martedì 14 agosto 2018

Il mattino dopo



...e poi ci sono concerti come quello di Steve Coleman, ieri sera, al Teatro delle rocce di Gavorrano, dove la musica è così intransigente da finire col sembrare completamente chiusa su se stessa e tu, spettatore, ti senti quasi un intruso, uno che è lì ma che se non ci fosse sarebbe lo stesso, sul palco succederebbero le stesse cose. E te ne vieni via perplesso, chiedendoti il perché di quegli applausi insistenti e dicendoti che vabbè, il bello del jazz è anche quello, c'è posto per tutti e va davvero bene così. E guidi a notte alta per un'ora e mezza lungo piccole provinciali grossetane e senesi più sinuose del corpo di Betty Boop, con l'eterno timore di trovarti improvvisamente davanti un cinghiale sbucato dal nulla, come ti è già successo un paio di volte la settimana scorsa obbligandoti a sterzare all'ultimo secondo smadonnando come un portuale livornese. D'accordo, non erano scrofe, erano chinghialini bimbi, ma la madre non doveva essere lontana e una scrofa presa in pieno anche solo a settanta all'ora, lo sai, non sarebbe cosa buona, farebbe magari la gioia del tuo carrozziere, è più che probabile, ma certamente non quella della tua piccola utilitaria coreana, né tantomento la tua. E allora guidi aggrappato al volante con gli occhi sbarrati e ti senti anche un po' ridicolo, ma per fortuna stanotte in mezzo alla carreggiata finisci col vedere solo una civetta (che il mattino dopo ti chiedi ancora cosa ci facesse lì, immobile come una statua della Madonna di quelle che cambiano colore a seconda del tempo che fa), un gattino di pochi mesi, un gatto adulto, una volpe e qualche chilometro più in là altre due volpi scodinzolanti. E arrivi a casa dopo l'una e mezza, apri il frigo, ti pappi il resto d'insalata (insalata verde, pomodoro, cetriolo, rapanelli, olive verdi e nere, uovo sodo, mozzarella e semola) e poi ti infili sotto le lenzuola tutto contento che la temperatura sia scesa abbastanza da darti voglia di infilarti sotto le lenzuola invece di sudarcici sopra e riprendi il libro di Davide Enia che è proprio bello e ti parla degli sbarchi a Lampedusa come solo uno che a Lampedusa ci è andato più volte e ha visto coi suoi occhi cosa vuol dire vedere poveri cristi che arrivano dal mare dopo viaggi di mesi fatti di stenti e di violenze, di botte, di galera, di stupri, di orrori indicibili, uno che ha visto coi suoi occhi bambine di dodici tredici anni incinte, usate come cose da mercanti e soldati e poliziotti e miliziani, uno che è stato lì a distribuire merendine e tazze di tè ripetendo all'infinito welcome, bienvenue, stringendo i denti per impedire a quel groppone in gola di diventare cascata di lacrime, che non sarebbe cosa da uomo siciliano, da òmo vero, ma nemmeno cosa da uomo qualsiasi, perché in quei casi devi, devi!, tenere buono, perché il dolore vero non è il tuo, ma il loro, solo uno così può raccontarti quelle cose e tu ti dici che la lettura di quel libro dovrebbe essere obbligatoria per tutti i ministri cialtroni e per tutti quelli che li hanno votati e leggi, leggi e la cosa strana e bella è che ti rendi conto che quel libro non è uno strappalacrime, lo leggi quasi come un romanzo e ti accorgi che anche il padre di Davide ti appassiona e lo zio col suo cancro e Paola e Melo e il sommozzatore grande come una montagna venuto dal nord e il medico e il becchino e quando finisci per spegnere la luce perché sei davvere stanco, perché ormai le due sono passate da un pezzo, ti rendi conto di sentirti allo stesso tempo vuoto come dopo uno sforzo intenso e pieno come dopo esserti pappato un paio di cannoli freschi freschi, di quelli con le fettine di arancia candita alle due estremità che sanno di Sicilia come un piatto di pizzoccheri sa di Valtellina. E il mattino dopo vieni svegliato prima delle sette da lampi e tuoni che più ne ha più ne metta e che riescono appena per qualche istante a coprire il rumore della pioggia che viene giù a raganella manco fossimo a Calcutta durante il monsone e ti dici che ci siamo, è la fine dell'estate, e ti alzi e ti metti a scivere al computer senza nemmeno esserti preparato il tuo mezzo litro di tè nero, quello che finché non ce l'hai in corpo resti ancora addormentato anche se le dita si muovono, clic, clic, clic, sui tasti neri come se vivessero di vita propria. E il concerto di Steve Coleman è già dimenticato, non avvenuto, e intanto a forza di scrivere ha smesso di piovere e riapri la porta finestra che dà sul balcone e ti godi quel profumo di pioggia che resta nell'aria e ti dici che solo due mesi fa non ne potevi più della pioggia che aveva finito col diventare così deprimente che il sole te lo sognavi di notte, ma non puoi impedirti di pensare a quanti sono quelli che in questo momento stanno attraversando il mare, quante sono quelle che in questo istante vengono stuprate, quanti quelli che stanno annegando e quanti quelli che si stanno coprendo la testa con le braccia arricciandosi a terra per proteggersi dalle bastonate e dai calci, quanti quelli che stanno sognando di partire ma non sanno come fare e ti tornano in mente mille immagini d'Africa, dei momenti che hai vissuto nella polvere di Ouagadougou, Addis Abeba, Niamey, Conakry, Asmara e tutte le altre città, tutte così diverse l'una dall'altra e tutte così piene di donne, bambini, uomini, òmini veri, schiacciati da quella miseria che anni e anni e anni di sfruttamento e colonizzazione e postcolonizzazione e oggi ignoranza profonda come una caverna infinita hanno fermato nel tempo, come una maledizione divina, anche se divina non è mai stata. E ti dici che l'unica cosa che puoi davvero fare per combattere quell'ottusità animale e già che ci sei anche tutto quello che la vita ti ha portato via è cercare di vivere in maniera degna, come hai sempre cercato di fare anche se in maniera sgangherata, incominciando magari per andarti a preparare quel mezzo litro di tè nero che diventa davvero urgente, ché quello almeno non te lo porterà via nessuno.