venerdì 25 novembre 2011

Nei mari del Sud

Robert Louis Stevenson
 
Fare spettacolo per tre settimane in una stessa città fa un gran bene allo spettacolo, lo fa crescere, gli permette di prendere una sua forma definitiva, ma è anche sinonimo di noia mortale. Checché se ne dica, alzarsi al mattino sapendo che è solo alla sera che si lavorerà, oltre a costituire una situazione privilegiata, è cosa che pone anche il quotidiano problema del “cosa faccio?”. Per carità, cose da fare ce ne sono sempre. In questo momento per esempio sto scrivendo il mio prossimo spettacolo. Però si finisce sempre col leggere molto, il che non è un male.
Sto leggendo Nei mari del Sud, di Stevenson, un bel libro. Stevenson è uno di quei rari autori, come Dumas o Verne, che si possono incontrare in gioventù e che poi ci accompagnano tutta la vita. Lo si incontra spesso prima di tutto con L'isola del tesoro, capolavoro del romanzo d'avventure, poi con La freccia nera; lo si ritrova un po' più tardi con Lo strano caso del Dottor Jeckyll e Mr. Hide e magari con Il signore di Ballantrae
Non avevo mai letto Nei mari del Sud e devo dire che è un gran bel libro, che non a caso è ancora oggi un riferimento obbligato per molti altri scrittori-viaggiatori, almeno quanto i romanzi di Walter Scott (un altro scozzese) lo sono per gli scrittori di romanzi storici.
Stevenson è partito per l'Oceania nel 1989, pochi anni prima che Gauguin se ne andasse a Tahiti. Ha girato da un'isola all'altra, per poi stabilirsi a Upola, nelle Samoa, dove è morto nel 1984.
Nei mari del Sud è un libro intriso di malinconia. Stevenson testimonia della fine di un mondo, di popolazioni decimate da malattie importate dai coloni bianchi, di culture distrutte dal missionariato cristiano. Eppure questa malinconia non è pesante, è come una nebbia leggera dietro la quale il lettore è affascinato dalla curiosità e dall'intelligenza dello scrittore, dalla sua umanità e dalla sua compassione che lo spinge, se non a giustificare, almeno a spiegare perfino il cannibalismo.
Quel che c'è di strano leggendo autori dell'800 è vedere come da un lato la lingua sembri essersi impoverita e dall'altro come ci siano ormai tutta una serie di espressioni e parole che nessuno oserebbe più utilizzare per paura di essere frainteso e di apparire politicamente scorretto. Ieri ho sottolineato un passaggio che traduco qui rapidamente:
Gli abitanti delle Isole Marchesi, bisogna osservare, aderiscono alla vecchia idea secondo la quale credenze e doveri hanno dei limiti locali. Non solo i bianchi sono esenti dalle conseguenze; ma le loro trasgressioni vengono viste senza orrore. (…) Un bianco è un bianco: è un servitore, per così dire, di altri dei, più liberali, e non deve essere biasimato se approfitta di questa sua libertà. Gli ebrei sono stati forse i primi ad interrompere questo vecchio riguardo tra le fedi; e il virus ebreo è tuttora forte nel cristianesimo. Tutti devono rispettare i nostri tabù, altrimenti ci mettiamo a digriganare i denti.
