Arundhati Roy
Stamattina
ho letto un'intervista ad Arundhati Roy, l'autrice del "Dio
delle piccole cose." È appena uscito il suo secondo romanzo,
"Il ministero della suprema felicità."
Ricordi.
Gennaio
2002. Sono a Delhi. Quattro mesi prima ho deciso di fare uno
spettacolo sul Mahabharata. L'ho deciso d'impulso, sulla base del
ricordo della versione di Peter Brook, che avevo visto 16 anni fa, e
di tre viaggi in India. Ero in una libreria, ad Avignone. Su uno
scaffale ho visto un Mahabharata (la versione molto condensata e
abbastanza brutta di Jean-Claude Carrière) e ho deciso.
In
realtà non ho mai deciso di fare nessuno spettacolo. Ho sempre
aspettato ed è sempre arrivato un momento nel quale il desiderio di
fare un determinato spettacolo si è presentato come un'evidenza.
Chiamala ispirazione, se vuoi. A me quella parola sembra un po'
grossa.
Seconda
decisione: cercare qualcuno che mi darà una mano a farmi strada in
quelle diecimila pagine di testo. Arundhati Roy. Ne parlo ad alcuni
amici. Uno mi dice che la figlia di un suo conoscente ha sposato un
cineasta indiano. Mi trova la sua email. Scrivo. Un paio di settimane
dopo ricevo l'email e il numero di telefono di Arundhati Roy. Le
scrivo. Nessuna risposta. la chiamo, mi risponde una segretaria.
Nessun seguito. Parto per l'India.
Mia
figlia Nora vive a Delhi, vicino al Chor Minar, la torre dei ladri,
dove nel '400 venivano esposte le teste dei ladri decapitati. Da lì
in meno di mezz'ora a piedi si arriva a uno dei miei posti preferiti
della città, il quartierino di Haus Khas, che non è ancora il posto
chic e alla moda che diventerà più tardi.
Chiamo
più volte Arundhati Roy. Mi risponde la segretaria, oppure il
marito. Quello è un momento complicato per lei, è sotto processo
per avere detto che la Corte Suprema indiana ha mostrato una
"inquietante inclinazione" verso l'insabbiamento di ogni
critica e di ogni dissenso. Rischia grosso. Il processo si svolge
proprio in quei giorni. Impossibile vederla. Con rammarico, ci metto
una pietra sopra. Leggo sul giornale che è stata condannata a un
giorno simbolico di prigione e a 2500 rupie di multa.
Un
pomeriggio, con mia figlia, andiamo a prenderci un caffè a Defence
Colony. Entriamo in un Barista, caffè che fa parte di una catena che
sarà più tardi comprata dalla Lavazza. Benché ami il tè indiano,
ogni tanto un caffè ci vuole. Ci sediamo a un tavolino. Passa un
quarto d'ora ed entra una coppia. Una donna molto bella, sui 40 anni,
accompagnata da un uomo più giovane. Si siedono un po' più in là.
Guardo la donna, trovo che assomigli in modo stupefacente ad
Arundhati Roy. Lo faccio notare a Nora, che si gira e trova anche lei
la somiglianza stupefacente. Capiamo che non è una somiglianza, è
proprio lei, lei che ho cercato invano di contattare per settimane.
Mi
alzo, vado al suo tavolo, le spiego che vorrei parlarle, le chiedo un
appuntamento. Mi dice di tornare lì l'indomani, alla stessa ora.
La
notte non riesco a dormire. Quante probabilità c'erano di incontrare
proprio lei in una città di 13 milioni di abitanti (oggi più di
16)? Possibile che sia davvero un segno del destino?
L'indomani,
con Nora, arriviamo in anticipo. Dopo un po' lei arriva. Prende un
cappuccino. Le spiego il mio progetto, le spiego perché vorrei
lavorare con lei, le dico che so che non è induista (sua madre è
una cristiana siriaca del Kerala), ma non voglio fare uno spettacolo
sull'induismo, ma sull'India. È stupita. A capo del governo in quel
momento c'è Atal Bihari Vajpayee, un conservatore, membro del BJP,
il Bharatyia Janata Party, Partito del Popolo Indiano, che usa e
abusa del Mahabharata per la sua propaganda induista, a scapito delle
minoranze musulmana, buddista, jain e tutte le altre. Diffondere
ancora di più il Mahabharata in quel momento le sembra un
controsenso, un favore fatto agli ultranazionalisti del governo.
In
realtà mi accorgo che le interessa molto più parlare con Nora che
con me, capire perché una ragazza occidentale se n'è venuta a
vivere con un indiano del Punjab, sapere come lui la tratta, come lei
si sente. E comunque mi dice che anche se volesse non avrebbe tempo,
che deve assolutamente finire il suo secondo romanzo.
Dietro
il suo sguardo dolce e la sua bellezza folgorante sento una
determinazione d'acciaio. Il mio sogno svanisce.
Più
tardi succederanno altre cose, altri incontri, lo spettacolo lo farò
lo stesso, nell'estate del 2003, con delle bellissime marionette
fabbricate da Enrico Baj, che purtroppo morirà un mese prima della
prima rappresentazione. Lo porterò in giro in Italia, in Francia, in
altri paesi d'Europa, in Africa e persino in India.
Certo,
resta il rammarico di non avere potuto lavorare con lei. Ma resta
soprattutto il ricordo di un incontro intenso, raro e profondo. Il
ricordo di una donna che in qualche strano modo mi ha comunque
accompagnato durante tutte le prove e tutte le rappresentazioni. E di
questo le sono estremamente riconoscente.
Adesso
che il secondo romanzo l'ha finalmente scritto me lo leggerò con
piacere e sono sicuro che leggendolo avrò l'impressione di risentire
la sua voce.