mercoledì 5 agosto 2015

Un po' di tè


Ieri ero in Francia e prima di ripartire sono andato, come sempre, a comprarmi del tè. Compro il mio tè in Francia perché il tè è una cosa seria e se noi, dalla parte giusta delle Alpi, non abbiamo lezioni da prendere in materia di caffè, dobbiamo ammettere il nostro semi-alfabetismo per quanto riguarda il tè. La Francia invece, pur non perdendo mai un'occasione per parlare della fiera Albione, cioè la Gran Bretagna, ha sempre avuto nei confronti degli insulari d'oltre Manica una strana invidia (mista a rabbia, dopo Trafalgar e Waterloo), che l'ha spinta, tra l'altro, ad interessarsi alla bevanda che i soggetti di non so quale Sua Maestà impararono ad apprezzare durante le loro piraterie estremorientali.
E se mi permettessi una digressione? Me la permetto, anzi me la sono appena permessa chiedendomi chi mai fosse questa Albione e cliccandone il nome su Google. Ho così scoperto che Albione non era una lei, ma un lui, un gigante figlio di Poseidone, nonché fratello di Bergione. I due fratelli possedevano delle terre che furono attraversate da Eracle con la mandria che aveva rubato a un altro gigante, Erione, uno con tre teste e tre busti, ma due sole gambe. Senonché il nome Albione riferito alla Gran Bretagna essendo di origine celtica, la mia digressione è del tutto futile, il che è perfetto per una digressione.
Tornando al tè, io ci sono arrivato tardi, oltre la trentina, un po' per caso, per via di una fidanzata che non beveva caffè e che era infastidita anche dal suo aroma. È lì che ho incominciato a bere tè a colazione.
È raro che beva tè dopo colazione. D'inverno è molto raro. D'estate lo è meno, visto che mi piace prepararmi litri di tè che aromatizzo con cannella, cardamomo, zenzero e chiodi di garofano, lasciandolo poi raffreddare in frigorifero. Al momento di bere poi aggiungo un'onesta dose di latte crudo, bello denso, che ne arrotonda il sapore.
Ricordo che quando mi sono messo al tè mattutino ho cercato un po' qua e là prima di capire quali tè preferivo. Ovviamente ho lasciato subito perdere quella dozzinale e insulsa bevanda che si ottiene inserendo in una tazza di acqua bollente un sacchettino di carta contenente chissà quale polveroso miscuglio di foglie di dubbia provenienza. Bere quella roba e chiamarla tè è come mangiare una pizza surgelata e chiamarla pizza. Puah!
Il primo piacere del tè è il suo aspetto. Più o meno chiaro, più o meno verde, o rosso, o nero, o marrone, con le foglie più o meno tritate, con o senza fiori, c'è tutta una gamma visiva nei té, con differenze enormi. Il secondo piacere naturalmente è il profumo che si sente immergendo il naso in uno di quei grossi recipienti metallici da tre chili che il negoziante ti porge con un giustificatissimo senso di ritualità.
Per finirla con il cosiddetto tè in bustine, ricordo un film intitolato Sherlock Holmes in New York, nel quale, prima di arrivare negli Stati Uniti, l'ineffabile Watson, interpretato dal meraviglioso Patrick McNee, chiedeva a Holmes, ovvero Roger Moore, con un sorrisetto che la diceva lunga: “Is it true that they drink their tea in bags?” E furono infatti due americane, residenti a Wilwaukee, nel Wisconsin, Roberta C. Lawson e Mary Molaren, a depositare una domanda di brevetto della bustina da tè il 26 agosto del 1901, domanda che finì con l'essere ufficialmente approvata solo due anni dopo, il 24 marzo 1903. Come potevo resistere al piacere di pubblicare l'immagine del documento n° 723.287 con il disegno originale del brevetto?


