venerdì 11 luglio 2014

S.O.S. zucchero filato


Senza nessuna ragione logica mi è tornato in mente lo zucchero filato di Bellaria. E mi spiego.
Tra i 9 e i 17 anni ho passato tutte le mie vacanze, con genitori e sorelle, a Bellaria, che a quei tempi era un posto molto popolare (nel senso che ci andava il popolo, perché costava poco). Il primo anno non c'era nemmeno la spiaggia, solo delle palafitte di legno sul mare. Poi hanno messo una sfilza di scogliere artificiali e la spiaggia si è formata poco a poco, avanzando ogni anno.
La sera, dopo cena, si andava a spasso in famiglia, finendo inevitabilmente in piazza. Non tanto la piazza dove c'era la gelateria Nuovo Fiore, con tanto di caffè concerto pomeridiano e relativa possibilità per chiunque di cantare facendosi accompagnare dall'Anonima Sound di Ivan Graziani (cosa che ho spesso fatto) e caffè concerto serale dove si esibiva il quindicenne Gianni Morandi, non quella, l'altra, dove c'era la bancarella dello zucchero filato.
Senonché qui comincia il problema. Leggendo 'zucchero filato', immagino ti venga immediatamente in mente quel batuffolo di fili di zucchero appesi a mò di nuvoletta attorno a un bastoncino di legno, che per me è sempre stata una schifezza. Ma il fatto è che lo zucchero filato di Bellaria era tutt'altra cosa, che vado a spiegarti.
L'omino della bancarella aveva un pentolone nel quale scaldava, mescolandolo con cura, un intruglio che diventava sempre più spesso, fino ad assumere la consistenza di una specie di pasta molto densa e pesante. Giunto a quel punto, l'omino la estraeva, l'attaccava a un grosso gancio che gli stava davanti, all'altezza dei gomiti, e incominciava a tirarla, poi a riattaccarla, poi a tirarla di nuovo. Quel procedimento raffreddava l'impasto, mantenendolo però perfettamente omogeneo. Ad un certo punto, quando erano state raggiunte la consistenza e la temperatura volute, l'omino inseriva il tutto nella parte superiore di una macchina, una specie di pressa con un buco nella parte inferiore, e da quel buco faceva uscire un filamento a forma di churro, che tagliava con grosse forbici in segmenti di una ventina di centimetri. Ne faceva di rosa, alla fragola, di verdi, alla menta, di bianchi, alla vaniglia, di marroncini, al caffè. Il bello era comprare il pezzo di zucchero filato quando era appena stato fatto, perché questo garantiva, almeno per i primi morsi, una consistenza particolarmente goduriosa, croccante e fredda all'esterno, ma ancora molle e calda all'interno.
Su internet ho trovato dei 'bastoncini di zucchero', che però mi sembrano un'altra cosa. Poi ho cercato la parola francese guimauve, utilizzata soprattutto come traduzione dell'inglese marshmallow (altra schifezza), ma che mi pareva volesse dire anche qualcosa d'altro, forse in Belgio, e ho finito col trovare questa foto:

Per carità, siamo ancora lontani dallo zucchero filato di Bellaria: i colori sono troppo vivi, troppo finti. Però ci avviciniamo. Almeno c'è il gancio...
Io per quello zucchero filato ci andavo matto e ammetto che anche a 15, 16 anni, quando la preoccupazione principale delle mie serate estive era di andare a ballare allo Sporting Club, allo Chez Vous o alla Fattoria con la ragazza giusta, non ce la facevo proprio a passare davanti alla bancarella senza spendere le 50 lire che mi permettevano di godere di quella inimitabile leccornia.
Ora, so benissimo che le probabilità di poter riassaggiare qualcosa di simile sono inferiori a quelle di sentire una frase intelligente da Daniela Santanchè, ma chissà mai che un improbabile lettore abbia più informazioni a proposito, se non addirittura — spes ultima dea — una ricetta. Sarebbe una bellissima cosa.