mercoledì 31 agosto 2011

Di fotografia

Una mia recente foto al festival Time in Jazz di Berchidda

Questo post sarà lungo. E parlerà di fotografia.
Se sarà lungo è perché prima voglio pubblicare un testo che un'amica mi ha mandato via Facebook. L'autore è Tony Sleep, un fotografo freelance inglese. Ecco ciò che scrive:

Ogni settimana, ricevo in media un paio di proposte di lavoro da parte di gente che “non ha soldi” per pagare le mie foto. Case editrici, riviste, giornali, organizzazioni, aziende affermate o appena avviate: tutti pensano che la fotografia non costi niente, o peggio che mi stiano facendo un favore ad offrirmi di pubblicare il mio lavoro offrendo come compenso di aggiungere il mio nome qui o là.
Ho smesso di rispondere a queste richieste personalmente e linko semplicemente al seguente testo.
Allora, mettiamo le cose in chiaro. “Non abbiamo un budget per le fotografie” significa in realtà: “Pensiamo che i fotografi siano dei coglioni”.
Questa interpretazione potrà forse sembrarvi offensiva, ma possiamo facilmente verificarla con un esperimento: provate ad entrare in un ristorante della vostra città dicendo garbatamente “vorrei mangiare qui, ma non ho previsto un budget per pagarvi”. Aggiungere che in cambio farete pubblicità presso tutti i vostri amici non impedirà al proprietario di sbattervi cortesemente fuori a calci.
Ora, immaginate di essere voi stessi i proprietari di un ristorante dove la maggior parte degli avventori provano a cenare gratis con questa tecnica. La risposta è NO, volendo essere esageratamente gentili.
E se in realtà “non abbiamo un budget” era solo una strategia per tastare il terreno, la risposta è sempre e comunque NO. Non voglio avere niente a che fare con degli avidi opportunisti che vorrebbero imbastire una relazione professionale mentendo sin dall'inizio. Avete già dimostrato di non meritare fiducia, dunque mi date anche ragione di pensare che non sarete onesti sullo sfruttamento delle immagini e che comunque farete di tutto per non pagare un euro.
Se invece siete di quelli che promettono un sacco di lavoro meglio pagato più avanti se io accetto di aiutarvi a costo zero adesso, ottimo, ci sto, offritemi un contratto. Altrimenti per quanto mi riguarda le vostre sono tutte stronzate e la risposta è NO.
Anche perché, vedete, non me ne frega niente di “farmi conoscere” regalandovi il mio lavoro. Quello che voglio è invece un rapporto professionale di mutua collaborazione e beneficio. Da parte mia cerco di offrire la massima onestà ed integrità professionale e mi aspetto che i miei clienti facciano lo stesso con me. “Farsi conoscere” è la naturale conseguenza di un lavoro ben fatto, non un mezzo per ottenere qualcosa e lo stesso vale per il mio nome pubblicato insieme al mio lavoro: è una prassi, nonché indice di correttezza. Al contrario, di guadagnarmi applausi lavorando come un dilettante non me ne frega niente. Se avere un prodotto gratis è più importante di avere un prodotto di qualità, chiedete pure a qualcun altro.
Come la maggior parte delle persone, anch'io lavoro per pagarmi le bollette e mandare avanti la mia professione e la mia famiglia. Il fatto che io ami quello che faccio è semplicemente la ragione per cui sono quarant'anni che mi impegno al massimo nonostante le difficoltà: se pensate di avere il diritto di mancare di rispetto alla mia professionalità in virtù di questo, vi sbagliate di grosso.
Perciò non vi sorprendete se scelgo di non aiutare dei parassiti che guadagnano, o pretendono di farlo, sfruttando il lavoro dei fotografi – e anche il mio – fino al midollo. Con alcune rare eccezioni (piccole associazioni veramente no profit, mandate avanti da volontari) sono io che questa volta non ho previsto un budget per rendere le imprese degli altri più redditizie: già far quadrare i miei bilanci non è cosa da poco, vista anche questa recente tendenza a far passare lo “sfruttamento” come “un'incredibile opportunità”.
