Gustav Klimt - Danae
È andata così:
sfogliavo i siti dei quotidiani su internet e sono arrivato alla
pagina dell'edizione americana dell'Huffington Post. Ho letto un paio
di articoli, poi ho notato la foto di una donna obesa e praticamente
nuda sotto il titolo "PHOTOS: Nudes Like You've Never Seen
Before (NSFW)", nel quale l'acronimo NSFW sta per Not
Suited For Work, ovvero indica,
su internet, un contenuto che potrebbe valere un licenziamento a chi
lo consultasse sul posto di lavoro. Ho cliccato sul titolo, me
ne è apparso un altro: “Yossi Loloi Photographs Obese Women In
The Nude, Challenges Traditional Notions Of Beauty”, ovvero
“Yossi Loloi fotografa donne obese nude, sfida la nozione
tradizionale di bellezza”. Lo so, una cosa così come titolo è un
po' strana, ma visto che lo scopo di questo post non è di spiegare a
chi non ha familiarità con i titoli dei giornali americani che
laggiù i titoli sono diversi dai nostri, rendiamo pure omaggio ad
Amatore Sciesa e tiremm innanz.
Il
breve articolo inizia facendo riferimento a Lucian Freud e Peter Paul
Rubens, il che già mi provoca un netto sollevamento sopraccigliare
(e non solo perché Pieter Rubens è diventato Peter). Passata la
prima frase, c'è la foto di una giovane donna in mutandine che, come
me lo fa capire il seguito dell'articolo, pesa almeno 190 kili. Ma
ecco come prosegue l'articolo:
“Il progetto di
Loloi, intitolato Full Beauty, si basa su fotografie di donne di
almeno 190 chili. Con un profondo rispetto per i suoi soggetti e uno
sguardo di sfida alla cultura pop e alla storia dell'arte, Loloi
mostra quanto la storia del nudo femminile sia limitata. Mentre è
raro vedere donne formose nella pubblicità, nello spettacolo, o
perfino nell'arte contemporanea, le donne obese non vengono
praticamente mai prese in considerazione in questi campi nonostante
l'aumento del numero delle americane sovrappeso.
Facendoci vedere
donne che pesano fino a 270 chili, Loloi offre una dolcezza e una
bellezza a un tipo di corpo spesso ignorato. Sul suo sito web Loloi
scrive: “Credo che abbiamo una 'libertà di gusto' e che non
dovremmo essere riluttanti nell'esprimere l'importanza che le
accordiamo. Limitare questa libertà significa vivere in una
dittatura dell'estetica.”
Trovate le foto di
Loloi scioccanti o confortanti? Segnalateci la vostra opinione.”
Non
so bene come si scriva il suono di una pernacchia, ma se si scrive
prut, allora ho propria voglia di scrivere
pruuuuuuutprutttttttttttpruuuutpruuuttprutttpruuutprut!
Senonché,
toltami la voglia di scrivere questa cosa fondamentale, mi resta
dell'amaro in bocca. Ma vogliamo smetterla, soprattutto nel mondo
dell'arte, di dire che tutto è, o almeno può essere uguale a tutto?
Non è vero! Un'opera di Leonardo da Vinci e una serie di strisce bianche e nere non
sono uguali, anche se le strisce sono firmate Daniel Buren. E una donna di 60, 80 o 100 chili non è uguale a una
di 190 o di 270 chili. Perché? Perché l'obesità è una malattia e
queste donne (ma lo stesso vale ovviamente per gli uomini) hanno
diritto di essere curate. Secondo il dizionario Treccani, l'obesità
è un'”abnorme aumento del peso corporeo, per eccessiva formazione
di adipe nell’organismo”, e questo che si tratti di obesità
complicata, primitiva, secondaria, androide o ginoide.
