Ieri
ero in Francia e prima di ripartire sono andato, come sempre, a
comprarmi del tè. Compro il mio tè in Francia perché il tè è una
cosa seria e se noi, dalla parte giusta delle Alpi, non abbiamo
lezioni da prendere in materia di caffè, dobbiamo ammettere il
nostro semi-alfabetismo per quanto riguarda il tè. La Francia
invece, pur non perdendo mai un'occasione per parlare della fiera
Albione, cioè la Gran Bretagna,
ha sempre avuto nei confronti degli insulari d'oltre Manica una
strana invidia (mista a rabbia, dopo Trafalgar e Waterloo), che l'ha spinta, tra
l'altro, ad interessarsi alla bevanda che i soggetti di non so quale
Sua Maestà impararono ad apprezzare durante le loro piraterie
estremorientali.
E
se mi permettessi una digressione? Me la permetto, anzi me la sono
appena permessa chiedendomi chi mai fosse questa Albione e
cliccandone il nome su Google. Ho così scoperto che Albione non era
una lei, ma un lui, un gigante figlio di Poseidone, nonché fratello
di Bergione. I due fratelli possedevano delle terre che furono
attraversate da Eracle con la mandria che aveva rubato a un altro
gigante, Erione, uno con tre teste e tre busti, ma due sole gambe.
Senonché il nome Albione riferito alla Gran Bretagna essendo di
origine celtica, la mia digressione è del tutto futile, il che è
perfetto per una digressione.
Tornando
al tè, io ci sono arrivato tardi, oltre la trentina, un po' per
caso, per via di una fidanzata che non beveva caffè e che era
infastidita anche dal suo aroma. È lì che ho incominciato a bere tè
a colazione.
È
raro che beva tè dopo colazione. D'inverno è molto raro. D'estate
lo è meno, visto che mi piace prepararmi litri di tè che aromatizzo
con cannella, cardamomo, zenzero e chiodi di garofano, lasciandolo
poi raffreddare in frigorifero. Al momento di bere poi aggiungo
un'onesta dose di latte crudo, bello denso, che ne arrotonda il
sapore.
Ricordo
che quando mi sono messo al tè mattutino ho cercato un po' qua e là
prima di capire quali tè preferivo. Ovviamente ho lasciato subito
perdere quella dozzinale e insulsa bevanda che si ottiene inserendo
in una tazza di acqua bollente un sacchettino di carta contenente
chissà quale polveroso miscuglio di foglie di dubbia provenienza.
Bere quella roba e chiamarla tè è come mangiare una pizza
surgelata e chiamarla pizza. Puah!
Il
primo piacere del tè è il suo aspetto. Più o meno chiaro, più o
meno verde, o rosso, o nero, o marrone, con le foglie più o meno
tritate, con o senza fiori, c'è tutta una gamma visiva nei té, con
differenze enormi. Il secondo piacere naturalmente è il profumo che
si sente immergendo il naso in uno di quei grossi recipienti
metallici da tre chili che il negoziante ti porge con un
giustificatissimo senso di ritualità.
Per
finirla con il cosiddetto tè in bustine, ricordo un film intitolato
Sherlock Holmes in New York,
nel quale, prima di arrivare negli Stati Uniti, l'ineffabile Watson,
interpretato dal meraviglioso Patrick McNee, chiedeva a Holmes,
ovvero Roger Moore, con un sorrisetto che la diceva lunga: “Is
it true that they drink their tea in bags?”
E furono infatti due americane, residenti a Wilwaukee, nel Wisconsin,
Roberta C. Lawson e Mary Molaren, a depositare una domanda di
brevetto della bustina da tè il 26 agosto del 1901, domanda che finì
con l'essere ufficialmente approvata solo due anni dopo, il 24 marzo
1903. Come potevo resistere al piacere di pubblicare l'immagine del
documento n° 723.287 con il disegno originale del brevetto?