Detto questo, lasciamo perdere i sacchetti e torniamo al tè.
Non mi dilungherò sulla sua storia, accessibile a chiunque su svariati siti, e verrò subito al sodo. Ho provato tè verdi, tè rossi, tè bianchi, tè gialli, tè affumicati, tè di almeno una dozzina di paesi asiatici e africani e da tempo non ho più dubbi: i miei tè preferiti sono i Darjeeling, tè neri, onesti, aromatici, avvolgenti.
Qualche informazione di base: il distretto di Darjeeling, che ha per capitale la città eponima, costituisce la punta nord-occidentale dello Stato del Bengala Occidentale, con capitale Kolkata, che confina con il Buthan, il Nepal, il Bangladesh e con quattro altri Stati indiani, Assam, Sikkim, Bihar, Odisha e Jharkhand (che, me ne accorgo solo adesso, sono cinque e non quattro; ma non importa). Grande più o meno come la Serbia o la Giordania, il West Bengal ha quasi 92 milioni di abitanti e si trova ovviamente sui pendii himalayani.
È su quei pendii che si trovano le 78 proprietà, note come “giardini”, che, pur se su una superficie totale relativamente limitata, producono altrettanti tè, diversi l'uno dall'altro come possono esserlo tra i vini un Brunello da un Valpolicella, o un Barolo da un Sangiovese. Ora, siccome la produzione dei 78 “giardini” si aggira intorno alle 10.000 tonnellate annuali, mentre ogni anno nel mondo vengono vendute circa 40.000 tonnellate di “Darjeeling”, il primo passo dell'amante di Darjeeling senza virgolette sarà di rifiutare con un gesto deciso e un'espressione disgustata non solo ogni tipo e genere di tè in sacchetti, il che è ovvio, ma anche ogni tipo e genere di cosiddetto “Darjeeling” generico e non meglio identificato. Compreresti mai una bottiglia di vino con su scritto “vino italiano”? È la stessa cosa.
Nel Darjeeling il té fu importato da un medico inglese, Arthur (o Archibald, non si sa) Campbell, che piantò alcuni semi di tè cinese a più di 2.000 metri di altitudine. La cosa funzionò e si sviluppò. In un tempo relativamente breve — dopotutto parliamo di poco più di un secolo e mezzo — da quelle piantine di origine si svilupparono varie piantagioni che, a causa delle differenze di altitudine, esposizione al sole e terreno, hanno finito col dare tè dai sapori molto diversi. Così, per esempio, il Margaret's Hope, uno dei giardini più celebri, produce un tè, che personalmente non amo, dal sapore acre, mentre il Gielle, l'Harmutty, o l'Ambootia sono per me fonti di grande piacere. Tutti i veri Darjeeling sono raccolti rigorosamente a mano.
Attenzione: i negozi di tè che vendono prodotti dei singoli giardini di Darjeeling sono rari e cari. C'è chi preferisce comprarsi una maglietta con su scritto Prada; personalmente preferisco il buon té.
Ma, ahimé, chi dice prodotto raro e caro dice anche ineluttabile snobismo e non è raro, andando in uno di quei negozi, imbattersi in venditori ultra-pippologhi che, illudendosi di conoscere gli arcani di chissà quale scienza esoterica, ti sfiancheranno con consigli, suggerimenti e opinioni di ogni genere e tipo, accompagnando il tutto con quei tipici ammiccamenti servili di chi spera di ottenere così un istante di complicità da un cliente che, se viene lì, deve per forza essere un membro della buona società. Per carità, non dargli corda! Sorridi come se niente fosse, anche se cerca di convincerti a non fare bollire l'acqua, a portarla solo a 90° e ti viene voglia di gridargli “Bestia! Non ti sei accorto che sto comprando dei Darjeeling? Non sai che i Darjeeling sono tè neri e che per i tè neri l'acqua va portata a ebollizione e che è per i tè verdi che non la si deve far bollire?” Sorridi, sorridi come una vecchia signora liftata, sorridi come qualcuno che non può far altro che sorridere, sorridi come una velina siliconata se necessario, ma non cercare mai di discutere con un venditore di tè che dice fesserie grosse come locomotive: una tale discussione potrebbe rapidamente risvegliare nel tuo profondo degli irrefrenabili istinti omicidi. E non sarebbe bello da parte tua fracassare il cranio di un venditore di tè a colpi di teiera di ghisa. Soddisfacente, sì; ma bello, no.
Una parola sui tè aromatici. Nella loro stragrande maggioranza sono bevande da zie ottantenni con i capelli rosa (e quando dico zie intendo zie di ambo i sessi), le guance coperte di cipria e i vestiti a fiori. Ma ammetto volentieri che ci sono delle eccezioni. Prima fra tutte è quella del tè al bergamotto, il famoso Earl Grey, che, come tutti sappiamo, deve il suo nome a Charles Grey, che era appunto earl, cioè conte, e che, succedendo a Arthue Wellesley, 1° Duca di Wellington, fu Primo Ministro del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda dal 22 novembre 1830 al 16 luglio 1834, quando lasciò il posto a William Lamb, 2° Visconte Melbourne.
Attenzione però: ci sono Earl Grey a base di ogni genere di tè. Inutile precisare che io prediligo quelli a base di Darjeeling.
Il venditore rompiscatole di cui sopra non mancherà probabilmente di insistere sulla superiorità dei Darjeeling first flush rispetto ai second flush. Anche qui: sorridi e ignoralo. E ti spiego il perché.
First flush può sembrare una strana espressione parlando di tè, visto che flush significa sciacquone, oppure rossore, oppure, in una partita di poker, colore. In realtà quando si parla di tè, flush significa raccolto. Il first flush è semplicemente il primo raccolto, quello che va grosso modo da metà marzo a maggio. È quello che produce la minore quantità di tè, quindi è il più caro, ecco perché il venditore cercherà di affibiartelo. In realtà il tè first flush è, sì, più profumato e leggero, però molti gli preferiscono la profondità e l'intensità del second flush, raccolto tra giugno e la metà di agosto in più grande quantità e quindi meno caro.
Esistono altri tre flush, il third (ottobre/novembre), l'in-between (le due o tre settimane tra i primi due) e il rains/monsoon (tra il secondo e il terzo, al momento dei monsoni). Questi raccolti però vengono generalmente usati per tè di qualità inferiore, come i già citati aromatizzati.
Ho scritto l'essenziale di questo post tra le sei e le sette del mattino, tranquillamente seduto sul balcone, con davanti a me una tazzone di Risheehat firts flush niente male. Mi sono lasciato per domani mattina la scoperta di un second flush che non conosco, il Teesta Valley, il cui profumo mi ha convinto all'acquisto.
Mo vado al bar a farmi il mio caffè.

P.S. Fermi tutti: un'altra digressione.
Hai notato che nell'ultima frase del post ho scritto “mo” e non “mò”, o “mo'”? Hai mai avuto lo stesso dubbio? Ah, sei uno che non scrive mo. Va bene lo stesso.
La digressione però è questa: ho guardato sul Vocabolario Treccani e ho scoperto che “mo” nel senso di adesso si scrive preferibilmente senza accento né apostrofo, mentre mo' ha l'apostrofo (ma anche l'accento è accettato) in “a mo' di”.
Segnatelo, che è una di quelle cose da tirare fuori a tavola quando c'è un momento di silenzio.