lunedì 16 dicembre 2013

Di Mandela

Nelson Mandela e Walter Sisulu 
nella prigione di Robben Island

Questa mattina ho trovato su Facebook un link verso un articolo intitolato Perché l'Occidente adora Mandela? L'iconizzazione e la santificazione di un conciliatore e pacificatore utile. Il pessimo articolo è apparso in francese sul sito in francese del think tank canadese Global Research (che però non lo pubblica sul suo sito in inglese). È firmato Luis Basurto. Ovviamente mi sono chiesto chi fosse questo signore, ma non sono riuscito a saperlo. Di Luis Basurto su internet ne ho trovati solo tre: un drammaturgo messicano morto nel 1990, un fisico e un matematico.
Perché ho trovato pessimo l'articolo? Innanzitutto per le sue inesattezze. Dire, per esempio, che "fin dall'inizio degli anni 80 gli uomini al potere lo scelsero [Mandela] come interlocutore privilegiato e quasi unico" è dimenticare che il potere in quegli anni era nelle mani di Pieter Botha, quello stesso che non negoziò mai con l'ANC e andò fino a bombardare gli uffici di quel partito nello Zambia, nello Zimbabwe e nel Botswana (maggio 1986).
Sostenere che "le prese di posizione di Mandela sul futuro del mondo non avevano molta influenza sul corso delle cose, né comportavano costi personali o troppi rischi per lui", dimenticando che alla metà degli anni '80 Mandela era già in prigione da più di vent'anni per scontare un ergastolo, è semplicemente grottesco, oltre che insultante.
Scrivere che, sempre verso la metà degli anni '80, i bianchi al potere "seppero alimentare il mito della sua persona [Mandela] e lusingare l'uomo, la sua persona fisica" richiederebbe almeno una spiegazione: come si fa ad alimentare il mito di qualcuno e soprattutto a lusingarlo, anche fisicamente, mantenendolo in prigione? Nel febbraio 1985 Botha offrì la scarcerazione a Mandela in cambio del "rifiuto incondizionale della violenza come arma politica"; a ciò Mandela rispose attraverso sua figlia: "Che libertà mi offrono mentre l'ANC rimane vietata? Solo uomini liberi possono negoziare. Un prigioniero non può avere contatti."
A queste approssimazioni e false verità storiche viene ad aggiungersi il tono generale dell'articolo, che tende a sminuire il ruolo storico di Mandela e a farne un mito creato dai bianchi. Questo argomento è innanzitutto un insulto a quei milioni di africani che hanno visto e continuano a vedere in lui un simbolo ancora più forte di Lumumba, di Sankara o di altri importanti personaggi dei movimenti di liberazione africani. Ma c'è altro: il ruolo fondamentale di Mandela non è stato quello di mettere fine all'apartheid. Quel sistema odioso e razzista morì da solo, distrutto dalla sua inefficenza e dagli effetti perversi che provocava. Intendiamoci: non sto dicendo che l'apartheid sarebbe comunque morto senza una lotta politica, anche armata, pluridecennale, né senza quel clima internazionale che l'imprigionamernto prolungato di Mandela aveva tanto contribuito a creare; sto dicendo che il ruolo fondamentale di Mandela è stato quello di evitare una guerra civile sudafricana che a molti pareva ineluttabile nei primissimi anni '90.
Forse è bene ricordare che al momento della liberazione di Mandela esistevano in Sudafrica due movimenti importanti: l'ANC (African National Congress) di Mandela e l'IFP (Inkatha Freedom Party) di Mangosuthu Buthelezi. L'IFP era il movimento degli Zulu, popolo maggioritario nella regione dell'allora Natal (oggi KwaZulu-Natal). L'IFP era nato nel 1975. Dapprima alleato dell'ANC, se ne staccò in pochi anni, diventando rapidamente un collaboratore del potere bianco. Buthelezi fu nominato Primo Ministro del bantustan (regione autonoma) del KwaZulu, mentre l'esercito sudafricano addestrava le sue milizie. L'ovvio scopo del governo di Pretoria nel sostenere Buthelezi era di fomentare le divisioni all'interno dei movimenti di liberazione, in particolare indebolendo Mandela.
La situazione degenerò ulteriormente dopo la liberazione di 'Madiba', quando gli scontri tra ANC e IFP provocarono migliaia di morti. L'espressione più tragica di quegli scontri fu l'utilizzo dei 'collari di fuoco', quei copertoni pieni di benzina che venivano messi attorno al collo di un avversario e poi accesi con un fiammifero. I collari di fuoco non furono usati solo dall'IFP, ma anche dall'ANC. Basti ricordare che Winnie Madikizela, prima moglie di Mandela, dichiarò nell'86 "con le nostre scatole di fiammiferi e con i nostri collari libereremo il Paese."