Ovviamente non vedo bene chi oserebbe oggi scrivere le parole virus ebreo, e per fortuna! Ma Stevenson non dà qui necessiaramente prova di un qualsiasi antisemitismo, come invece lo fa Scott in Ivanhoe (che resta comunque un grandissimo romanzo). No, qui Stevenson parla di qualcos'altro, e l'espressione vecchio riguardo tra le fedi mi è molto piaciuta e mi sembra estremamente attuale. Se oggi (e da molto tempo ormai) quel principio è sparito sotto valanghe di intransigenza e di fanatismo, credo lo si debba molto all'idea monoteista che, dopo aver fatto la sua apparizione nella Bibbia, si è sviluppata col cristianesimo prima, con l'Islam poi. Quando gli invasori islamici sono arrivati in India, per esempio, gli indiani non li hanno immediatamente detestati a causa della loro diversa religione: semplicemente si sono detti “noi di dei ne abbiamo a migliaia, loro ne hanno un altro, che problema c'è?”. Se gli invasori sono stati detestati, lo sono stati per la loro politica, per le tasse eccessive, per la sistematica distruzione dei templi, le cui pietre venivano poi usate per costruire delle moschee. Ma l'idea che un politeista* possa detestare un monoteista semplicemente perché quest'ultimo adora un suo Dio è assurda.
Ma Stevenson va più in là, spiegandoci che nei mari del Sud non solo le popolazioni locali non vedevano nulla di male nel fatto che i bianchi avessero un loro Dio, ma che non si offuscavano nemmeno della violazione di tabù per loro ancestrali da parte di quegli stessi bianchi. Spingere così in là il proprio riguardo per lo straniero mi sembra una cosa meravigliosa, una prova di intelligenza, di compassione (nel senso buddista del termine) e soprattutto di civiltà, impensabile nelle nostre società giudeo-islamo-cristiane.
Mi viene allora da chiedermi perché idee tanto belle e generose siano totalmente assenti dal nostro insegnamento e dalla nostra cultura e come mai così pochi siano quelli che riescono ad abbracciarle con semplicità e serenità. L'idea di rispetto dell'altro, del diverso, implica ormai, anche nelle persone più aperte, una corrispondente esigenza che l'altro rispetti non solo la nostra cultura, ma anche i nostri divieti e le nostre abitudini sociali.
Il problema è enorme, perché poi, con tutta la buona volontà del mondo, appare anche a me impossibile accettare cose come la superiorità delle leggi “divine” sulle leggi dello Stato, la mutilazione delle bambine attraverso l'ablazione del clitoride, o altri orrori del genere. Come fare allora? Come fare a coesistere, coabitare, condividere con popoli e genti mossi da logiche che anche il cristianesimo ha seguito per secoli attraverso oceani di sangue e di dolore, ma che oggi, almeno ufficialmente, l'Occidente ha superato?
Leggere Stevenson oggi ha almeno il vantaggio di spingerci a farci questa domanda, che non ha probabilmente una risposta unica e inequivocabile, ma senza la quale rischiamo di affondare sempre di più nell'orrore. 

*È sempre bene notare che in realtà l'induismo NON è una religione politeista e che tutti gli dei indiani altro non sono che aspetti di quel Brahman che altro non è che il principio divino che pervade ogni essere e ogni cosa. In questo senso l'induismo non è né politeista, né monoteista, poiché il Brahman pervadendo ogni cosa, non ha nessun bisogno di essere adorato. Quindi, nonostante si parli di decine, se non centinaia di migliaia di divinità indiane, si può dire che l'induismo è una religione senza Dio, almeno nel senso che noi occidentali diamo a
questo concetto. 

domenica 20 novembre 2011

Mah...




Che l'Arabia Saudita non sia esattamente la patria della libertà e dei diritti civili lo sapevamo da un pezzo. Che le donne di Ryiad, della Medina e di Gedda non avessero il diritto di guidare la macchina, ma nemmeno la bicicletta, sapevamo pure questo. Così come sapevamo che quelle stesse donne non hanno diritto di voto (dal 2015 avranno diritto di votare alle elezioni locali, come gli immigrati residenti in molti paesi d'Europa), non possono lavorare nel settore petrolifero, non possono far parte delle amministrazioni, non possono viaggiare, lavorare, andare dal dottore, né tantomeno subire un intervento chirurgico senza l'autorizzazione del marito, non possono sposarsi senza l'autorizzazione del padre, non possono ovviamente uscire di casa se non coperte da una palandrana nera e a capo coperto, non parliamo nemmeno di bere un Campari, ecc. ecc.
Naturalmente l'applicazione di tutti questi divieti è di responsabilità della polizia religiosa, agli ordini della Commissione per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio, istituzione della quale il brianzolo comune di Arcore si vanta giustamente di non disporre.
Nei giorni scorsi però un membro di questa polizia ha raggiunto una vetta di stupidità che nessuna bigotteria religiosa al mondo può minimamente spiegare. Nella città di Ha'il, 270.000 abitanti, una coppia passeggiava; erano marito e moglie e quindi ne avevano il diritto. La cosa va sottolineata perché nella stessa città una donna di nome Khamisa Mohammad Sawadi, 75enne di nazionalità siriana, era stata condannata nel 2009 a quaranta frustate, sei mesi di prigione e la deportazione alla fine della pena, per essere uscita in compagnia di due uomini (condannati anche loro) che non facevano parte della sua famiglia. Questa donna no: lei passeggiava col marito, anche perché sapeva benissimo che non aveva il diritto di passeggiare da sola. Si avvicino un poliziotto e le ordina di coprirsi immediatamente gli occhi perché il suo "sguardo sensuale" l'ha messo in tentazione. Visualizziamo la scena: c'è un uomo che passeggia con di fianco un sacco nero semovente che ha un'apertura di una dozzina di centimetri per tre, attraverso la quale si vedono due occhi. Passa un poliziotto, vede i due occhi e immediatamente un inconfondibile gonfiore viene a manifestarsi nelle sue parti basse. Orrore! Orrore! Come può lui, promotore della virtù e preventore del vizio (ammesso che la parola preventore esista, ma non importa), subire quell'immonda turgidità se non per colpa di una qualche puttana che pur cercando inutilmente di nascondere la sua natura peccaminosa sotto qualche metro quadro di stoffa nera non può evitare di smascherare se stessa attraverso uno sguardo lascivo e concupiscente? Per farla breve, l'intervento del poliziotto non è piaciuto al marito, è scoppiata una rissa, sono venuti fuori i coltelli, e il marito è finito in ospedale.
È intervenuto allora, via stampa, l'illustre Sceicco Mutleg An-Nabit, portavoce ufficiale della Commissione per la prevenzione ecc., che ha dichiarato che il poliziotto aveva tutti i diritti di domandare alla donna di coprirsi gli occhi. Sì, proprio così. 
Tanto per capirci, è bene ricordare che quella stessa polizia si distinse una decina d'anni fa alla Mecca vietando a un gruppo di studentesse di uscire da una scuola in fiamme perché non erano vestite correttamente. Risultato: 15 ragazze morte tra le fiamme.
Ovviamente tutto questo va largamente al di là di ogni stupidità. Anzi, non si tratta più di stupidità, ma di puro fanatismo religioso, peraltro non dissimile da quello che per secoli ha fatto negare alla chiesa cattolica la possibilità che persone dalla pelle di colore diverso da quella degli europei avessero un'anima e che ha fatto bruciare sul rogo migliaia di streghe e di infedeli di ogni origine. Ma in fondo non si tratta nemmeno di fanatismo religioso, visto che sfido chiunque a trovare una sola sua in tutto il Corano che ordini alle donne di andarsene in giro mascherate da sacchetto della spazzatura, così come sfido chiunque a trovare un verso della Bibbia che dica che bisogna bruciare vivo chi è posseduto dal demonio. Se di fede si tratta, è solo di malafede. Il che, mi diranno i più atei dei miei lettori, è un pleonasma. Ma lasciamo perdere.
Di cosa si tratta allora? Da dove può venir fuori tanto odio, da quale arroganza, da quale paura? Scrivo a ruota libera e non so nemmeno io dove andare, mi mancano le parole. Com'è possibile che cose così esistano? Com'è possibile che al di là di qualche articoletto qua e là nessuno si ribelli veramente, nessuno monti una vera campagna internazionale che isoli una volta per tutte l'Arabia Saudita, petrolio o non petrolio?
Certe volte il mondo mi è davvero incomprensibile.

domenica 13 novembre 2011

È finita



Me ne sto qui, in questo cortiletto marsigliese, sotto una palma, davanti allo schermo del computer, a guardare e riguardare le scene della fine di Berlusconi.
Me ne sto qui a dirmi che adesso i guai continueranno, che la Scilipotitalia non cambierà dall'oggi all'indomani, che il futuro è lungi dall'essere roseo, ma per il momento godo come un grillo.
Me ne sto qui a leggere che forse il prossimo ministro dei beni culturali, o della cultura, che dir si voglia, potrebbe essere Settis e l'idea che si possa passare in così breve tempo da Bondi a Settis (via Galan) mi commuove.
Me ne sto qui a riguardare su YouTube le immagini delle monetine lanciate a Craxi nel '93 e quelle di ieri sera davanti a palazzo Grazioli e spero, fortissimamente spero che ci sia 2 senza bisogno di un 3.
Me ne sto qui un po' inebetito a rimpiangere di non essere a casa, non poter andare al mio caffé e pagare da bere a tutti.
Me ne sto qui a ripetermi che non è proprio il caso di far festa, che Monti è comunque un tecnocrate e che qualsiasi cosa possa tirar fuori dal cappello, quel cappello sarà pur sempre quello di un presidente della Bocconi, eppure non posso non ripetermi che chiunque è meglio di Berlusconi.
Me ne sto qui a domandarmi quanti anni ci vorranno, adesso che Berlusconi è un cadavere che cammina, prima che il berlusconismo finisca anche lui al dimenticatoio.
Me ne sto qui a ripensare a quello che ha detto ieri su una radio francese un filosofo, che un tempo si facevano sacrifici umani, mentre ora che il denaro è un dio non si scarificano più uomini, ma popoli interi.
Me ne sto qui seduto su questa sedia di plastica a chiedermi se ci sia davvero una pur lontana possibilità che Monti voglia e riesca a ridurre i privilegi della casta e a ridare un minimo di dignità alla politica e quindi a tutti noi.
Me ne sto qui a guardare per aria e a sorridere beato all'idea che adesso il legittimo impedimento non sarà più una scusa per evitargli di andare in tribunale.
Me ne sto qui a sperare che l'onda sia lunga e impetuosa, che l'entusiasmo di ieri sera non sparisca rapidamente nel grigiore ritrovato degli egoismi più biechi e lotto per non lasciarmi sopraffare dal pessimismo della ragione.
Me ne sto qui sotto il sole di novembre e mi sento un po' meno umiliato, un po' meno denigrato, un po' meno offeso, e questo per oggi mi basta.

venerdì 11 novembre 2011

Addio sogni di gloria


Nei momenti difficili è sempre bene fermarsi un momento per andare a cercare sollievo, conforto e stimolo nei grandi testi classici. C'è chi preferisce i filosofi, chi i romanzieri, chi i poeti. Non so chi Lui preferisca (sì, Lui, il nostro ex-Amato Leader) né so se troverà conforto in questo testo di altissimissimo tenore poetico e morale. Ma io lo inviterei comunque a leggerlo e magari pure a pensarci su un momentino.
Ah, dimenticavo: l'autore, che non so bene se definire aedo, filosofo, o poeta; l'autore che tanto ha saputo elevarsi al di sopra dell'animo umano da darci parole di tanta saggezza; l'autore il cui nome è ancora presente nei nostri cuori, ma il cui volto meriterebbe di essere scolpito sul Gran Sasso d'Italia come quelli di Washington, Jefferson, Roosevelt e Lincoln lo sono sul Monte Rushmore; l'autore, che con inumana preveggenza ha saputo descrivere tanti anni fa la nostra condizione attuale; insomma, l'autore è Claudio Villa.

Quando ragazzi felici andavamo alla scuola
con la cartella a tracolla ed in tasca la mela
(meraviglioso questo incipit tutto teso a ricordarci l'umile nascita dell'ex-Amato Leader, accomunandolo oltre tutto, grazie alla mela, ad altri portatori di sogni come i quattro ragazzi di Liverpool e, perché no?, l'esteta di Cupertino)

per il futuro avevamo un vestito di gala
quante speranze di gloria di celebrità

(splendido rammento del fatto che fin da bambino Egli nutriva nobili ambizioni)

