Shadow lake
Stamattina
quando sono sceso dalla mia stanzetta mansardata per andare a mingere
piacevolmente contro un albero dall'altra parte del sentiero ho dato
un'occhiata al termometro appeso al muro esterno della fattoria: 48°
Farenheit. Mentre me ne stavo lì in piedi tenendo in mano il cosino
intirizzito di cui il Creatore ha avuto la buona idea di dotarmi,
cercando di tenerlo in una posizione favorevole alla fuoruscita di
liquidi ormai inutili, ho fatto una conversione mentale in
centigradi: 8°. Mmmh... Sono tornato in camera, ho verificato sul
computer: 8,889° C, per essere precisi. Doppio mmmh...
Emergendo
dal letto mi ero infilato sandali e bermuda, ma avevo preso la
precauzione di aggiungere un pile invernale alla t-shirt gialla con
su scritto Rebel Music Rockers Club.
Sì:
ho una t-shirt gialla con su scritto Rebel Music Rockers Club, non
chiedermi perché. A dir la verità ne ho anche una con su il
logo della birra Coors, il che ha scatenato ilarità e sdegno
generale quando l'ho sfoggiata la settimana scorsa, non solo perché
la birra Coors fa schifo, ma anche perché pare che il padrone della
Coors sia un Repubblicano di quelli che trovavano che Bush era uno di
sinistra. Il fatto che l'avessi pagata meno di 10$ (8€) al negozio
Old Navy della 36esima strada di Manhattan non è stato accettato
come una giustificazione sufficiente da nessuno.
Sono
andato in cucina, ho aperto l'imponente frigorifero probabilmente
uscito dalla fabbrica quando John Wayne andava ancora a cavallo con
tanto di camicia rossa e gilet di cuoio e mi sono servito una dose
inconfessabile di quello yoghurt denso come le chiappette di Uma
Thurman a vent'anni che Gabe prepara regolarmente in grandi vasi di
vetro. Anche solo alla vista di quella bianca delizia qualsiasi
patologo specializzato nella cura del colesterolo non esiterebbe a
tagliarsi le vene, impiccarsi e spararsi in bocca per maggiore
precauzione, ma non importa.
Versato
lo yoghurt dentro una scodellina bianca col bordo verde, ho visto che
la la Moka era appoggiata sui fornelli. Soffermiamoci un momento su questa
Moka. Credo che la Bialetti l'abbia sfornata come prototipo unico,
forse per esporla in qualche fiera di provincia: ha dimensioni
pazzesche. Non so quante tazzine di espresso potrebbe riempire, ma se
l'esercito coreano dovesse invadere gli Stati Uniti basterebbe
preparare il caffé una sola volta per soddisfare tutti gli
artiglieri di Kim Jong-un. Oltre tutto qualcuno deve avere spiegato a
questi americani che una Moka non va mai lavata col detersivo, ma
siccome probabilmente questo qualcuno non parlava abbastanza bene
l'inglese, è stato frainteso: non solo la Moka non è mai stata
lavata con alcun detersivo all'interno, ma è stata amorevolmente
protetta da ogni pericolo pulitorio anche all'esterno, assumendo col
tempo una patina non solo nera come una notte senza luna in un tunnel congolese, ma anche spessa come
l'adipe di Giuliano Ferrara. Ha un aspetto così minaccioso che sembra una delle
astronavi di Darth Fener.
Nella
caffettiera c'era ancora una buona dose di caffé del giorno prima.
“E che me ne importa a me?, mi sono detto, tanto, riscaldato o no,
è comunque una schifezza...” E, riversata la brodaglia marrone in
un pentolino, me la sono riscaldata. Ho preso una tazza col manico
con su scritto I❤NY,
ho versato il caffé, ho aggiunto una buona dose di latte presa dal
contenitore di plastica da 1 gallone (3,7854118 litri), due
cucchiaini di zucchero, e sono tornato in giardino. Niente da fare: né i
miei sandali, né i miei bermuda verde scuro erano stati sufficienti per
convincere la temperatura ad alzarsi a un livello accettabile per un 19 di giugno.
Dall'orto arrivavano i rumori della zappa
di Chris, che probabilmente era già all'opera da più di un'ora.
Geneviève è uscita di casa mentre la macchina di Elka scendeva
dalla collina e le due se ne sono andate come ogni mattina a fare una
nuotatina nelle acque gelide di Shadow Lake. È passato Eddie, quello
che sta aspettando l'arrivo della yurta che ha ordinato e per la
quale ha fabbricato una base di legno che assomiglia stranamente a un
eliporto perfettamente incongruo nel verde del Vermont.
Ormai
erano le 7 passate. È uscita Erin, con una borsa in spalla e degli
occhiali da sole dietro i quali si indovinavano, dalla camminata
strascicata, due occhi ancora avvolti dai fumi del sonno. “Hi,
Erin”. “'Morning, Massimo”. Le ho chiesto dove stesse andando.
Mi ha risposto che andava a correre fino a Shadow Lake per fare un
bagno. Ho tenuto per me le considerazioni che mi hanno immediatamente attraversato
il cervello circa la pazzia maniacale di
molti americani sul fatto di tenersi in forma .
Dal
sentiero è arrivata Suzie, la
texana-sorridente-con-cappello-di-paglia. L'ho salutata
canticchiandole le prime note di Wake
up little Suzie
degli Everly
Brothers,
1958 (se non la conosci, vergognati e poi vai qui).
Suzie mi ha abbracciato come se fossi la nonna che non vedeva da sei
anni e otto mesi, cioé da quando era stata arrestata per vendita
illegale di pubblicazioni oscene a bambini di terza elementare della
periferia chic di Houston. