Forse
un giorno scriverò un lungo resoconto intitolato “Avventure di un
cittadino all'ufficio postale”; oppure un lunghissimo poema epico
intitolato “Postìade”; o magari un libro di confessioni, da
pubblicare postumo col titolo “Perché alla fine ho preferito
suicidarmi”. Intanto poco fa sono andato all'ufficio postale del
mio Comune di residenza.
Visto
che siamo stati via da casa per quasi un mese, avevamo deciso di
beneficiare del servizio “Aspettami”, che prevede che la posta ti
aspetti, per l'appunto, fino al tuo ritorno. L'operazione aveva dato
adito alla consueta orgia di burocrazia a base di numeri di codice
fiscale (sia quello del richiedente che quello della consorte), carte
d'indindirindà, documento riempito e firmato per poi essere copiato
parola per parola al computer dall'impiegato, consulto con un altro
impiegato, che sembrava saperne un po' di più di quello che era
capitato a noi, ma che aveva comunque preferito chiedere a un terzo,
più anziano, eccetera eccetera.
Stamattina
vado allo sportello, dico buongiorno e porgo all'impiegata la
ricevuta dell'operazione fatta un mese fa e la mia carta
d'indindirindà. Lei mi lascia il documento, prende la ricevuta, la
studia per un po', poi dice:
— Ah,
questa è la cosa... come si chiama... che lei voleva che la posta la
tenessimo qui?
— Sì,
rispondo laconicamente rendendomi conto che il prevedibile calvario
non fa che incominciare.
L'impiegata
si alza, va da un impiegato maschio, gli fa vedere la ricevuta. Lui
le dice che al piano inferiore ci sono delle scatole con su i nomi.
Lei sparisce per un certo tempo. Un certo lungo tempo. Poi torna.
— Guardi,
mi dice, il suo nome non c'è. Posta non ne ha.
— No,
sbotto malgrado tutte le previe promesse che mi ero fatto, posta ce
n'è di sicuro.
E
penso soprattutto ai quattro, dico quattro(!) numeri della Settimana
enigmistica alla quale sono abbonato grazie alla generosa
iniziativa di quella santa donna di mia suocera. E mi trattengo
dall'urlare cazzo! Le mie Settimane enigmistiche! Le vogliooo!
— Eh...,
dice lei tra il dubbioso e il complice.
Poi
si gira di nuovo verso il collega maschio che, quasi spazientito, le
ripete:
— Ma
sì, sotto. Chiedi a uno dei postini, ché tanto adesso sono lì.
Nuova
sparizione della mia impiegata. Nuovo certo lungo tempo.
Dopodiché
appare un'altra impiegata (ammettiamolo: dall'aria più sveglia),
con uno smartphone in mano.
— È
lei per “Aspettami”?, mi chiede.
— Sì,
rispondo, ormai sull'orlo di una crisi di nervi ad alto tasso
depressivo.
— La
posta non ce l'abbiamo noi, è a Poggibonsi.
— Come
a Poggibonsi?
— Eh,
sì, c'hanno diviso le cose, è così. Ma guardi, sono al telefono
con la postina, parli pure.
— Pronto?
— Sì,
buongiorno. Se lo sapevo, la posta gliela portavo, ma adesso sono
sulla superstrada e c'ho pure una Raccomandata 1 per lei. Ma lei è a casa?
— No,
sono all'ufficio postale, rispondo trattenendo a stento i singhiozzi.
— Ma
a che ora c'è a casa?
—
Non so, verso le 11.
— Va
bene, tanto io prima di mezzogiorno e mezzo non passo. Poi magari
l'altra posta gliela porto domani.
Seguono
ringraziamenti e saluti. L'impiegata sveglia riattacca il telefono (i
lettori più giovani, se non capiscono l'arcaica espressione
“riattaccare il telefono”, potranno domandarne il senso a
genitori, zii, o nonni), poi si lancia in una confusa spiegazione del
fatto che i servizi tra il mio Comune e Poggibonsi sono stati divisi
in due, il che, preso parola per parola, non ha molto senso, ma
probabilmente ne ha nell'universo parallelo di Burocratolandia.
— Se
mi fosse stato detto quando ho fatto la pratica, che dovevo andare a
Poggibonsi..., azzardo timidamente.
— Eh
già. Ma sa com'è, certe volte uno non ci pensa.
Non
insisto, rendendomi perfettamente conto dell'assurdità del mio sogno
di vivere in un universo nel quale anche gli impiegati degli
sportelli degli uffici postali pensano.
Saluto
e vado a farmi un caffé.