Le
donne del reportage di Loloi non sono belle, sono ma-la-te e se c'è
qualcosa di bello nei loro sguardi e nelle loro espressioni, qualcosa
di toccante, questo qualcosa c'è malgrado
la patologia ed è comunque questo qualcosa che può essere bello,
non la patologia che, trasformata in spettacolo, diventa oscena. Le donne fotografate da Loloi sono malate almeno
quanto lo sono le anoressiche adolescenti messe altrettanto oscenamente in mostra
da numerosi rotocalchi femminili. Far credere a qualcuno che si
ritrova a vivere dentro uno di quei corpi che il suo corpo è bello è
una cosa immonda. Ripeto: non parlo di persone di 90, né di 120 o
140 chili, parlo di giovani donne sopra i 190, o magari sotto i 35.
Cosa
vuol dire questa mia indignazione? Che penso che obese e anoressiche
dovrebbero nascondersi, o che dovrebbero essere messe in prigione? No
di certo. Ma l'abbietto sfruttamento del male altrui, del dolore
altrui, è sempre e comunque cosa ignobile, e lo diventa ancora di
più quando le si cercano giustificazioni pseudo-intellettuali.
Sul
sito personale del fotografo appare così un articoletto di tale Gian
Paolo Barbieri, fotografo di moda italiano, che non esita a citare
una bellissima poesia di Walt Whitman, Canto il corpo
elettrico:
“capelli, seni,
anche, pieghe dei ginocchi, braccia disinvolte, sono onde diffuse”.
Senonché per arrivare al suo scopo Barbieri non esita a modificare
le parole del poeta che, tradotte correttamente, sono “capelli,
petti, fianchi, curva delle gambe, negligenti mani che cadono in
completo abbandono” (trad. Enzo Giachino). Più in là Whitman
continua: “Come vedo l'anima mia riflessa nella Natura, / come
vedo attraverso una bruma un Essere d'inesprimibile compiutezza,
sanità, bellezza, / vedo il capo ricurvo, le braccia incrociate sul
petto, vedo la Donna”. Ripeto: inesprimile compiutezza, sanità,
bellezza.
Sarà che Whitman è un
poeta che amo profondamente da più di quarant'anni e che quindi mi
irrita particolarmente vederlo usato e abusato in perfetta malafede,
ma tutta questa storia mi puzza di sfruttamento, oltre che di
stupidità. Sfruttamento, una volta ancora, della donna e del suo
corpo, già insopportabilmente usato da pubblicità e cinema;
stupidità di gente che non esita a usare e abusare di argomenti
pseudo-colti per giustificare le proprie trovate a scopo commerciale.
L'oscenità dell'uso di
corpi malati non è diversa da quella dell'uso di corpi afflitti da
altre sofferenze, fame, guerra, dolore, sfruttamento. Certo i
reporter di guerra, per esempio, ben sanno quanto sia sottile la
linea che separa una foto di denuncia da una priva di rispetto per il
soggetto fotografato. Ma quel dilemma, nella trappola del quale
alcuni cadono talvolta, non è autogenerato dal fotografo, è insito
nella situazione fotografata. Ben diversa è la posizione di chi una
situazione se l'inventa, freddamente, cercandosi poi giustificazioni
a posteriori.
Nel lavoro di Loloi non
vedo traccia di una qualsiasi “libertà di gusto”, come pretende
il fotografo, ma piuttosto di una visione malata e totalmente priva
di rispetto e compassione. Le foto di Loloi trasformano le donne
obese in fenomeni da baraccone. Basta pensare allo sguardo
completamente diverso che Diane Arbus aveva verso altri esseri umani,
anche loro spesso afflitti da indicibili sofferenze, per capire
quanto questo lavoro sia intriso di cinismo e di spregiudicato
affarismo. Per questo non ho voluto pubblicare qui anche una sola di
quelle immagini, preferendo un quadro di Klimt.
Detto questo, mi viene
da chiedermi se ho fatto bene ad accordare qualche minuto a un
fotografo che più che l'indignazione merita il silenzio.