ma inesorabile il tempo tracciava il cammino
e a testa china anneghiamo nel nostro destino.
(straziante, inatteso e impetuoso cambiamento di ritmo che subito ci fa pensare a trapianti capillari, macchie di cerone sul fazzoletto bianco e casse di Viagra)
Addio sogni di gloria
addio castelli in aria.
(con lucida eleganza, l'autore contrappone qui, senza nominarle, le ville in Sardegna, ad Antigua e chissà dove altro, ai castelli, destinati a rimanere “in aria”)
Guardo con sordo rancore la mia scrivania
cerco a scacciare ma invano la monotonia
(“sordo rancore”. Meraviglioso. Quanto a “cerco a scacciare”, come non vedere un tenero omaggio a quel parlare semplice, senza fronzoli e prettamente popolano nella sua superficiale scorrettezza grammaticale che Egli sapeva usare con tanta maestria?)
Addio anni di gioventù
perché perché non ritornate più
(non è qui chiaro se l'addio sia da Egli dato agli anni della sua gioventù, oppure, in maniera ancora più disperata, a quella delle giovinette che, con generosa premura, faceva accomodare nel lettone di Putin e che ora si guarderanno bene dal ritornarci)
Sono una foglia d'autunno che nella tormenta
teme il grigiore dei giorni l'inverno paventa
(quella “foglia d'autunno” di ungarettiana memoria è uno dei momenti più alti della poetica claudiovillana. Ma ancora più importante è quel “sono”, che sta ad indicare come Egli abbia ormai coscienza, mentre se ne sta lì a temere “il grigiore dei giorni” senza veline e a paventare quell'inverno di cui un altro poeta parlò come dell'inverno “del nostro malcontento”, abbia ormai coscienza, dicevo, di non valere più di una foglia secca, cosa che peraltro molti di noi sapevano da tempo)

La donna sincera aspettai
compagna dei giorni miei
(ecco, ammettiamo pure una piccola debolezza in questo peraltro indimenticabile poema: non mi pare che Egli sia rimasto lì ad aspettare “la donna sincera”. Ad aspettarla, tutt'al più, c'era Tarantini, che poi però gliela portava sempre e comunque all'ora prevista)

ma invano cercai cercai
amore anche tu dove sei
(attenzione, perché qui c'è una trappola. Qual'è la parola importante? Invano? Cercai? Amore? No! La parola importante è “anche”. Rileggiamo il testo: ma invano cercai cercai / amore anche tu dove sei. È proprio la costruzione approssimativa della frase che ci fa capire come “anche” sia la parola fondamentale. È in quello smarrimento linguistico e lessicale che troviamo lo sgomento del vecchio con parrucchino, cerone e Viagra, che, già infilato sotto le lenzuola con un paio di meretrici pugliesi, cede a un attimo di legittimo dubbio. Attenzione: “anche” qui non è congiunzione: è sostantivo femminile plurale! Ciò che il poeta ci lascia indovinare con sottile eleganza è “dove sei ormai tu, amore (delle) anche”? Il sottinteso è naturalmente che ormai, vecchio decrepito com'è, umiliato davanti al mondo, perfino l'amore delle anche  non sa più dove sia. Avrebbe potuto, il poeta, parlarci di tette siliconate, di labbroni al botox, di culi imbottiti, e invece no: anche. Luminosa eleganza!)
Addio sogni di gloria
addio castelli in aria
(vedi sopra)
Prendo la penna e continuo la doppia partita
faccio una macchia d'inchiostro mi treman le dita
(e certo. Per un caduco istante è stata proprio questa la sua speranza: prendere la penna per firmare la lettera di dimissioni e poi continuare invece quella “doppia partita” che gli avrebbe permesso, nelle Sue ormai perdute speranze, di tirare avanti come se niente fosse. Ma, ahimé, il tempo è scaduto: dalla penna tenuta da dita tremanti ecco fuoruscire ormai solo una beffarda macchia d'inchiostro)

. . . . . .
Meglio tacer le memorie o vecchio cuor mio
sogni di gloria addio
(e ti credo: dovesse davvero raccontare quel che si ricorda, chi glielo eviterebbe il carcere?)

sabato 5 novembre 2011

No comment

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(Ultima ora. Titolo di un articolo sul sito di Repubblica: Milano, via alla congestion card)