Detto
questo, lasciamo perdere i sacchetti e torniamo al tè.
Non
mi dilungherò sulla sua storia, accessibile a chiunque su svariati
siti, e verrò subito al sodo. Ho provato tè verdi, tè rossi, tè
bianchi, tè gialli, tè affumicati, tè di almeno una dozzina di
paesi asiatici e africani e da tempo non ho più dubbi: i miei tè
preferiti sono i Darjeeling, tè neri, onesti, aromatici, avvolgenti.
Qualche
informazione di base: il distretto di Darjeeling, che ha per capitale
la città eponima, costituisce la punta nord-occidentale dello Stato
del Bengala Occidentale, con capitale Kolkata, che confina con il
Buthan, il Nepal, il Bangladesh e con quattro altri Stati indiani,
Assam, Sikkim, Bihar, Odisha e Jharkhand (che, me ne accorgo solo adesso, sono cinque e non quattro; ma non importa). Grande più o meno come la
Serbia o la Giordania, il West Bengal ha quasi 92 milioni di abitanti e si trova
ovviamente sui pendii himalayani.
È
su quei pendii che si trovano le 78 proprietà, note come “giardini”,
che, pur se su una superficie totale relativamente limitata,
producono altrettanti tè, diversi l'uno dall'altro come possono
esserlo tra i vini un Brunello da un Valpolicella, o un Barolo da un
Sangiovese. Ora, siccome la produzione dei 78 “giardini” si
aggira intorno alle 10.000 tonnellate annuali, mentre ogni anno nel
mondo vengono vendute circa 40.000 tonnellate di “Darjeeling”, il
primo passo dell'amante di Darjeeling senza virgolette sarà di
rifiutare con un gesto deciso e un'espressione disgustata non solo
ogni tipo e genere di tè in sacchetti, il che è ovvio, ma anche ogni tipo e genere
di cosiddetto “Darjeeling” generico e non meglio identificato.
Compreresti mai una bottiglia di vino con su scritto “vino
italiano”? È la stessa cosa.
Nel
Darjeeling il té fu importato da un medico inglese, Arthur (o
Archibald, non si sa) Campbell, che piantò alcuni semi di tè cinese
a più di 2.000 metri di altitudine. La cosa funzionò e si sviluppò.
In un tempo relativamente breve — dopotutto parliamo di poco
più di un secolo e mezzo — da quelle piantine di origine
si svilupparono varie piantagioni che, a causa delle differenze di
altitudine, esposizione al sole e terreno, hanno finito col dare tè
dai sapori molto diversi. Così, per esempio, il Margaret's
Hope, uno dei giardini più
celebri, produce un tè, che personalmente non amo, dal sapore acre,
mentre il Gielle,
l'Harmutty, o
l'Ambootia sono per me
fonti di grande piacere. Tutti i veri Darjeeling sono raccolti
rigorosamente a mano.
Attenzione:
i negozi di tè che vendono prodotti dei singoli giardini di
Darjeeling sono rari e cari. C'è chi preferisce comprarsi una
maglietta con su scritto Prada; personalmente preferisco il buon té.
Ma,
ahimé, chi dice prodotto raro e caro dice anche ineluttabile
snobismo e non è raro, andando in uno di quei negozi, imbattersi in
venditori ultra-pippologhi che, illudendosi di conoscere gli arcani
di chissà quale scienza esoterica, ti sfiancheranno con consigli,
suggerimenti e opinioni di ogni genere e tipo, accompagnando il tutto
con quei tipici ammiccamenti servili di chi spera di ottenere così
un istante di complicità da un cliente che, se viene lì, deve per
forza essere un membro della buona società. Per carità, non dargli
corda! Sorridi come se niente fosse, anche se cerca di convincerti a
non fare bollire l'acqua, a portarla solo a 90° e ti viene voglia di
gridargli “Bestia! Non ti sei accorto che sto comprando dei
Darjeeling? Non sai che i Darjeeling sono tè neri e che per i tè
neri l'acqua va portata a ebollizione e che è per i tè verdi che
non la si deve far bollire?” Sorridi, sorridi come una vecchia
signora liftata, sorridi come qualcuno che non può far altro che
sorridere, sorridi come una velina siliconata se necessario, ma non
cercare mai di discutere con un venditore di tè che dice fesserie
grosse come locomotive: una tale discussione potrebbe rapidamente
risvegliare nel tuo profondo degli irrefrenabili istinti omicidi. E
non sarebbe bello da parte tua fracassare il cranio di un venditore
di tè a colpi di teiera di ghisa. Soddisfacente, sì; ma bello, no.