Il mio sostegno lo garantisco volentieri quando posso, attraverso piccole donazioni ad organizzazioni che ritengo di voler aiutare o semplicemente offrendo un pranzo ad un senzatetto. Vi assicuro inoltre che quando lavoro per onlus e associazioni, lo faccio a tassi agevolati. Penso di essere una persona onesta, generosa e gentile, ma mi sento di non fare l'elemosina a degli accattoni stipendiati che mi chiedono di riempirgli le tasche con soldi a manciate. Mi fanno incazzare. Specialmente quando mi insultano dicendo che si, il mio è proprio un bel lavoro, però non lo pagherebbero un cent.
Ho avuto delle conversazioni esilaranti con un sacco di gente che, a quanto pare, pensa che delle buone immagini siano solo il frutto di circostanze fortunate e che dunque sia loro diritto averle a costo zero, semplicemente perché gli elettroni non hanno ancora un preciso valore di mercato. Come la volta in cui incontrai la manager di un'importante organizzazione inglese (con un utile dichiarato di oltre 3 milioni di sterline). La signora mi spiegava quanto tenesse a pubblicare più foto possibile sul sito internet del gruppo di cui era a capo: i visitatori le trovavano infatti più efficaci ed immediate dei testi (prodotti per altro da uno specifico team di scrittori retribuiti). Dunque l'importanza delle foto era fuori discussione. Ma, forse, sarebbe stato anche il caso di pagarle: magari usando una parte del budget annuo di 160.000 sterline che la suddetta organizzazione destinava ai contenuti web (di nuovo, ho controllato le cifre dichiarate, disponibili online). La signora proprio non riusciva a capire che la foto che aveva davanti e che avrebbe tanto voluto pubblicare esisteva solo perché io avevo investito tempo, denaro e lavoro nel crearla. “Ma tutti i fotografi di solito sono ben felici di lasciarci pubblicare le loro immagini gratuitamente” mi spiegava. Non credo proprio lo siano, probabilmente hanno solo omesso di dare un'occhiata alle solite cifre che dicevo sopra: se lo avessero fatto si sarebbero accorti che lei guadagnava qualcosa come 66.000 sterline l'anno (circa €74.000 al cambio attuale, ndr) – giusto qualche soldo in più della retribuzione zero che invece offriva in cambio delle immagini.
E' chiaro che soltanto i fotografi amatoriali possono permettersi di fornire servizi senza ricevere un compenso: la fotografia non è per loro una fonte di reddito. Fanno altri lavori, hanno una pensione, guadagnano in altro modo, sono dei romantici con tendenze suicide – non mi interessa. Io no. L'atteggiamento di far guerra ai professionisti per farsi belli è profondamente egoista e ha conseguenze disastrose: distrugge la fotografia come mestiere, come rispettabile fonte di guadagno per la vita.
Ecco, questa è gente vanitosa e piena di sé e davvero si accontenta di lavorare in cambio del proprio nome scritto accanto ad un'immagine: se è tutto ciò che avete da offrire, chiamate pure uno di loro. In alternativa, avete a disposizione una folta schiera di studenti e neolaureati da sfruttare – sono disperati ed inesperti, vi consiglio di cogliere al volo la ghiotta occasione di risparmiare qualche soldo e peggiorare di un altro po' le loro già precarie condizioni economiche.
Tutto questo significa che forse non riuscirete a procurarvi le immagini che volete a costo zero? Beh, benvenuti nel mondo, è dura. A me non danno certo macchine fotografiche, computer, programmi, benzina, una casa e da mangiare senza spendere un euro. La fotografia è facile ed economica no? Allora prendete una macchina fotografica e scattatevele da soli le vostre stupide foto.
E se dopo aver letto vi sentite offesi, probabilmente è perché almeno una volta, ci avete provato anche voi.

