Senza
nessuna ragione logica mi è tornato in mente lo zucchero filato di
Bellaria. E mi spiego.
Tra i 9
e i 17 anni ho passato tutte le mie vacanze, con genitori e sorelle,
a Bellaria, che a quei tempi era un posto molto popolare (nel senso
che ci andava il popolo, perché costava poco). Il primo anno non
c'era nemmeno la spiaggia, solo delle palafitte di legno sul mare.
Poi hanno messo una sfilza di scogliere artificiali e la spiaggia si
è formata poco a poco, avanzando ogni anno.
La
sera, dopo cena, si andava a spasso in famiglia, finendo
inevitabilmente in piazza. Non tanto la piazza dove c'era la
gelateria Nuovo Fiore, con tanto di caffè concerto pomeridiano e
relativa possibilità per chiunque di cantare facendosi accompagnare
dall'Anonima Sound di Ivan
Graziani (cosa che ho spesso fatto) e caffè concerto serale dove si
esibiva il quindicenne Gianni Morandi, non quella, l'altra,
dove c'era la bancarella dello zucchero filato.
Senonché
qui comincia il problema. Leggendo 'zucchero filato', immagino ti
venga immediatamente in mente quel batuffolo di fili di zucchero
appesi a mò di nuvoletta attorno a un bastoncino di legno, che per
me è sempre stata una schifezza. Ma il fatto è che lo zucchero
filato di Bellaria era tutt'altra cosa, che vado a spiegarti.
L'omino
della bancarella aveva un pentolone nel quale scaldava, mescolandolo
con cura, un intruglio che diventava sempre più spesso, fino ad
assumere la consistenza di una specie di pasta molto densa e pesante.
Giunto a quel punto, l'omino la estraeva, l'attaccava a un grosso
gancio che gli stava davanti, all'altezza dei gomiti, e incominciava
a tirarla, poi a riattaccarla, poi a tirarla di nuovo. Quel
procedimento raffreddava l'impasto, mantenendolo però perfettamente
omogeneo. Ad un certo punto, quando erano state raggiunte la
consistenza e la temperatura volute, l'omino inseriva il tutto nella
parte superiore di una macchina, una specie di pressa con un buco
nella parte inferiore, e da quel buco faceva uscire un filamento a
forma di churro, che tagliava con grosse forbici in segmenti
di una ventina di centimetri. Ne faceva di rosa, alla fragola, di
verdi, alla menta, di bianchi, alla vaniglia, di marroncini, al
caffè. Il bello era comprare il pezzo di zucchero filato quando era
appena stato fatto, perché questo garantiva, almeno per i primi
morsi, una consistenza particolarmente goduriosa, croccante e fredda
all'esterno, ma ancora molle e calda all'interno.
Su
internet ho trovato dei 'bastoncini di zucchero', che però mi
sembrano un'altra cosa. Poi ho cercato la parola francese guimauve,
utilizzata soprattutto come traduzione dell'inglese marshmallow
(altra schifezza), ma che mi pareva volesse dire anche qualcosa
d'altro, forse in Belgio, e ho finito col trovare questa foto:
Per
carità, siamo ancora lontani dallo zucchero filato di Bellaria: i
colori sono troppo vivi, troppo finti. Però ci avviciniamo. Almeno
c'è il gancio...
Io
per quello zucchero filato ci andavo matto e ammetto che anche a 15,
16 anni, quando la preoccupazione principale delle mie serate estive
era di andare a ballare allo Sporting Club, allo Chez Vous o alla
Fattoria con la ragazza giusta, non ce la facevo proprio a passare
davanti alla bancarella senza spendere le 50 lire che mi permettevano
di godere di quella inimitabile leccornia.
Ora,
so benissimo che le probabilità di poter riassaggiare qualcosa di
simile sono inferiori a quelle di sentire una frase intelligente da
Daniela Santanchè, ma chissà mai che un improbabile lettore abbia
più informazioni a proposito, se non addirittura — spes
ultima dea — una ricetta.
Sarebbe una bellissima cosa.