martedì 29 maggio 2018

Che ora è?


Un'oretta fa stavo camminando per la campagna e stavo ascoltando Bob Dylan. Il fatto che stessi ascoltando Bob Dylan non c'entra niente con ciò che sto per scrivere, è solo una scusa per poter dire che il triplo CD “Triplicate” è davvero molto bello.
Dunque, stavo camminando per la campagna, quando mi sono chiesto quale fosse in quell'istante la “vera” ora. Sarà perché avevo appena guardato l'orologio? Sarà perché avevo appena ascoltato “As Time Goes By”, che è una delle canzoni che ci sono nel bellissimo triplo CD “Triplicate” di Bob Dylan? Non lo so. E non importa.
Ciò che importa è che anche solo chiedersi che ora sia per davvero nella campagna Toscana o in qualsiasi altro posto non ha senso perché: 1) non esiste una “vera” ora e 2) perché non esiste nemmeno il tempo (v. Carlo Rovelli, “L'ordine del tempo”, Adelphi 2017; sennò puoi sempre guardarti questo breve video: https://www.youtube.com/watch?v=bWTFwYbscnk).
D'accordo, il tempo non esiste, però ci fa comodo pensare che esista ed è per questo che diciamo che sono le 11 del mattino o le 3 di notte. Nella nostra idea convenzionale di tempo, sappiamo che ora è basandoci su tutta una serie di, per l'appunto, convenzioni, tra le quali quella secondo cui l'ora di riferimento è quella del meridiano di Greenwich. Quella particolare convenzione diventò necessaria nell'800 con l'arrivo delle ferrovie. Fino ad allora l'ora di Glasgow e quella di Londra, tanto per prenderne due a caso, erano diverse. Ma visto che i treni permettevano di spostarsi molto più rapidamente dei cavalli, sembrò logico e pratico poter sapere, guardando un orario ferroviario, non solo l'ora di partenza da Glasgow e quella di arrivo a Londra, ma anche la durata del viaggio. L'ora di Greenwich, detta anche ora Zulu perché la maggior parte delle marine militari del mondo usano l'ora di Greenwich come riferimento quando sono in viaggio e si riferiscono al meridiano di Greenwich con la lettera Z, fu adottata dalle ferrovie inglesi nel 1847.
Io però un'oretta fa non stavo camminando nel Parco di Greenwich e nemmeno nel Parco Mudchute, che come tutti sappiamo si trova giusto dall'altra parte del Tamigi rispetto al noto osservatorio, bensì in Toscana, in un posto, se vogliamo essere precisi, un po' più di 11° a est e un po' meno di 8° a sud di Greenwich. Entrambe le misure, quella inerente alla longitudine e quella inerente alla latitudine, dovrebbero essere prese in considerazione, almeno teoricamente, al fine di determinare la “vera” ora in un momento dato. C'è però anche una terza cosa che dovrebbe essere presa in considerazione, visto che anche l'ora di Greenwich è più o meno “vera” a seconda del momento dell'anno. L'inclinazione dell'asse terrestre (23° 27'), grazie alla quale almeno nelle zone temperate godiamo di quattro stagioni, fa sì che l'ora “vera” cambi anche lei e che non sia “vera vera” che una volta all'anno (o forse due, non sono sicuro). Così, se il fatto di essere più a est di Greenwich fa sì che l'ora “vera” della Toscana sia più avanzata di quella di Greenwich, il fatto di essere più a sud aumenta ulteriormente, oppure diminuisce quella differenza a seconda della stagione.
Vabbè, mi dirai, ma kissenefrega?
Non lo so. Forse però tutto questo può aiutarci a capire che non c'è niente di “vero vero” al mondo e quindi faremmo meglio a prendere tutto con un po' più di calma. A cominciare, almeno in questi giorni, dalle fesserie di Di Maietto e le turpitudini di Salvinazzo.
Sai cosa? Mo' mi faccio delle trenette al pesto, magari ascoltandomi uno dei tre CD dell'ottimo “Triplicate” di Bob Dylan.

venerdì 4 maggio 2018

Da una foto a Enrico Baj (inaspettatamente)



Questa foto, nota come La Marianna del Maggio '68 è stata pubblicata ieri notte dal mio amico Stefano sulla sua pagina Facebook, ma io l'ho vista stamattina. La conoscevo e l'avevo rivista non più di tre settimane fa, in Francia, dove in edicola trovi un sacco di celebrazioni del cinquantenario del Maggio '68.
Bella foto. Sulla quale ho voluto saperne un po' di più di ciò che ricordavo.
L'immagine, scattata del fotografo Jean-Pierre Rey, è diventata iconica perché fa l'occhiolino alla Liberté guidant le peuple, il quadro di Delacroix che in Francia è conosciuto quanto e più del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo in Italia.
La ragazza è Caroline de Bendern, che allora era una giovane modella. In un'intervista del 1997 a Le Monde, Caroline raccontava com'erano andate le cose:

Ci incamminiamo verso la [piazza della] Bastiglia. Mi sono appena arrampicata sulle spalle di un amico. Chiedono qualcuno per tenere una bandiera e io ho così male ai piedi a forza di camminare che colgo la palla al balzo. [...] La bandiera vietnamita mi va bene come simbolo di una guerra che tutta la gioventù denuncia. D'un tratto sento diversi obiettivi puntati su di me. È incredibile, li avvisto sempre. Una specie di fiuto, sono modella… Allora ho come un riflesso proflessionale. D'istinto mi raddrizzo, il mio volto si fa più grave, il mio gesto più solenne. Vorrei assolutamente essere bella e offrire al movimento una rappresentazione all'altezza del momento. In fondo, mi metto in posa. [...] Divento esattamente ciò che voglio sembrare. Non interpreto più un ruolo, sono fino in fondo nel movimento e nell'istante, e cosciente, io, l'aristocratica inglese, di una responsabilità.

Già, Caroline era, anzi è, visto che vive tuttora, un'aristocratica inglese, peraltro discendente da un bisnonno così aristocratico inglese che, vedendo la foto, fece il necessario per diseredarla. Oggi Caroline vive in Normandia ed è tornata brevemente alla ribalta in Gran Bretagna poco più di due anni fa, come attivista anti-Brexit.
Pare che il giovane (che non si vede) sulle spalle del quale è seduta sia Jean-Jacques Lebel, che allora era il traduttore in francese di Ginsberg, Ferlinghetti, Corso, Burroughs e altri, ma che poi è diventato pittore e soprattutto organizzatore di happening. Suo padre era il critico d'arte Robert Lebel, noto per il suo saggio su Marcel Duchamp, di cui fu amico, e per i suoi legami sia con i pittori surrealisti che con Claude Lévi-Strauss e Jacques Lacan.
Scopro con una certa sorpresa su internet che secondo alcuni fu proprio Jean-Jacques Lebel ad avere l'idea di un grande quadro collettivo dipinto a Milano nel 1961. Il quadro è intitolato Grande quadro antifascista collettivo e ha una storia travagliata.
Intanto gli autori: su internet trovo i nomi di Jean-Jacques Lebel, Erró (al secolo Guðmundur Guðmundsson), Enrico Baj, Roberto Crippa, Gianni Dova, Antonio Recalcati. Nella sua Automitobiografia però Baj cita sì Crippa e Recalcati, però anche Wilfredo Lam e Victor Brauner, mentre non cita Dova, Erró e Lebel.
Poi la vicenda: pochi giorni dopo l'apertura della mostra collettiva nella quale veniva presentato, il quadro fu sequestrato dalla polizia, su ordine del procuratore Luigi Costanza, per offesa a Capo di Stato estero, in questo caso Papa Giovanni XXIII. Vero è che da qualche parte su quella grossa tela c'è incollata una piccola foto del Papa di allora, ma se uno non lo sa, magari fatica anche a trovarla. Comunque sia, il quadro fu staccato dal muro, arrotolato e portato via. Poi sparì per 27 anni.
È solo nell'88 che Baj riuscì a recuperarlo, cosa che sorprese anche lui, come mi raccontò poi nei dettagli durante una di quelle lunghe chiaccherate che ci facevamo nel suo studio. Più tardi è stato esposto al Louvre di Lens (succursale di quello di Parigi), al Beaubourg, a Vienna, agli Invalides, per finire poi al Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Strasburgo, dove l'ho visto, forse una dozzina di anni fa.
E tutto questo mi conferma una volta ancora l'esattezza della teoria dei sei gradi di separazione, che sostiene che a qualsiasi abitante della Terra è possibile entrare direttamente in contatto con qualsiasi altro passando da non più di 5 intermediari. In questo caso preciso, se volessi mettermi in contatto con Caroline mi basterebbe chiamare la vedova di Enrico Baj, Roberta, che non avrebbe difficoltà a mettersi a sua volta in contatto con Jean-Jacques Lebel, che a sua volta… e voilà. Il gioco sarebbe fatto in tre, massimo 4 passaggi.Detto questo, non vedo perché vorrei mettermi in contatto con Caroline, ma non importa.
Oltre tutto, l'unico passaggio che a questo punto mi interessa davvero è quello tra me e la caffettiera, quindi ti lascio e vado a farmi indovina cosa. 

 Caroline de Bendern, un anno fa