lunedì 29 aprile 2013

Un ministro congolese???

Cécile Kashetu Kyenge, ministro

Tre anni fa scrissi un post a proposito di un articolo della Nuova Sardegna, nel quale si parlava di due “cittadini congolesi, di madre algherese, in possesso anche della cittadinanza italiana”. La frase mi aveva naturalmente fatto fare un salto sulla sedia.
Stamattina mia moglie mi ha fatto notare che sulla prima pagina di Repubblica si parla della “congolese” Cécile Kashetu Kyenge, nuovo ministro dell'integrazione. E ho rifatto un salto sulla sedia.
La Signora Kyenge è effettivamente natìa di Kambove, città del Katanga, nel sud-est della repubblica Democratica (si fa per dire) del Congo. Non so come stiano le cose tra Congo e Italia, non so in particolare se ci sia un trattato che permette la doppia nazionalità. So però che la Signora Kyenge abita a Castelfranco dell'Emilia, in provincia di Modena e che è cittadina italiana. Lo so semplicemente perché se non fosse così non vedo come qualcuno avrebbe potuto farla ministro. Monsieur de Lapalisse, bonjour.
La Signora Kyenge è una cittadina italiana di genitori congolesi. Proprio come in Francia io, che ho la doppia nazionalità italo-francese, sono un cittadino francese di genitori italiani. Perché allora chiamarla congolese? Probabilmente per fretta, perché sarebbe stato più lungo scrivere “di genitori congolesi”, o “italo-congolese”, o “congolo-italiana”. Ma, si sa (o si dovrebbe sapere), le parole sono importanti, tanto più quando sono scritte sulla prima pagina del principale quotidiano del Paese. E le parole sono ancora più importanti quando ci si dà la briga di considerarle non come oggetti isolati, ma nel loro contesto.
Vedere scritto “la congolese Cécile Kyenge” mi irrita quanto vedere “settantenne derubata da un rumeno”, o “tre napoletani arrestati per furto”. Non vedo perché la pseudo informazione riguardante l'origine di una persona dovrebbe essere più rilevante del fatto, che so?, che avesse i baffi o che portasse dei pantaloni blu.
Sono vecchie abitudini queste, vecchi riflessi condizionati, dei quali è sempre più urgente sbarazzarsi. Sono piccole dimostrazioni di piccolo razzismo quotidiano. Sono quelle gocce che, se non vengono asciugate subito, finiscono col creare un fiume in piena.
Due cose mi vengono in mente: una citazione della giornalista francese Françoise Giroud, che quando fu nominata segretario di Stato alla condizione femminile disse che ci sarà davvero uguaglianza tra uomini e donne quando delle donne incapaci saranno nominate ministro; una frase di Morgan Freeman che disse che il miglior modo di combattere il razzismo è smettere di parlarne.
La nomina a ministro di Cécile Kyenge è ovviamente un fatto simbolicamente importante in un'Italia sempre più razzista, e mi pare difficile che qualcuno possa non vedere quel simbolo. Ma, davanti a una nomina politica, mi pare ovvio che la sola cosa che conti veramente sia la competenza della persona scelta e la sua capacità ad assumere la responsabilità di un ministero.
Tre o quattro anni fa Morgan Freeman era intervistato dal giornalista Mike Wallace a proposito del black history month, il mese della storia nera, istituito negli Stati Uniti nel 1976.
MIKE WALLACE: Trova il mese della storia nera...?
MORGAN FREEMAN: Ridicolo.
MW: Perché?
MF: Vuole relegare la mia storia a un mese? Su... cosa fa della sua? Qual'è il mese della storia bianca?
MW: ….
MF: Su....
MW: Io sono ebreo.
MF: Ok. Qual'è il mese della storia ebrea?
MW: Non c'è.
MF: Ah, non c'è. Perché no? Ne vorrebbe uno?
MW: No, no...
MF: Non lo voglio neanch'io. Non voglio un mese della storia nera. La storia nera è la storia americana.
MW: Come sbarazzarci del rassismo allora?
MF: Smettiamola di parlarne. Io la smetto di chiamarla Bianco e le chiedo di smetterla di chiamarmi Nero. La conosco come Mike Wallace, lei mi conosce come Morgan Freeman.
Purtroppo il tempo in cui un "ministro congolese" sarà semplicemente un ministro sembra ancora lontano.
C'è un tempo per ogni cosa. Negli anni '50 e '60, poeti come Léopold Sédhar Sengor, Léon Damas e Aimé Césaire coniarono con orgoglio la parola négritude, a difesa di quella che consideravano una cultura prettamente africana che non aveva nulla da invidiare all'europea. Ma quell'idea non nacque da una volontà di opposizione tra Europa e Africa, ma dalla rivendicazione di un continuum culturale tra i due continenti, che aveva avuto origine dai numerosi faraoni egiziani con la pelle scura. Non a caso l'ex-calciatore Lilian Thuram ha chiamato il suo secondo figlio Képhren in onore del faraone che fece costruire la seconda delle tre grandi piramidi di Giza e che fu uno dei numerosi faraoni di origine nubiana a regnare sul'Egitto. 
Il razzismo non è un'esclusiva europea. Tanto per citare alcuni Paesi nei quali ho avuto occasione di lavorare, posso testimoniare dell'esistenza del razzismo in India, in Mauritania, in Russia, in Etiopia. Il razzismo è probabilmente un male comune a tutti i popoli del mondo, ovvero a chi, in diverse parti e culture del mondo, si lascia sopraffare dall'ignoranza e dalla paura. Il razzismo è subdolo e viscido. Si infila dentro di noi senza che nemmeno ce ne accorgiamo e fa le uova, come un parassita. Ma se abbiamo un cervello è proprio per accorgecene e sbarazzarcene prima di risultarne infettati.

Ho interrotto la scrittura di questo post a favore di un piatto di linguine. Pranzando ho acceso la televisione per avere notizie di quanto successo stamattina di fronte a Palazzo Chigi, dove un uomo ha sparato a due carabinieri. Un uomo? Secondo SkyTv no: un calabrese. Non uno squilibrato: un calabrese.
It's a long way to Tipperary...