi tutti fanno foto, semplicemente perché la tecnica digitale e i prezzi degli apparecchi hanno permesso una “democratizzazione” (anche se la parola non mi piace) tale da rendere l'atto fotografico alla portata di tutti.
È un po' quello che è successo con internet, che permette a tutti di inondare il mondo di scritti e immagini di ogni tipo, compresi i peggiori. Ma così come internet non ha ucciso la letteratura o il giornalismo, non credo che ucciderà la fotografia, né il mercato fotografico.
Le ragioni per dare una foto gratis a un giornale possono essere molteplici e non starò qui a spiegare quali siano state le mie. Qualunque queste siano, credo vadano separate dalla richiesta di gratuità da parte dei giornali. Sono d'accordo che sia scandaloso che i giornali ritengano un diritto il fatto di avere foto gratis. Non sono d'accordo sul fatto che dare una foto gratis sia di per sé indice di incoscienza o di offesa alla categoria dei fotografi.
Lo so, questo discorso può sembrare ambiguo e tirato per i capelli, ma non lo è. Il dilentattismo, in molti campi, è l'anticamera del professionalismo. Lo è nella fotografia, lo è nel teatro, nel cinema, nella pittura, nella danza, nella musica, nella letteratura, perfino nel giornalismo. In tutte questi campi si affiancano due tipologie: quella di chi ha ricevuto una formazione scolastica e quella di chi “si è fatto da sé”. Nei sistemi socialisti dell'Europa del dopoguerra era impossibile fare l'attore, cioè andare in scena davanti a un pubblico, se non si possedeva un regolare diploma, mentre nei paesi democratici moltissimi attori, registi, scenografi e tecnici hanno incominciato da dilettanti. Io sono stato uno dei rari, negli anni 70 e nel mondo tel teatro di figura italiano, ad iniziare la mia attività dopo una formazione teatrale alla scuola del Piccolo Teatro di Milano. Eppure ho incominciato da dilettante, non pagato, e ho tirato avanti per anni solo grazie all'aiuto della famiglia dei miei suoceri di allora.
Durante quegli anni ho lavorato gratis molte volte, sempre pensando che non era normale, ma sapendo che quella era la sola via possibile. Poi un mio spettacolo ha avuto successo e da quel momento ho potuto guadagnarmi da vivere col mio lavoro.
Mai, durante quegli anni, ho avuto l'impressione di essere “un romantico con tendenze suicide”, né di “far guerra ai professionisti per farmi bello”. Quell'impressione non ce l'ho nemmeno oggi con la fotografia.
Aggiungo che se oggi qualcuno (famiglia a parte) mi chiedesse di fotografare un matrimonio o di fornire un qualsiasi tipo di reportage gratis non lo accetterei, proprio perché sono conscio delle ragioni espresse da Tony Sleep. Ma allora il problema non è trattare i dilettanti da ladri o approfittatori, da bambini desiderosi di riconoscimenti o da insulsi approfittatori. Semmai il problema è trovare una vera solidarietà tra i fotografi professionisti che garantisca a tutti di portare avanti un lavoro che merita retribuzione con serietà e dignità.
Il “nemico” non siamo noi dilettanti, è chi effettivamente non riconosce al fotografo professionista la sua professionalità, così come succede nei vari altri campi precitati. Che poi ci siano, marginalmente, persone che assomigliano all'impietoso ritratto che ne fa Tony Sleep, mi spiegate come sarebbe possibile evitarlo? Che si fa? Una legge? E con quali risultati possibili?
Il mondo è quotidianamente inondato d'immagini. L'anno scorso ho ricevuto una mail da un museo parigino che mi chiedeva una foto che avevo pubblicato su un mio precedente blog per pubblicarla su un libro. Ho accettato e sono stato regolarmente pagato. D'altro canto, mentre anni fa chi veniva a fotografare su mia richiesta uno dei miei spettacoli veniva prima pagato per il servizio e poi per ogni stampa che mi forniva nel tempo, oggi lo stesso fotografo non mi fornisce più delle stampe, ma un file digitale con l'autorizzazione a stamparlo e pubblicarlo quando ne ho bisogno senza retribuzioni supplementari (solo con l'impegno da parte mia ad indicarne sempre il nome, cosa che giornali e riviste poi non fanno quasi mai).
Non so se questo sia un bene o un male. So che il mestiere di fotografo è cambiato e che le fonti di guadagno sono cambiate anche loro. La scusa del “non ho soldi” da parte di chi ce li ha è insultante e inaccettabile; l'atteggiamento del “l'importante è che sia pubblicato, anche se gratis” è dannosa per la categoria e perfettamente condannabile; ma, ripeto, dov'è la soluzione?
Con la quantità di scatti che il digitale permette anche un dilettante finisce prima o poi per fare una foto “bella”, o “giusta”, o “interessante”. La stessa cosa non è vera di arti più manuali, come il teatro, la musica o la danza, che richiedono un'elaborazione più lunga e complessa. Questo non fa di ogni dilettante un fotografo, e ancor meno un professionista, ma fa sì che anche un dilettante sia ormai in misura di produrre occasionalmente foto “professionali”. Il nemico, ripeto, non è il dilettante, ma il mercato, ovvero i mercanti pronti a tutto pur di aumentare i loro guadagni. Quindi cerchiamo di non sbagliarci di bersaglio e di sviluppare invece una vera coscienza di amore comune per uno stesso modo d'espressione, nel rispetto delle differenze e della professionalità di chi a quello stadio c'è arrivato dopo anni di lavoro e di sacrifici.