Non mi sento offeso. Ma siccome non più tardi di dieci giorni fa due quotidiani hanno pubblicato mie fotografie avute gratis, voglio commentare.
Innanzitutto, sono fondamentalmente d'accordo con quanto scrive Sleep, anche perché nel mio lavoro di teatrante ho spesso avuto reazioni simili. È vero, qualsiasi lavoro merita una retribuzione ed è vero anche che l'avere foto gratis è diventata una specie di cosa “normale” per moltissimi editori.
Preciso subito che non sono un professionista della fotografia, nel senso che non è con quella che mi pago il burro da mettere sulla pasta e la Nutella da spalmare sul pane. Sono uno dei numerosi dilettanti che cercano di prendere la fotografia sul serio e ci si applicano in maniera diversa da quella del turista col telefonino. Il che non è un motivo di vanto, ma una semplice constatazione.
Negli ultimi anni mi è capitato di fare qualche mostra, di pubblicare un libro e di vendere qualche foto a riviste teatrali e anche a case editrici per qualche libro. Queste vendite mi hanno fruttato poche decine di euro.
Ho amici fotografi professionisti e so quanto sia difficile per loro guadagnarsi da vivere. Anche per questo nel quadro di un rapporto professionale chiedo che le foto mi siano pagate, pur accettando i prezzi imposti senza discutere.
Ovviamente mi fa piacere vedere una mia foto pubblicata, ma non è certo vedendone una su La nuova Sardegna, come successo recentemente, che il mio ego si gonfia a dismisura.
Mi pare che il problema fondamentale sia che oggi tutti fanno foto, semplicemente perché la tecnica digitale e i prezzi degli apparecchi hanno permesso una “democratizzazione” (anche se la parola non mi piace) tale da rendere l'atto fotografico alla portata di tutti.
È un po' quello che è successo con internet, che permette a tutti di inondare il mondo di scritti e immagini di ogni tipo, compresi i peggiori. Ma così come internet non ha ucciso la letteratura o il giornalismo, non credo che ucciderà la fotografia, né il mercato fotografico.
Le ragioni per dare una foto gratis a un giornale possono essere molteplici e non starò qui a spiegare quali siano state le mie. Qualunque queste siano, credo vadano separate dalla richiesta di gratuità da parte dei giornali. Sono d'accordo che sia scandaloso che i giornali ritengano un diritto il fatto di avere foto gratis. Non sono d'accordo sul fatto che dare una foto gratis sia di per sé indice di incoscienza o di offesa alla categoria dei fotografi.
Lo so, questo discorso può sembrare ambiguo e tirato per i capelli, ma non lo è. Il dilentattismo, in molti campi, è l'anticamera del professionalismo. Lo è nella fotografia, lo è nel teatro, nel cinema, nella pittura, nella danza, nella musica, nella letteratura, perfino nel giornalismo. In tutte questi campi si affiancano due tipologie: quella di chi ha ricevuto una formazione scolastica e quella di chi “si è fatto da sé”. Nei sistemi socialisti dell'Europa del dopoguerra era impossibile fare l'attore, cioè andare in scena davanti a un pubblico, se non si possedeva un regolare diploma, mentre nei paesi democratici moltissimi attori, registi, scenografi e tecnici hanno incominciato da dilettanti. Io sono stato uno dei rari, negli anni 70 e nel mondo tel teatro di figura italiano, ad iniziare la mia attività dopo una formazione teatrale alla scuola del Piccolo Teatro di Milano. Eppure ho incominciato da dilettante, non pagato, e ho tirato avanti per anni solo grazie all'aiuto della famiglia dei miei suoceri di allora.
Durante quegli anni ho lavorato gratis molte volte, sempre pensando che non era normale, ma sapendo che quella era la sola via possibile. Poi un mio spettacolo ha avuto successo e da quel momento ho potuto guadagnarmi da vivere col mio lavoro.
Mai, durante quegli anni, ho avuto l'impressione di essere “un romantico con tendenze suicide”, né di “far guerra ai professionisti per farmi bello”. Quell'impressione non ce l'ho nemmeno oggi con la fotografia.
Aggiungo che se oggi qualcuno (famiglia a parte) mi chiedesse di fotografare un matrimonio o di fornire un qualsiasi tipo di reportage gratis non lo accetterei, proprio perché sono conscio delle ragioni espresse da Tony Sleep. Ma allora il problema non è trattare i dilettanti da ladri o approfittatori, da bambini desiderosi di riconoscimenti o da insulsi approfittatori. Semmai il problema è trovare una vera solidarietà tra i fotografi professionisti che garantisca a tutti di portare avanti un lavoro che merita retribuzione con serietà e dignità.
Il “nemico” non siamo noi dilettanti, è chi effettivamente non riconosce al fotografo professionista la sua professionalità, così come succede nei vari altri campi precitati. Che poi ci siano, marginalmente, persone che assomigliano all'impietoso ritratto che ne fa Tony Sleep, mi spiegate come sarebbe possibile evitarlo? Che si fa? Una legge? E con quali risultati possibili?
Il mondo è quotidianamente inondato d'immagini. L'anno scorso ho ricevuto una mail da un museo parigino che mi chiedeva una foto che avevo pubblicato su un mio precedente blog per pubblicarla su un libro. Ho accettato e sono stato regolarmente pagato. D'altro canto, mentre anni fa chi veniva a fotografare su mia richiesta uno dei miei spettacoli veniva prima pagato per il servizio e poi per ogni stampa che mi forniva nel tempo, oggi lo stesso fotografo non mi fornisce più delle stampe, ma un file digitale con l'autorizzazione a stamparlo e pubblicarlo quando ne ho bisogno senza retribuzioni supplementari (solo con l'impegno da parte mia ad indicarne sempre il nome, cosa che giornali e riviste poi non fanno quasi mai).
Non so se questo sia un bene o un male. So che il mestiere di fotografo è cambiato e che le fonti di guadagno sono cambiate anche loro. La scusa del “non ho soldi” da parte di chi ce li ha è insultante e inaccettabile; l'atteggiamento del “l'importante è che sia pubblicato, anche se gratis” è dannosa per la categoria e perfettamente condannabile; ma, ripeto, dov'è la soluzione?
Con la quantità di scatti che il digitale permette anche un dilettante finisce prima o poi per fare una foto “bella”, o “giusta”, o “interessante”. La stessa cosa non è vera di arti più manuali, come il teatro, la musica o la danza, che richiedono un'elaborazione più lunga e complessa. Questo non fa di ogni dilettante un fotografo, e ancor meno un professionista, ma fa sì che anche un dilettante sia ormai in misura di produrre occasionalmente foto “professionali”. Il nemico, ripeto, non è il dilettante, ma il mercato, ovvero i mercanti pronti a tutto pur di aumentare i loro guadagni. Quindi cerchiamo di non sbagliarci di bersaglio e di sviluppare invece una vera coscienza di amore comune per uno stesso modo d'espressione, nel rispetto delle differenze e della professionalità di chi a quello stadio c'è arrivato dopo anni di lavoro e di sacrifici.

