Nelson Mandela e Walter Sisulu
nella prigione di Robben Island
Questa mattina ho
trovato su Facebook un link verso un articolo
intitolato Perché l'Occidente adora Mandela? L'iconizzazione e la
santificazione di un conciliatore e pacificatore utile.
Il pessimo articolo è apparso in francese sul sito in francese
del think tank canadese
Global Research (che
però non lo pubblica sul suo sito in inglese). È firmato Luis Basurto. Ovviamente mi sono
chiesto chi fosse questo signore, ma non sono riuscito a saperlo. Di
Luis Basurto su internet ne ho trovati solo tre: un drammaturgo
messicano morto nel 1990, un fisico e un matematico.
Perché ho trovato
pessimo l'articolo? Innanzitutto per le sue inesattezze. Dire, per
esempio, che "fin dall'inizio degli anni 80 gli uomini al
potere lo scelsero [Mandela]
come interlocutore privilegiato e quasi unico" è
dimenticare che il potere in quegli anni era nelle mani di Pieter
Botha, quello stesso che non negoziò mai con l'ANC e andò fino a
bombardare gli uffici di quel partito nello Zambia, nello Zimbabwe e
nel Botswana (maggio 1986).
Sostenere che "le
prese di posizione di Mandela sul futuro del mondo non avevano molta
influenza sul corso delle cose, né comportavano costi personali o
troppi rischi per lui", dimenticando che alla metà degli
anni '80 Mandela era già in prigione da più di vent'anni per
scontare un ergastolo, è semplicemente grottesco, oltre che
insultante.
Scrivere che, sempre
verso la metà degli anni '80, i bianchi al potere "seppero
alimentare il mito della sua persona [Mandela]
e lusingare l'uomo, la sua persona fisica" richiederebbe
almeno una spiegazione: come si fa ad alimentare il mito di qualcuno
e soprattutto a lusingarlo, anche fisicamente, mantenendolo in
prigione? Nel febbraio 1985 Botha offrì la scarcerazione a Mandela
in cambio del "rifiuto incondizionale della violenza come
arma politica"; a ciò Mandela rispose attraverso sua
figlia: "Che libertà mi offrono mentre l'ANC rimane vietata?
Solo uomini liberi possono negoziare. Un prigioniero non può avere
contatti."
A queste
approssimazioni e false verità storiche viene ad aggiungersi il tono
generale dell'articolo, che tende a sminuire il ruolo storico di
Mandela e a farne un mito creato dai bianchi. Questo argomento è
innanzitutto un insulto a quei milioni di africani che hanno visto e
continuano a vedere in lui un simbolo ancora più forte di Lumumba,
di Sankara o di altri importanti personaggi dei movimenti di
liberazione africani. Ma c'è altro: il ruolo fondamentale di Mandela
non è stato quello di mettere fine all'apartheid.
Quel sistema odioso e razzista morì da solo, distrutto dalla sua
inefficenza e dagli effetti perversi che provocava. Intendiamoci: non
sto dicendo che l'apartheid
sarebbe comunque morto senza una lotta politica, anche armata,
pluridecennale, né senza quel clima internazionale che
l'imprigionamernto prolungato di Mandela aveva tanto contribuito a
creare; sto dicendo che il ruolo fondamentale di Mandela è stato
quello di evitare una guerra civile sudafricana che a molti pareva
ineluttabile nei primissimi anni '90.
Forse
è bene ricordare che al momento della liberazione di Mandela
esistevano in Sudafrica due movimenti importanti: l'ANC (African
National Congress) di Mandela e
l'IFP (Inkatha Freedom Party)
di Mangosuthu
Buthelezi. L'IFP era il movimento degli Zulu, popolo maggioritario
nella regione dell'allora Natal (oggi KwaZulu-Natal). L'IFP era nato
nel 1975. Dapprima alleato dell'ANC, se ne staccò in pochi anni,
diventando rapidamente un collaboratore del potere bianco. Buthelezi
fu nominato Primo Ministro del bantustan
(regione autonoma) del KwaZulu, mentre l'esercito sudafricano
addestrava le sue milizie. L'ovvio scopo del governo di Pretoria nel
sostenere Buthelezi era di fomentare le divisioni all'interno dei
movimenti di liberazione, in particolare indebolendo Mandela.
La
situazione degenerò ulteriormente dopo la liberazione di 'Madiba',
quando gli scontri tra ANC e IFP provocarono migliaia di morti.
L'espressione più tragica di quegli scontri fu l'utilizzo dei
'collari di fuoco', quei copertoni pieni di benzina che venivano
messi attorno al collo di un avversario e poi accesi con un fiammifero. I collari di fuoco non furono usati solo dall'IFP, ma
anche dall'ANC. Basti ricordare che Winnie Madikizela, prima moglie di
Mandela, dichiarò nell'86 "con
le nostre scatole di fiammiferi e con i nostri collari libereremo il
Paese."
