giovedì 18 agosto 2011

Della casta

L'Espresso di questa settimana pubblica la lista dei 2307 ex-deputati ed ex-senatori che percepiscono pensioni mensili tra 1700 e 7000€. Il settimanale pubblica anche le reazioni di alcuni interessati che insistono sul fatto che “non sono questi i problemi del paese”, che "è una cazzata pensare che cancellando il vitalizio si riducano i costi della politica", che questa storia è “una noia”, che “sarebbe più opportuno parlare di altri tagli alla spesa pubblica", ecc. ecc.
Che la riduzione de queste ricchissime pensioni non sia in grado riequilibrare il budget dello Stato è cosa tanto evidente che chi ne parla fa solo la figura nel migliore dei casi dello sciocco e nel peggiore dei casi della persona di malafede. Ma questo non è il problema.
Il problema è che l'enorme deficit statale di un paese come l'Italia (e probabilmente di tutti gli altri paesi in deficit) non è un problema economico-finanziario, ma culturale. Il problema è che la maggior parte dei problemi strutturali dei paesi ricchi è culturale. E mi spiego.
Premettendo che per spiegarmi bene dovrei magari cominciare da un po' prima, ma che fa troppo caldo e che ho troppa voglia di andarmi a fare una siesta, vorrei ricordare la svolta avvenuta sotto Georges Bush padre, ovvero la rinuncia da parte degli Stati a vaste fette del loro potere (e dei loro doveri) a favore del settore privato nel sacrosanto nome di Santa Globalizzazione. Come ci fu venduta quella truffa macroscopica? Con il fallace argomento che liberando il commercio i paesi dittatoriali sarebbero stati ineluttabilmente portati alla democrazia. Quel che è successo è esattamente il contrario, nella misura in cui sono i paesi democratici ad aver lasciato filare via vaste fette di democrazia, manco fosse stata carta igienica usata.
Parallelamente ci veniva spiegato che il consumatore (che stava per soppiantare l'ormai caduco cittadino) avrebbe avuto tutto da guadagnare nel trovare sul mercato prodotti a costo più basso. Altra balla spaziale, visto che poi lo stesso consumatore ha incominciato a trovarsi con sempre meno soldi in tasca mentre aumentavano vistosamente le fortune degli azionisti.
Sempre parallelamente è venuta a costituirsi un'Unione Europea che ha, sì, un parlamento, ma che di fatto impone regole elaborate da commissioni e commissari che non sono stati eletti da nessuno.
Gli Stati si sono trovati estremamente indeboliti, privi di controllo sui mercati ormai liberi. Avendo abolito ogni forma di protezionismo senza rimpiazzarla con una qualsiasi regolamentazione tesa a proteggere i più deboli, gli Stati hanno semplicemente perso il controllo del gioco. “Vedrete che il mercato si autoregola da solo”, ci avevano detto. E abbiamo visto. Abbiamo visto esattamente il contrario.
Dietro questi cambiamenti economici e politici però ce n'è stato un altro, molto più importante, di tipo culturale, che ha smantellato quei valori plurisecolari legati al dovere, all'onore, alla solidarietà, al senso di responsabilità e alla dignità che, bene o male, continuavano malgrado tutto ad essere vivi anche presso una parte dell'imprenditoriato capitalista. Al loro posto ormai imperano nuovi valori che hanno a che fare col trionfo del più forte e del più furbo, del più avventuroso e del più bello, del più spregiudicato e del più cinico.
Probabilmente sorpresi essi stessi dalla vastità di questa mutazione culturale così rapida, i politici hanno cambiato linguaggio. Mentre prima per ottenere i nostri voti ci parlavano, più o meno in malafede, è vero, delle nostre vite quotidiane, ormai non ci parlano più che di mercati, di statistiche, di quelle che chiamano macroeconomia e macropolitica e che nemmeno loro sembrano sapere cosa siano.
Parallelamente (visto che anche qui c'è un parallelamente) questi stessi politici, invece di mettere un freno al motore impazzito al quale loro stessi avevano fatto il pieno di benzina, si sono messi a correre ai ripari pro domo incrociando sempre più i loro interessi con quelli dell'ormai plenipotenziario settore privato.
Rileggere oggi l'ultimo discorso del presidente Eisenhower (che metteva in guardia contro il complesso militaro-industriale), ripensare a De Gaulle che ci teneva a pagare di tasca sua i pasti dei parenti e degli amici personali che invitava a cena al palazzo dell'Eliseo, ricordare la frase di Churchill quando disse “adesso che non sono più Primo Ministro potrò finalmente accettare l'invito del mio amico Onassis ad andare sul suo yacht”, ci dà l'impressione di un mondo che davvero non c'è più.
Allora, per tornare all'inizio di questo post, è certamente vero che le pensioni dei parlamentari, i prezzi scandalosamente bassi dei loro ristoranti e l'insieme dei loro privilegi non rovinano finanziariamente l'Italia, ma la rovinano culturalmente. La rovinano perché un popolo che si trova rappresentato da una casta così impotente di fronte ai diktat del mercato, così squallida nella sua mancanza di decenza e di onore, così arrogante nella sua vile rinuncia alla dignità, così cieca e sorda davanti al malessere di cittadini che rifiutano di farsi trattare da consumatori, così colpevole e stupidamente irresponsabile, così biecamente cinica davanti a un mondo che va a rotoli, non può che perdere fiducia nel suo avvenire perdendo una parte della sua umanità.
La rinuncia a gran parte dei privilegi da parte dei nostri politici non è un'opzione, è un'urgenza. Solo attraverso gesti simbolicamente importanti questi usurpatori del titolo di “onorevole” possono sperare di riacquistare poco a poco quel minimo di credibilità indispensabile a permettere al popolo di riacquistare a sua volta un minimo di autostima e di fiducia.
Non ne possiamo più di sentire parlare di mercati, di borse, di azioni e di produttività. Chi, se non i politici, sono i colpevoli dei deliri dei mercati, dell'altalena delle borse, della dittatura delle azioni e della scarsa produttività? Cosa può spingere un Paese a cambiare se non una visione, un sogno, una speranza di un avvenire migliore? Ostinarsi a lanciare manovre, manovrine, manovrette e manovrone non serve a niente se dietro non c'è nulla in cui credere, o se l'unica cosa alla quale siamo autorizzati a credere è che per essere felici dobbiamo diventare azionisti della multinazionale Pinco o del Mutual Fund Pallino.

Questo post è già troppo lungo e quindi la smetto qui. Oltre tutto ho la netta impressione che altri potrebbero dire le stesse cose molto meglio di me. È solo che, o sono diventato sordo, o le sento dire troppo poco.