giovedì 18 agosto 2011

Della casta

L'Espresso di questa settimana pubblica la lista dei 2307 ex-deputati ed ex-senatori che percepiscono pensioni mensili tra 1700 e 7000€. Il settimanale pubblica anche le reazioni di alcuni interessati che insistono sul fatto che “non sono questi i problemi del paese”, che "è una cazzata pensare che cancellando il vitalizio si riducano i costi della politica", che questa storia è “una noia”, che “sarebbe più opportuno parlare di altri tagli alla spesa pubblica", ecc. ecc.
Che la riduzione de queste ricchissime pensioni non sia in grado riequilibrare il budget dello Stato è cosa tanto evidente che chi ne parla fa solo la figura nel migliore dei casi dello sciocco e nel peggiore dei casi della persona di malafede. Ma questo non è il problema.
Il problema è che l'enorme deficit statale di un paese come l'Italia (e probabilmente di tutti gli altri paesi in deficit) non è un problema economico-finanziario, ma culturale. Il problema è che la maggior parte dei problemi strutturali dei paesi ricchi è culturale. E mi spiego.
Premettendo che per spiegarmi bene dovrei magari cominciare da un po' prima, ma che fa troppo caldo e che ho troppa voglia di andarmi a fare una siesta, vorrei ricordare la svolta avvenuta sotto Georges Bush padre, ovvero la rinuncia da parte degli Stati a vaste fette del loro potere (e dei loro doveri) a favore del settore privato nel sacrosanto nome di Santa Globalizzazione. Come ci fu venduta quella truffa macroscopica? Con il fallace argomento che liberando il commercio i paesi dittatoriali sarebbero stati ineluttabilmente portati alla democrazia. Quel che è successo è esattamente il contrario, nella misura in cui sono i paesi democratici ad aver lasciato filare via vaste fette di democrazia, manco fosse stata carta igienica usata.
Parallelamente ci veniva spiegato che il consumatore (che stava per soppiantare l'ormai caduco cittadino) avrebbe avuto tutto da guadagnare nel trovare sul mercato prodotti a costo più basso. Altra balla spaziale, visto che poi lo stesso consumatore ha incominciato a trovarsi con sempre meno soldi in tasca mentre aumentavano vistosamente le fortune degli azionisti.
Sempre parallelamente è venuta a costituirsi un'Unione Europea che ha, sì, un parlamento, ma che di fatto impone regole elaborate da commissioni e commissari che non sono stati eletti da nessuno.
Gli Stati si sono trovati estremamente indeboliti, privi di controllo sui mercati ormai liberi. Avendo abolito ogni forma di protezionismo senza rimpiazzarla con una qualsiasi regolamentazione tesa a proteggere i più deboli, gli Stati hanno semplicemente perso il controllo del gioco. “Vedrete che il mercato si autoregola da solo”, ci avevano detto. E abbiamo visto. Abbiamo visto esattamente il contrario.
Dietro questi cambiamenti economici e politici però ce n'è stato un altro, molto più importante, di tipo culturale, che ha smantellato quei valori plurisecolari legati al dovere, all'onore, alla solidarietà, al senso di responsabilità e alla dignità che, bene o male, continuavano malgrado tutto ad essere vivi anche presso una parte dell'imprenditoriato capitalista. Al loro posto ormai imperano nuovi valori che hanno a che fare col trionfo del più forte e del più furbo, del più avventuroso e del più bello, del più spregiudicato e del più cinico.
Probabilmente sorpresi essi stessi dalla vastità di questa mutazione culturale così rapida, i politici hanno cambiato linguaggio. Mentre prima per ottenere i nostri voti ci parlavano, più o meno in malafede, è vero, delle nostre vite quotidiane, ormai non ci parlano più che di mercati, di statistiche, di quelle che chiamano macroeconomia e macropolitica e che nemmeno loro sembrano sapere cosa siano.
Parallelamente (visto che anche qui c'è un parallelamente) questi stessi politici, invece di mettere un freno al motore impazzito al quale loro stessi avevano fatto il pieno di benzina, si sono messi a correre ai ripari pro domo incrociando sempre più i loro interessi con quelli dell'ormai plenipotenziario settore privato.
Rileggere oggi l'ultimo discorso del presidente Eisenhower (che metteva in guardia contro il complesso militaro-industriale), ripensare a De Gaulle che ci teneva a pagare di tasca sua i pasti dei parenti e degli amici personali che invitava a cena al palazzo dell'Eliseo, ricordare la frase di Churchill quando disse “adesso che non sono più Primo Ministro potrò finalmente accettare l'invito del mio amico Onassis ad andare sul suo yacht”, ci dà l'impressione di un mondo che davvero non c'è più.
Allora, per tornare all'inizio di questo post, è certamente vero che le pensioni dei parlamentari, i prezzi scandalosamente bassi dei loro ristoranti e l'insieme dei loro privilegi non rovinano finanziariamente l'Italia, ma la rovinano culturalmente. La rovinano perché un popolo che si trova rappresentato da una casta così impotente di fronte ai diktat del mercato, così squallida nella sua mancanza di decenza e di onore, così arrogante nella sua vile rinuncia alla dignità, così cieca e sorda davanti al malessere di cittadini che rifiutano di farsi trattare da consumatori, così colpevole e stupidamente irresponsabile, così biecamente cinica davanti a un mondo che va a rotoli, non può che perdere fiducia nel suo avvenire perdendo una parte della sua umanità.
La rinuncia a gran parte dei privilegi da parte dei nostri politici non è un'opzione, è un'urgenza. Solo attraverso gesti simbolicamente importanti questi usurpatori del titolo di “onorevole” possono sperare di riacquistare poco a poco quel minimo di credibilità indispensabile a permettere al popolo di riacquistare a sua volta un minimo di autostima e di fiducia.
Non ne possiamo più di sentire parlare di mercati, di borse, di azioni e di produttività. Chi, se non i politici, sono i colpevoli dei deliri dei mercati, dell'altalena delle borse, della dittatura delle azioni e della scarsa produttività? Cosa può spingere un Paese a cambiare se non una visione, un sogno, una speranza di un avvenire migliore? Ostinarsi a lanciare manovre, manovrine, manovrette e manovrone non serve a niente se dietro non c'è nulla in cui credere, o se l'unica cosa alla quale siamo autorizzati a credere è che per essere felici dobbiamo diventare azionisti della multinazionale Pinco o del Mutual Fund Pallino.