Gli Zulu dell'IFP reclamavano l'indipendenza e la creazione di un regno
indipendente, il cui sovrano avrebbe dovuto essere Goodwill
Zwelithini kaBhekuzulu,
re tradizionale del suo popolo. Per questo l'IFP fece tutto il
possibile per boicottare le prime elezioni libere sudafricane,
cambiando posizione solo all'ultimo minuto, quando Buthelezi capì
che la battaglia sarebbe stata persa.
Credo
si possa dire oggi che è solo grazie all'immensa popolarità, al
carisma e all'intelligenza politica di Nelson Mandela che il
Sudafrica evitò una guerra civile.
Io
in Sudafrica ho avuto la fortuna di andarci (e non da turista) tre
volte nella seconda metà degli anni '90, quando Mandela era
presidente. A quei tempi Johannesburg era una delle città più
pericolose del mondo; oggi è la cinquantesima per numero di omicidi
rispetto alla quantità di abitanti, dietro Medellin o San Salvador,
ma anche dietro New Orleans e Baltimora.
In
uno di quei viaggi ebbi modo di andare in una prigione giovanile del
Transvaal, dove incontrai vari ragazzi condannati anche a pene
pesanti per omicidio o aggressione a mano armata. Inutile dire che i
soli bianchi di cui mi ricordi in quella prigione siano, oltre a me
e al collega marionettista che accompagnavo, una buona parte delle
guardie.
Ricordo
i primi quartieri 'grigi' di Johannesburg, quelli cioè dove, poco
per volta, bianchi e neri si incrociavano. Tutti i negozi, alimentari
e non, avevano delle grosse sbarre di ferro che impedivano di
entrare: bisognava prima suonare il campanello e poi aspettare che il
commesso aprisse, cosa che faceva dopo aver guardato bene fuori dalla
porta.
Ricordo
anche la strana sensazione che provai un mattino andando a
passeggiare in un quartiere residenziale bianco. Non vidi nessuno a
piedi, fino a che un paio di guardie armate non sbucarono fuori
domandandomi cosa stessi facendo. Lungo le vie c'erano solo muri di
quattro, cinque metri, sovrastati da telecamere e filo spinato
elettrificato, che proteggevano le ville dei privilegiati. Una volta
sola osai fare qualche centinaio di metri a piedi in centro, la zona
più pericolosa della città, in compagnia di un abitante del posto.
Posso dire che gli unici momenti di simile paura urbana nella mia
vita li ho provati a Sarajevo durante la guerra e a New York, quando
nei primi anni '70, sbagliando la stazione di metropolitana alla
quale dovevo scendere, mi trovai nel cuore di Harlem verso
mezzanotte.
È
indubbio che ancora oggi il Sudafrica sia un Paese nel quale
l'uguaglianza resta un traguardo lontano. L'AWB, Afrikaner
Weerstandsbeweging (Movimento
di Resistenza Afrikaner), fondato nel 1973 da Eugène Terre'Blanche,
esiste ancora, anche se è diventato un gruppuscolo di fanatici che
vanta 5000 membri su una popolazione di 53 milioni (dei quali meno di
6 milioni di origine europea). È altrettanto indubbio che una fetta sproporzionata del potere economico e finanziario sia nelle mani della minoranza bianca. Ma cosa sarebbe oggi questo Paese se
dopo 27 anni di prigione Mandela si fosse comportato come l'avevano
fatto Mugabe nello Zimbabwe, Obote in Uganda, o Sékou Touré in
Guinea?
La
Commissione
per la Verità e la Riconciliazione
voluta da Mandela nel '95 non ha indubbiamente raggiunto tutti gli
scopi che si era prefissa. Se l'ex-presidente Botha la definì "un
circo",
anche i familiari di Steven Biko, assassinato dalla polizia nel '77,
se ne dichiararono insoddisfatti. Ciò nonostante quella Commissione
resta un esempio unico di tentativo di passaggio senza violenza da un
regime oppressivo a uno democratico.
L'articolo
di Luis Basurto dal quale questo post ha preso spunto difende
posizioni marginali, basate su un revisionismo di bassa lega e su
un'apparente incapacità a concepire la Storia altrimenti che come
una successione di scontri cruenti tra gruppi ideologici e/o etnici
contrapposti. L'avessi trovato sul sito di CasaPound o di qualche
altro gruppuscolo, non ne sarei stato sorpreso. È vero che su quei
siti non avrei potuto trovarlo, perché ha l'apparenza di qualcosa di
ben più solido e documentato di ciò che vi si trova di solito. Ma
proprio per questo è più viscido e pericoloso. E proprio per questo
ho voluto reagire.