Una
parola sui tè aromatici. Nella loro stragrande maggioranza sono
bevande da zie ottantenni con i capelli rosa (e quando dico zie
intendo zie di ambo i sessi), le guance coperte di cipria e i vestiti
a fiori. Ma ammetto volentieri che ci sono delle eccezioni. Prima fra
tutte è quella del tè al bergamotto, il famoso Earl Grey,
che, come tutti sappiamo, deve il suo nome a Charles Grey, che era
appunto earl, cioè
conte, e che, succedendo a Arthue Wellesley, 1° Duca di Wellington,
fu Primo Ministro del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda dal 22
novembre 1830 al 16 luglio 1834, quando lasciò il posto a William
Lamb, 2° Visconte Melbourne.
Attenzione
però: ci sono Earl Grey
a base di ogni genere di tè. Inutile precisare che io prediligo
quelli a base di Darjeeling.
Il
venditore rompiscatole di cui sopra non mancherà probabilmente di
insistere sulla superiorità dei Darjeeling first flush
rispetto ai second flush.
Anche qui: sorridi e ignoralo. E ti spiego il perché.
First
flush può sembrare una strana
espressione parlando di tè, visto che flush
significa sciacquone, oppure rossore, oppure, in una partita di
poker, colore. In realtà quando si parla di tè, flush
significa raccolto. Il first flush
è semplicemente il primo raccolto, quello che va grosso modo da metà
marzo a maggio. È quello che produce la minore quantità di tè,
quindi è il più caro, ecco perché il venditore cercherà di
affibiartelo. In realtà il tè first flush
è, sì, più profumato e leggero, però molti gli preferiscono la
profondità e l'intensità del second flush,
raccolto tra giugno e la metà di agosto in più grande quantità e
quindi meno caro.
Esistono
altri tre flush, il
third (ottobre/novembre),
l'in-between (le due o
tre settimane tra i primi due) e il rains/monsoon
(tra il secondo e il terzo, al momento dei monsoni). Questi raccolti
però vengono generalmente usati per tè di qualità inferiore, come
i già citati aromatizzati.
Ho
scritto l'essenziale di questo post tra le sei e le sette del
mattino, tranquillamente seduto sul balcone, con davanti a me una
tazzone di Risheehat firts flush
niente male. Mi sono lasciato per domani mattina la scoperta di un
second flush che non
conosco, il Teesta Valley,
il cui profumo mi ha convinto all'acquisto.
Mo
vado al bar a farmi il mio caffè.
P.S.
Fermi tutti: un'altra digressione.
Hai
notato che nell'ultima frase del post ho scritto “mo” e non “mò”,
o “mo'”? Hai mai avuto lo stesso dubbio? Ah, sei uno che non
scrive mo. Va bene lo stesso.
La
digressione però è questa: ho guardato sul Vocabolario Treccani e
ho scoperto che “mo” nel senso di adesso si scrive
preferibilmente senza accento né apostrofo, mentre mo' ha
l'apostrofo (ma anche l'accento è accettato) in “a mo' di”.
Segnatelo,
che è una di quelle cose da tirare fuori a tavola quando c'è un
momento di silenzio.