Cécile Kashetu Kyenge, ministro
Tre anni fa scrissi un post
a proposito di un articolo della Nuova Sardegna,
nel quale si parlava di due “cittadini congolesi, di
madre algherese, in possesso anche della cittadinanza italiana”.
La frase mi aveva naturalmente fatto fare un salto sulla sedia.
Stamattina
mia moglie mi ha fatto notare che sulla prima pagina di Repubblica
si parla della “congolese”
Cécile Kashetu Kyenge, nuovo ministro dell'integrazione. E ho
rifatto un salto sulla sedia.
La Signora Kyenge è
effettivamente natìa di Kambove, città del Katanga, nel sud-est
della repubblica Democratica (si fa per dire) del Congo. Non so come
stiano le cose tra Congo e Italia, non so in particolare se ci sia un
trattato che permette la doppia nazionalità. So però che la Signora
Kyenge abita a Castelfranco dell'Emilia, in provincia di Modena e che
è cittadina italiana. Lo so semplicemente perché se non fosse così
non vedo come qualcuno avrebbe potuto farla ministro. Monsieur de
Lapalisse, bonjour.
La Signora Kyenge è una cittadina italiana di genitori congolesi. Proprio come in Francia io, che ho la doppia nazionalità italo-francese, sono un cittadino francese di genitori italiani. Perché allora
chiamarla congolese? Probabilmente per fretta, perché sarebbe stato
più lungo scrivere “di genitori congolesi”, o “italo-congolese”,
o “congolo-italiana”. Ma, si sa (o si dovrebbe sapere), le parole
sono importanti, tanto più quando sono scritte sulla prima pagina
del principale quotidiano del Paese. E le parole sono ancora più
importanti quando ci si dà la briga di considerarle non come oggetti
isolati, ma nel loro contesto.
Vedere
scritto “la congolese Cécile Kyenge” mi irrita quanto vedere
“settantenne derubata da un rumeno”, o “tre napoletani
arrestati per furto”. Non vedo perché la pseudo informazione
riguardante l'origine di una persona dovrebbe essere più rilevante
del fatto, che so?, che avesse i baffi o che portasse dei pantaloni
blu.
Sono vecchie
abitudini queste, vecchi riflessi condizionati, dei quali è sempre
più urgente sbarazzarsi. Sono piccole dimostrazioni di piccolo
razzismo quotidiano. Sono quelle gocce che, se non vengono asciugate
subito, finiscono col creare un fiume in piena.
Due cose mi vengono
in mente: una citazione della giornalista francese Françoise Giroud,
che quando fu nominata segretario di Stato alla condizione femminile
disse che ci sarà davvero uguaglianza tra uomini e donne quando
delle donne incapaci saranno nominate ministro; una frase di Morgan
Freeman che disse che il miglior modo di combattere il razzismo è
smettere di parlarne.
La nomina a
ministro di Cécile Kyenge è ovviamente un fatto simbolicamente
importante in un'Italia sempre più razzista, e mi pare difficile che
qualcuno possa non vedere quel simbolo. Ma, davanti a una nomina
politica, mi pare ovvio che la sola cosa che conti veramente sia la
competenza della persona scelta e la sua capacità ad assumere la
responsabilità di un ministero.
Tre o
quattro anni fa Morgan Freeman era intervistato dal giornalista Mike
Wallace a proposito del black history month,
il mese della storia nera, istituito negli Stati Uniti nel 1976.
MIKE
WALLACE: Trova il mese della storia nera...?
MORGAN
FREEMAN: Ridicolo.
MW:
Perché?
MF:
Vuole relegare la mia storia a un mese? Su... cosa fa della
sua? Qual'è il mese della storia bianca?
MW: ….
MF:
Su....
MW: Io
sono ebreo.
MF:
Ok. Qual'è il mese della storia ebrea?
MW:
Non c'è.
MF:
Ah, non c'è. Perché no? Ne vorrebbe uno?
MW:
No, no...
MF:
Non lo voglio neanch'io. Non voglio un mese della storia
nera. La storia nera è la storia americana.
MW:
Come sbarazzarci del rassismo allora?
MF:
Smettiamola di parlarne. Io la smetto di chiamarla Bianco e
le chiedo di smetterla di chiamarmi Nero. La conosco come Mike
Wallace, lei mi conosce come Morgan Freeman.
Purtroppo il tempo
in cui un "ministro congolese" sarà semplicemente un ministro sembra
ancora lontano.
C'è
un tempo per ogni cosa. Negli anni '50 e '60, poeti come Léopold
Sédhar Sengor, Léon Damas e Aimé Césaire coniarono con orgoglio
la parola négritude,
a difesa di quella che consideravano una cultura prettamente africana
che non aveva nulla da invidiare all'europea. Ma quell'idea non
nacque da una volontà di opposizione tra Europa e Africa, ma dalla
rivendicazione di un continuum culturale
tra i due continenti, che aveva avuto origine dai numerosi faraoni
egiziani con la pelle scura. Non a caso l'ex-calciatore Lilian Thuram
ha chiamato il suo secondo figlio Képhren in onore del faraone che
fece costruire la seconda delle tre grandi piramidi di Giza e che fu
uno dei numerosi faraoni di origine nubiana a regnare sul'Egitto.
Il razzismo non è un'esclusiva europea. Tanto per citare alcuni Paesi nei quali ho avuto occasione di lavorare, posso testimoniare dell'esistenza del razzismo in India, in Mauritania, in Russia, in Etiopia. Il razzismo è probabilmente un male comune a tutti i popoli del mondo, ovvero a chi, in diverse parti e culture del mondo, si lascia sopraffare dall'ignoranza e dalla paura. Il razzismo è subdolo e viscido. Si infila dentro di noi senza che nemmeno ce ne accorgiamo e fa le uova, come un parassita. Ma se abbiamo un cervello è proprio per accorgecene e sbarazzarcene prima di risultarne infettati.
Ho interrotto la
scrittura di questo post a favore di un piatto di linguine. Pranzando
ho acceso la televisione per avere notizie di quanto successo
stamattina di fronte a Palazzo Chigi, dove un uomo ha sparato a due
carabinieri. Un uomo? Secondo SkyTv no: un calabrese. Non uno
squilibrato: un calabrese.
It's a long way to Tipperary...