La mia suite nel Vermont
Grandi progressi. Il terzo giorno dopo
l'arrivo negli Stati Uniti mi sono alzato alle cinque e mezzo del
mattino. Sempre meglio delle quattro e mezzo dei due giorni
precedenti.
Ho passato due notti a Brooklyn, a casa
di Peter, un amico carpentiere. Il rituale all'arrivo è sempre lo
stesso: passare almeno un giorno a New York a fare spese. Prima di
tutto, un salto da B&H, all'incrocio della 34esima strada
con la nona avenue. Per gli
amanti di fotografia, il negozio più bello del mondo. C'è sempre
qualcosa da comprare. Il problema è tirar fuori tutta la forza di
volontà possibile e immaginabile per non liquidare in un'ora il
budget di un mese, cibo compreso. Non solo i prezzi sono molto bassi,
rispetto all'Europa, ma la quantità e la varietà di piccoli
accessori che appena li vedi ti sembrano indispensabili è
decisamente sesquipedale. Un'idea del negozio puoi averla qui.
Da B&H
una breve camminata mi porta poi sulla 36esima, dopo la settima
avenue,
da Old Navy,
grosso negozio di vestiti a buon mercato. Primo acquisto, due o tre
paia di pantaloni a meno di 30 dollari, di quelli simili ai Docker's
della
Levi's,
ma di migliore qualità e a circa un terzo del prezzo. Poi magliette
a gogò (tra 15 e 20 dollari), due o tre camicie (meno di 30) e
infine, oh goduria del nobile disprezzatore di slip strizzacabasisi
che, come tutti i gentiluomini, si rifiuta di offrire alle sue parti
intime altro che la giusta e soffice protezione di variegati boxer,
mutande multicolori a 7 o 8 dollari!
Uscito
da Old Navy
erano ormai le undici passate e, mentre in Toscana un pomeriggio
piovoso imponeva non solo l'impermeabile, ma anche un buon golf sotto
l'impermeabile, l'afa newyorkese, decisamente africaneggiante, mi ha
immediatamente convinto che camminare fino a Union
square
per andarmi a comperare un paio di indistruttibili sandali Teva,
anche loro a metà prezzo rispetto all'Italia, sarebbe stato un gesto
suicida. Quindi mi sono infilato nella puzzolente metropolitana.
Gli
anni passano e la metro di New York invecchia senza che nessuno sembri preoccuparsene. Fa davvero schifo e ha un odore
tutto suo, diverso da quelle di Londra, Parigi, o Milano, un odore
che andrebbe omologato nella Lista Internazionali degli Odori sotto
il nome di New York subway.
È un misto di topo morto, sudore ascellare multiplo, polvere
pluridecennale, acqua stagnante, muri marci, metallo coperto di
grasso e deodoranti di ogni genere e tipo. Sulla scala della
gradevolezza olfattiva che va da 1 a 10 il New
York subway merita
un bel -27. Tanto per intenderci, la cacca di uno sconosciuto che
aveva appena mangiato asparagi all'aglio è a -5.
Ah,
New York! Sarà anche la
città per antonomasia, la big
apple,
la città dove tutto è possibile, quella del melting-pot
e degli splendidi musei, della Tiffany's
di hepburniana memoria e di Cary Grant che si fa prendere per Mr.
George Kaplan nella hall del Plaza, sarà tutto quello che vuoi, ma
non ci vivrei nemmeno per un cacazillione di dollari.
È
quindi con l'animo leggero che ieri mattina sono salito a bordo della
(molto) vecchia Toyota Corolla di Peter per la partenza verso il
Vermont. Un piccolo stop a Brooklyn Heights (con vista da cartolina
su Manhattan) per recuperare una macchina da cucire a casa di sua
madre, un altro breve stop sull'89esima per accogliere a bordo
Geneviève, e via verso nord per un viaggetto di sette ore abbondanti
attraverso Connecticut et Massachusetts verso il North
East Kingdom,
la parte più a nord e più isolata di uno dei più piccoli Stati
dell'Unione.
Il
Vermont è un altro mondo. Un triangolo di territorio con la punta verso il basso: 250 chilometri da nord a sud, mediamente 130 da est a ovest, una superficie appena superiore a quella della Toscana, con colline altrettanto dolci a perdita
d'occhio, ma colline coperte da boschi e
foreste, con una densità di popolazione di pochissimo superiore a
quella della Svezia. Forse buona parte della Toscana assomigliava al
Vermont 1200 anni fa, quando vagavano orsi e lupi là dove oggi ci
sono outlet e svincoli autostradali. Qui ci sono cervi, alci, orsi, coyote, procioni, puzzole, oche delle nevi, aironi, perfino colibrì che poi se ne vanno a passare l'inverno in Messico, visto che qui gli inverni sono quasi siberiani. I vecchi vermontesi dicono che qui ci
sono solo due stagioni: l'inverno e luglio. E infatti, nonostante
ieri fossimo intorno ai trenta gradi, una settimana fa ha nevicato.
Mica era luglio...
Adesso
eccomi immerso nel verde per un mese, nel mondo del Bread
and Puppet.
È mattino presto, tutti dormono ancora, gli uccelli fanno cip cip (a
dire il vero fanno un casino infernale), il sole è ancora basso, la
temperatura ideale. Ho appena letto sul sito di Repubblica
un paio di titoli che mi hanno riempito di gioia. Gioia di essere
perso in un mare di boschi a migliaia di chilometri distanza.