Gli Zulu dell'IFP reclamavano l'indipendenza e la creazione di un regno indipendente, il cui sovrano avrebbe dovuto essere Goodwill Zwelithini kaBhekuzulu, re tradizionale del suo popolo. Per questo l'IFP fece tutto il possibile per boicottare le prime elezioni libere sudafricane, cambiando posizione solo all'ultimo minuto, quando Buthelezi capì che la battaglia sarebbe stata persa.
Credo si possa dire oggi che è solo grazie all'immensa popolarità, al carisma e all'intelligenza politica di Nelson Mandela che il Sudafrica evitò una guerra civile.
Io in Sudafrica ho avuto la fortuna di andarci (e non da turista) tre volte nella seconda metà degli anni '90, quando Mandela era presidente. A quei tempi Johannesburg era una delle città più pericolose del mondo; oggi è la cinquantesima per numero di omicidi rispetto alla quantità di abitanti, dietro Medellin o San Salvador, ma anche dietro New Orleans e Baltimora.
In uno di quei viaggi ebbi modo di andare in una prigione giovanile del Transvaal, dove incontrai vari ragazzi condannati anche a pene pesanti per omicidio o aggressione a mano armata. Inutile dire che i soli bianchi di cui mi ricordi in quella prigione siano, oltre a me e al collega marionettista che accompagnavo, una buona parte delle guardie.
Ricordo i primi quartieri 'grigi' di Johannesburg, quelli cioè dove, poco per volta, bianchi e neri si incrociavano. Tutti i negozi, alimentari e non, avevano delle grosse sbarre di ferro che impedivano di entrare: bisognava prima suonare il campanello e poi aspettare che il commesso aprisse, cosa che faceva dopo aver guardato bene fuori dalla porta.
Ricordo anche la strana sensazione che provai un mattino andando a passeggiare in un quartiere residenziale bianco. Non vidi nessuno a piedi, fino a che un paio di guardie armate non sbucarono fuori domandandomi cosa stessi facendo. Lungo le vie c'erano solo muri di quattro, cinque metri, sovrastati da telecamere e filo spinato elettrificato, che proteggevano le ville dei privilegiati. Una volta sola osai fare qualche centinaio di metri a piedi in centro, la zona più pericolosa della città, in compagnia di un abitante del posto. Posso dire che gli unici momenti di simile paura urbana nella mia vita li ho provati a Sarajevo durante la guerra e a New York, quando nei primi anni '70, sbagliando la stazione di metropolitana alla quale dovevo scendere, mi trovai nel cuore di Harlem verso mezzanotte.
È indubbio che ancora oggi il Sudafrica sia un Paese nel quale l'uguaglianza resta un traguardo lontano. L'AWB, Afrikaner Weerstandsbeweging (Movimento di Resistenza Afrikaner), fondato nel 1973 da Eugène Terre'Blanche, esiste ancora, anche se è diventato un gruppuscolo di fanatici che vanta 5000 membri su una popolazione di 53 milioni (dei quali meno di 6 milioni di origine europea). È altrettanto indubbio che una fetta sproporzionata del potere economico e finanziario sia nelle mani della minoranza bianca. Ma cosa sarebbe oggi questo Paese se dopo 27 anni di prigione Mandela si fosse comportato come l'avevano fatto Mugabe nello Zimbabwe, Obote in Uganda, o Sékou Touré in Guinea?
La Commissione per la Verità e la Riconciliazione voluta da Mandela nel '95 non ha indubbiamente raggiunto tutti gli scopi che si era prefissa. Se l'ex-presidente Botha la definì "un circo", anche i familiari di Steven Biko, assassinato dalla polizia nel '77, se ne dichiararono insoddisfatti. Ciò nonostante quella Commissione resta un esempio unico di tentativo di passaggio senza violenza da un regime oppressivo a uno democratico.
L'articolo di Luis Basurto dal quale questo post ha preso spunto difende posizioni marginali, basate su un revisionismo di bassa lega e su un'apparente incapacità a concepire la Storia altrimenti che come una successione di scontri cruenti tra gruppi ideologici e/o etnici contrapposti. L'avessi trovato sul sito di CasaPound o di qualche altro gruppuscolo, non ne sarei stato sorpreso. È vero che su quei siti non avrei potuto trovarlo, perché ha l'apparenza di qualcosa di ben più solido e documentato di ciò che vi si trova di solito. Ma proprio per questo è più viscido e pericoloso. E proprio per questo ho voluto reagire.