...e
poi ci sono concerti come quello di Steve Coleman, ieri sera, al
Teatro delle rocce di Gavorrano, dove la musica è così
intransigente da finire col sembrare completamente chiusa su se
stessa e tu, spettatore, ti senti quasi un intruso, uno che è lì ma
che se non ci fosse sarebbe lo stesso, sul palco succederebbero le
stesse cose. E te ne vieni via perplesso, chiedendoti il perché di
quegli applausi insistenti e dicendoti che vabbè, il bello del jazz
è anche quello, c'è posto per tutti e va davvero bene così. E
guidi a notte alta per un'ora e mezza lungo piccole provinciali
grossetane e senesi più sinuose del corpo di Betty Boop, con l'eterno timore
di trovarti improvvisamente davanti un cinghiale sbucato dal nulla,
come ti è già successo un paio di volte la settimana scorsa
obbligandoti a sterzare all'ultimo secondo smadonnando come un
portuale livornese. D'accordo, non erano scrofe, erano chinghialini
bimbi, ma la madre non doveva essere lontana e una scrofa presa in
pieno anche solo a settanta all'ora, lo sai, non sarebbe cosa buona,
farebbe magari la gioia del tuo carrozziere, è più che probabile,
ma certamente non quella della tua piccola utilitaria coreana, né
tantomento la tua. E allora guidi aggrappato al volante con gli occhi
sbarrati e ti senti anche un po' ridicolo, ma per fortuna stanotte in
mezzo alla carreggiata finisci col vedere solo una civetta (che il
mattino dopo ti chiedi ancora cosa ci facesse lì, immobile come una
statua della Madonna di quelle che cambiano colore a seconda del tempo che fa), un gattino di pochi mesi, un gatto adulto, una volpe e
qualche chilometro più in là altre due volpi scodinzolanti. E
arrivi a casa dopo l'una e mezza, apri il frigo, ti pappi il resto
d'insalata (insalata verde, pomodoro, cetriolo, rapanelli, olive
verdi e nere, uovo sodo, mozzarella e semola) e poi ti infili sotto
le lenzuola tutto contento che la temperatura sia scesa abbastanza da
darti voglia di infilarti sotto le lenzuola invece di sudarcici sopra
e riprendi il libro di Davide Enia che è proprio bello e ti parla
degli sbarchi a Lampedusa come solo uno che a Lampedusa ci è andato
più volte e ha visto coi suoi occhi cosa vuol dire vedere poveri
cristi che arrivano dal mare dopo viaggi di mesi fatti di stenti e di
violenze, di botte, di galera, di stupri, di orrori indicibili, uno
che ha visto coi suoi occhi bambine di dodici tredici anni incinte,
usate come cose da mercanti e soldati e poliziotti e miliziani, uno
che è stato lì a distribuire merendine e tazze di tè ripetendo
all'infinito welcome, bienvenue, stringendo i denti per impedire a
quel groppone in gola di diventare cascata di lacrime, che non
sarebbe cosa da uomo siciliano, da òmo vero, ma nemmeno cosa da uomo
qualsiasi, perché in quei casi devi, devi!, tenere buono, perché il
dolore vero non è il tuo, ma il loro, solo uno così può raccontarti quelle cose e tu ti dici che la lettura di
quel libro dovrebbe essere obbligatoria per tutti i ministri
cialtroni e per tutti quelli che li hanno votati e leggi, leggi e la
cosa strana e bella è che ti rendi conto che quel libro non è uno
strappalacrime, lo leggi quasi come un romanzo e ti accorgi che anche
il padre di Davide ti appassiona e lo zio col suo cancro e Paola e
Melo e il sommozzatore grande come una montagna venuto dal nord e il
medico e il becchino e quando finisci per spegnere la luce perché
sei davvere stanco, perché ormai le due sono passate da un pezzo, ti
rendi conto di sentirti allo stesso tempo vuoto come dopo uno sforzo
intenso e pieno come dopo esserti pappato un paio di cannoli freschi
freschi, di quelli con le fettine di arancia candita alle due
estremità che sanno di Sicilia come un piatto di pizzoccheri sa di
Valtellina. E il mattino dopo vieni svegliato prima delle sette da
lampi e tuoni che più ne ha più ne metta e che riescono appena per
qualche istante a coprire il rumore della pioggia che viene giù a
raganella manco fossimo a Calcutta durante il monsone e ti dici che
ci siamo, è la fine dell'estate, e ti alzi e ti metti a scivere al
computer senza nemmeno esserti preparato il tuo mezzo litro di tè
nero, quello che finché non ce l'hai in corpo resti ancora addormentato anche se le
dita si muovono, clic, clic, clic, sui tasti neri come se vivessero
di vita propria. E il concerto di Steve Coleman è già dimenticato,
non avvenuto, e intanto a forza di scrivere ha smesso di piovere e
riapri la porta finestra che dà sul balcone e ti godi quel profumo
di pioggia che resta nell'aria e ti dici che solo due mesi fa non ne
potevi più della pioggia che aveva finito col diventare così
deprimente che il sole te lo sognavi di notte, ma non puoi impedirti
di pensare a quanti sono quelli che in questo momento stanno
attraversando il mare, quante sono quelle che in questo istante
vengono stuprate, quanti quelli che stanno annegando e quanti quelli
che si stanno coprendo la testa con le braccia arricciandosi a terra
per proteggersi dalle bastonate e dai calci, quanti quelli che stanno
sognando di partire ma non sanno come fare e ti tornano in mente
mille immagini d'Africa, dei momenti che hai vissuto nella polvere di
Ouagadougou, Addis Abeba, Niamey, Conakry, Asmara e tutte le altre
città, tutte così diverse l'una dall'altra e tutte così piene di
donne, bambini, uomini, òmini veri, schiacciati da quella miseria
che anni e anni e anni di sfruttamento e colonizzazione e
postcolonizzazione e oggi ignoranza profonda come una caverna
infinita hanno fermato nel tempo, come una maledizione divina, anche
se divina non è mai stata. E ti dici che l'unica cosa che puoi
davvero fare per combattere quell'ottusità animale e già che ci sei
anche tutto quello che la vita ti ha portato via è cercare di vivere
in maniera degna, come hai sempre cercato di fare anche se in maniera
sgangherata, incominciando magari per andarti a preparare quel mezzo
litro di tè nero che diventa davvero urgente, ché quello almeno non
te lo porterà via nessuno.