Questo post è già troppo lungo e quindi la smetto qui. Oltre tutto ho la netta impressione che altri potrebbero dire le stesse cose molto meglio di me. È solo che, o sono diventato sordo, o le sento dire troppo poco.

venerdì 12 agosto 2011

Error 99

Melencolia, di Dürer (dettaglio)

Che la legge di Murphy, secondo la quale “se qualcosa può andar male, lo farà”, sia alla base del funzionamento del cosmo lo sappiamo tutti, eppure continuiamo a lasciarci sorprendere e a strapparci i capelli (se ce li abbiamo) ogniqualvolta ne abbiamo una dimostrazione.
Ieri sera è successo a me. Sono a Berchidda, per il festival Time in Jazz, diretto da Paolo Fresu, e me ne vado in giro con attorno al collo un cartellino con su scritto STAFF. Grazie a Fresu infatti sono uno dei fotografi “ufficiali”. La mia voglia non era tanto di fotografare i concerti (anche se...), ma di fare qualcosa sul contesto di questo bellissimo quanto improbabile festival al tempo stesso colto e contadino, immerso com'è in luoghi tanto lontani da ogni tendenza festivaliera.
Ieri sera dunque stavo fotografando il concerto del gruppo Gaia Cuatro, al quale partecipava anche Fresu come guest star. Scatto la ventesima o trentesima foto e mi sembra che qualcosa non vada. Un rumorino strano, l'immagine che appare per un secondo nel mirino dopo lo scatto che sembra a metà nera. Riguardo nel mirino per lo scatto successivo: nero totale. Spengo, riaccendo, tutto ok. Nuovo scatto, nuovo rumorino e nuovo nero. Macchina morta. Angoscia, rabbia. Cerco di scattare nuovamente, niente. Mi appare una scritta: Error 99. Miodddio, Error 99! Ma cosa mai vorrà dire Error 99? Catastrofe? Armageddon? Buco nero? Fine del mondo in una gigantesca palla di fuoco?
Filo in albergo, guardo il manuale della macchina, cerco la pagina codice di errore. C'è l'errore 01, c'è lo 02, c'è le 04 e c'è poi il famoso Error 99. Leggo: Si è verificato un errore diverso da quelli sopra riportati. Ma questo lo so, c...zzo! Ditemi qualcosa di intelligente! Rassicuratemi! Datemi almeno una spalla per piangere!
Vado avanti: Ciò può verificarsi se si utilizza un obiettivo non Canon e la fotocamera o l'obiettivo non funzionano correttamente. No, no, nooo! Cosa vuol dire che ciò può verificarsi se la fotocamera o l'obiettivo non funzionano correttamente? Che se tutto funziona normalmente non si verifica nessun errore e nemmeno il terribile 99? Ma chi l'ha scritto questo manuale, Brunetta?
Calma, Massimo, calma. Guardiamo le cose in faccia, anche se quella faccia è brutta quanto un morphing di Berlusconi e Alfano.
La dura realtà è che, ahimé, la macchina che ti eri comprato dissanguandoti, la macchina che ti portavi in giro dentro una borsa protettrice ulteriormente da te imbottita con gommapiume varie, manco la tua Canon fosse un rarissimo vaso dell'epoca Ming, è rotta, kaputt, morta.
Quando riesco a togliere l'obiettivo, che sembrava bloccato da non so cosa, trovo un campo di rovine che mi fa pensare ai prati di Bosworth dopo la sconfitta di Riccardo III, alle sabbie de El Alamein dopo il ritiro delle forze italo-tedesche, alle acque del Mar Rosso durante la traversata del Faraone, alla pianura di Maratona dopo la disfatta di Dario. Lo specchietto è tutto di traverso, come una vecchietta piegata dall'artite; un pezzo di plastica sembra vagare nel nulla come un astronauta uscito per una passeggiata spaziale; e, nel silenzio della notte Berchiddese, mi giunge il ghigno lontano del signor Murphy che si prende gioco della mia disperazione come lo faceva Satana mentre Don Giovanni precipitava in inferno.
Trovare il sonno è stata cosa dura.
Adesso sono qui, l'indomani mattina, mesto e cupo come Adamo dopo la cacciata, aspettando che un amico mi porti da Sassari un apparecchio di soccorso e cercando invano di dare un senso alla vita.
Mi sa che vado a farmi un altro caffé.

