Il re di Girgenti
dal romanzo di Andrea Camilleri
Creare
un nuovo spettacolo è come correre un 100 metri che dura settimane.
Sei sempre in apnea, da quando ti svegli al mattino a quando ti
riaddormenti la sera e l'unica cosa alla quale pensi è tagliare il
traguardo. È come essere in immersione e tornare su piano piano alla
ricerca disperata della boccata d'aria salvatrice. Anche se a quella
boccata d'aria ci credi sempre, ché sennò faresti un altro
mestiere, ci sono lunghissimi momenti nei quali ti pare impossibile,
sempre più impossibile. In altri momenti ti sembra a portata di
mano, ma un'occhiata in alto basta a farti capire che in realtà è
ancora molto, molto lontana.
Negli
ultimi trent'anni sono stato quasi sempre solo in scena. Tre volte un
mio assistente era visibile, ma non parlava; una sola volta con me
c'è stata una collega attrice, ma ero comunque io che facevo la
regia. Questa volta è stato tutto diverso. Con Fabio abbiamo
lavorato insieme sia al testo che alla regia che all'interpretazione.
E possiamo aggiungerci pure le musiche. Ci sono stati momenti
complicati, naturalmente, ma siamo arrivati alla fine senza toglierci
il saluto, il che è una gran bella cosa. E mi sa che continueremo
pure a berci dei caffè insieme e a vederci regolarmente.
Creare
un nuovo spettacolo per me implica sempre ricordarmi di ciò che
diceva Mastroianni sul mestiere dell'attore, e cioè che "è
sempre meglio che lavorare". Sante parole. Qualsiasi siano le
difficoltà, cerco di non scordarmi mai che fare il mio mestiere è un privilegio.
Creare
un nuovo spettacolo partendo da un testo contemporaneo è una cosa
che avevo fatto solo una volta nella vita, con Il fungo,
del bulgaro Zvetan Marangozov. Tutte le altre volte ero partito da
Omero, da Dumas, da Shakespeare, o da altri, tutti rigorosamente
sotterrati e/o cremati secoli addietro. Speravo di non farli rigirare
nella tomba con i miei adattamenti e gli inevitabili tagli ai testi
originali, ma non credendo all'immortalità dell'anima più che alla
finezza del pensiero di Daniela Santanchè, quella mia preoccupazione
restava molto periferica. Questa volta abbiamo lavorato su un testo
di Camilleri, che andrà sì per gli 89 anni, ma che è molto, molto
meno rincoglionito di Matteo Salvini, che va per i 42. Se tutto va
bene, Camilleri lo spettacolo dovrebbe vederlo tra un mesetto e a
quell'idea io già mi preoccupo. Io sono come Robert Redford (che è
sempre una bella frase da scrivere): sono decenni che faccio questo
mestiere, ma mi dico sempre che un giorno o l'altro arriverà uno
dell'EICF, l'Ente Internazionale Contro le Frodi, mi batterà un
dito sulla spalla, da dietro, e appena mi sarò girato verso di lui
mi dirà: "Basta. Abbiamo capito che sei tutto una frode, che
non sei capace di far niente. Tornatene a casa". Spero tanto che
Camilleri non sia un funzionario dell'EICF.
Creare
un nuovo spettacolo è come aver voglia, per mesi, certe volte per
anni, di condividere qualcosa che si ama e di avere paura di non
riuscirci. Te l'immagini? Vuoi far vedere una cosa bellissima, che ti
ha cambiato la vita, a qualcuno a cui vuoi bene e lui, o lei, la
guarda e ti dice: "Mmmhhh, bellino". Roba da andarsene
subito ad arruolarsi nella Legione Straniera.
Questa
volta la Legione aspetterà. La cosa più bella dopo le prime tre
rappresentazioni è stato il numero di persone che mi hanno detto che
si erano commosse. Sembra poco, ma commosso
non è una parola che si usa a teatro. Al cinema sì, ma non a
teatro. Anzi, per un certo numero di teatranti quella è una brutta
parola, come se fare teatro dovesse per forza voler dire sconcertare,
magari provocare, interessare, spingere alla riflessione, ma comunque
non commuovere. Sarò un uomo d'altri tempi, ma a me quella parola piace proprio, perché se ti commuovi lo fai con chi ami, con chi
ami anche solo per un momento, ma comunque con chi condividi qualcosa
di intenso e di profondo. E allora grazie di cuore a tutti quelli che
quella parola me l'hanno detta senza esitare, senza averne paura, da
amici. Creare un nuovo spettacolo è sperare, contro ogni
probabilità, che qualcuno alla fine ti dica quella parola. E allora,
grazie a chi l'ha fatto.