Jacques Borel
Il classico autolesionismo italiano ci spinge spontaneamente a considerarci inferiori agli altri. In questo siamo il contrario dei francesi, che tendono sempre vedere sé stessi come i primi e i migliori in tutto. I due atteggiamenti sono altrettanto esasperanti e chi, come me, passa da una parte all'altra della frontiera una dozzina di volte all'anno, tende inevitabilmente a smadonnare in mille occasioni, tanto da una parte che dall'altra delle Alpi.
Stamattina sono venuto da Saumur, bella città sulla Loira, a Parigi. Da qualche giorno il termometro non riesce più a salire sopra lo 0 e i due lati dell'autostrada erano coperti di neve.
Mi fermo a un autogrill per mangiare qualcosa. So che è un errore, so che mi metterò a smadonnare, ma uno non ha sempre la possibilità materiale di prepararsi dei panini e magari un termos di caffè prima di partire, allora mi fermo.
Entro. Da una parte c'è il solito spaccio: panini in involucri di plastica, insalate con data di scadenza tra dieci giorni e altre leccornie.
Più in là c'è un caffè. Dietro una vetrina ci sono vari panini. Ho scritto panini in corsivo perché qui la parola è diventata francese: si pronuncia naturalmente paninì ed è sia singolare che plurale: un paninì. C'è anche qualche panino, ma, come sempre, sono tutti off limits per me, vegetariano. Chiedo un paninì au fromage. L'inserviente me lo prende ed è solo allora che noto due cose: la prima è che un cartellino indica panini aux trois fromages; l'altra, che l'unica cosa visibile all'interno del mio paninì aperto come un libro sono tre minuscole fettine di caprino. Ah, dico, ai tre formaggi vuol dire che ci sono tre pezzetti di formaggio? Mais non, Monsieur, c'è anche del bleu (nome generico dato ai formaggi leggermente ammuffiti) e del gruyère (nome altrettanto generico dato ai formaggi senza sapore né odore). Giuro che ho guardato bene e che non ho viste niente. Probabilmente al momento della preparazione il paninì viene fatto passare davanti a due pezzi di formaggio, uno blu e uno senzea sapore né odore, nella vana speranza che riesca, forse per un miracoloso intervento di santa Bernadette di Lourdes, a impregnarsi dei loro peraltro inesistenti aromi.
Smadonno, ma non a voce alta. Il che mi richiede un certo sforzo.
Il paninì viene inserito in uno di quegli aggeggi destinati a scaldarlo, visto che la differenza fondamentale tra un sandwich (che scrivo in corsivo in quanto parola francese, che non sta ad indicare né il sandwich italiano, né quello britannico, entrambi perfettamente commestibili) e un paninì, è che il primo è freddo e il secondo è caldo.
Chiedo quanto fa. Cinq euro dix, Monsieur. Sì, avete capito bene: cinque euro e dieci centesimi per un panino mal cotto di 18 centimetri dentro il quale sono stati posate tre fettine di caprino da supermercato Lidl. Far finta di niente richiede uno sforzo immane, ma ce la faccio.
Aspettando la cottura, visto che è così che la chiamata l'inserviente, la cuisson, mi guardo intorno. Mi dico subito che non prenderò un caffé. Inutile provarci. So che fa schifo. Lo fa sempre, sistematicamente. Perché? Prima di tutto perché i grani di caffé sono troppo tostati e diventano quindi amari. Poi perché le macchine da bar, che sono le stesse che da noi, sono regolate in modo assurdo: hai appena fatto in tempo a chiedere un caffé che già te lo servono. Te ne possono fare quattro o cinque nel tempo che ci vuole a un barista italiano per fartene uno, perché non c'è pressione nella macchina, né peraltro nel caffé stesso, che non viene pressato a dovere. Non c'è la schiumina, non c'è niente. Il risultato è la classica spremuta di calzino. Bevi un caffé e dopo due minuti manco te lo ricordi. Altro che quel sapore che ti porti dietro quando esci dai nostri bar e che ti senti in bocca per dieci minuti e più.
Mi volto dall'altra parte e vedo una scritta: L'espace des Arômes, lo spazio degli Aromi (perché maiuscolo? Non si sa...).
Cosa sarà mai? Una boutique esotica nel bel mezzo di un autogrill? No, no, no, no...
La scritta è a più di due metri di altezza, su un muro dipinto di rosa. Sotto ci sono... (rullano i tamburi!) quattro distributori automatici di caffé e cioccolata. Per solo 1,70€ uno può offrirsi la disgustosa esperienza di una bevanda vagamente marronastra, di sapore indefinibile, che si spaccia per caffé. Io l'ho fatto qualche giorno fa, in un altro autogrill. Ho scelto l'opzione zuccherato. Ebbene, sapete fin dove arriva la perfidia transalpina? Lo zucchero c'è, ma è sul fondo, e non c'è niente di disponibile per mescolare! Se questa non è inciviltà... Se questa non è ignoranza... Se questa non è perversione...
Altra cosa estremamente fastidiosa degli autogrill francesi: non c'è un distributore su tutte le autostrade francesi (dico uno!) che abbia una persona che ti fa il pieno. Non so voi, ma anche in Italia ci sono delle volte che preferisco pagare 2 centesimi di più al litro standomene tranquillamente seduto al caldo invece di uscire a cercare di evitare di versarmi benzina sulle scarpe e di avere poi le mani che sanno di idrocarburo per le due ore seguenti.
E poi mi dico: uno può viaggiare da solo anche se ha una gamba rotta, o altri problemi di deambulazione. Basta che abbia il cambio automatica. Uno può essere vecchissimo e lentissimo eppure riuscire a guidare. Uno può... non lo so io cosa uno può, ma me lo volete mettere qualcuno con su una divisa, che mi fa pagare due centesimi di più ma che però mi evita di fare il benzinaio? E che cacchio!...
Ci si chiede spesso quali siano stati gli individui che hanno veramente cambiato qualcosa, nel bene come nel male, in un dato paese. Non solo Garibaldi, Mussolini e Berlusconi hanno cambiato l'Italia, ognuno a modo suo, ma l'hanno fatto anche Mike Buongiorno, Gianni Boncompagni e Renzo Arbore. La Francia è stata cambiata da un industriale di nome Jacques Borel che, negli anni 70, ha aperto tutta una serie di autogrill nei quali veniva servito cibo-spazzatura. Non so bene come la cosa si sia sviluppata, ma è un po' come se quel pericoloso germe autostradale si fosse messo a proliferare, valicando impunemente i caselli, invadendo le campagne, tracimando ovunque come una diga che fino ad allora bloccava un immenso lago di merda che, non avendo più alcun ostacolo, ha trasformato un paese rinomato per la sua alta cucina in quello in cui, a meno di spendere da 150 euro in su per persona, vino escluso, si mangia peggio. È veramente imbarazzante.
E buttato giù questo articoletto di sciovinistico patriottismo culinario, me ne vado a riposare perché ho l'influenza. Chissà, magari sognerò un caffé di quelli che mi fa Andrea, al bar sotto casa.