martedì 9 agosto 2011

Un bel libro



Sto leggendo un bel libro: Nove vite, di William Dalrymple. L'autore è uno scozzese che da anni vive in India. Wikipedia le definisce come uno “scrittore pluripremiato, animatore televisivo, critico, storico dell'arte, corrispondente estero, e fondatore e codirettore del più importante festival letterario dell'Asia”. Più semplicemente, Dalrymple è generalmente considerato uno scrittore-viaggiatore, categoria un po' vaga nella quale si mettono un po' a casaccio autori come Paul Theroux, Tiziano Terzani, Henry de Monfreid e Bruce Chatwin, ma magari anche Dumas, Goethe, o Mark Twain.
È in una di quelle piccole librerie di Janpath, a Delhi, tra l'Hotel Imperial e Connaught Place, che avevo trovato un suo primo libro, City of djins, tradotto in italiano come Delhi: un anno tra i misteri dell'India. Più che dal titolo ero stato attirato dal nome dell'autore, omonimo di quello di un mio vecchio amico americano morto in un incidente d'auto negli anni 70. Il libro si rivelò essere gradevole e interessante, anche se non si trattava certo di grande letteratura. Raccontava però tutta una serie di aneddoti sulla capitale indiana e mi permise di scoprire posti poco frequentati dai turisti, come il grande forte di Tuglaqabad, a sud della città, con la tomba di Muhammad Bin-Tuglaq, il sovrano di cui parla Ibn Battuta, “il Marco Polo musulmano” che, nella prima metà del '300 viaggiò molto di più del mercante veneziano. Grazie a quel libro ero anche andato, una domenica mattina, ad assistere a un torneo di lotta in un prato vicino al Forte Rosso e avevo finito col trovarmi, unico occidentale, invitato in tribuna d'onore a sorseggiare té in compagnia di ricchi aficionados incuriositi dalla mia presenza.
Sedici anni dopo, questo nuovo libro, appena uscito da Adelphi, è decisamente meglio scritto, più denso e più pregnante, e dovrebbe anche interessare chi non ha, come me, una vera passione per l'India. Come indicato dal titolo, si tratta semplicemente di nove vite, nove persone incontrate dall'autore in varie parti dell'India, ognuna delle quali racconta la sua storia. C'è il monaco tibetano che ha dovuto lasciare il suo paese al momento dell'invasione cinese e che si è fatto prima resistente, poi soldato; c'è la guardia carceraria del Kerala che per due mesi all'anno si trasforma in danzatore di theyyam ed è venerato come un dio; c'è la monaca jaina che si prepara alla morte; c'è la prostituta sacra. Personaggi esotici, che appartengono contemporaneamente al presente e a un passato remoto e che proprio in questo costituiscono degli esempi di quell'India che continua ad essere una specie di millefeuilles nel quale coesistono, stratificati, un presente in evoluzione frenetica e un passato che sembra eterno.
È raro trovare libri sull'India che non cedano a una visione turistica e superficiale, oppure che non siano, come L'odore dell'India di Pasolini, dei resoconti di viaggio di qualcuno che sembra non avere capito niente di quel che ha visto. Il più bello di tutti è forse Shantaram, di Gregory David Roberts, un Neo-Zelandese che offre di Mumbai una visione un po' terrificante, ma che affascina per la concretezza dei fatti e della lingua. Un romanzone che si legge come un libro di avventure. 
E giacché sto parlando di libri sull'India, non posso non citare A fine balance (Un perfetto equilibrio) di Rohinton Mistry, autore di Mumbai, uno dei libri più terribili e belli che abbia mai letto sugli anni di Indira Ghandi (mai citata per nome, ma chiaramente riconoscibile).
E poi, visto che siamo d'estate e che d'estate pare che la gente legga un po' più del solito, c' è il mio preferito tra tutti gli autori indiani, Amitav Ghosh, di cui mi piacerebbe avere il potere di ordinarvi di leggere The glass palace (Il palazzo degli specchi), The hungry tide (Il paese delle maree) e Sea of poppies (Il mare di papaveri), primo volume di una trilogia di cui è appena uscito in inglese il secondo volume, River of smoke.
Se poi preferite i classici, non scordate A passage to India (Passaggio in India) di E. M. Forster e Heat and dust (Calore e polvere) di Ruth Prawer Jhabvala, che sono una buona introduzione al sottocontinente indiano per chi lo conosce poco e lo vuole scoprire attraverso occhi occidentali.
Buona lettura!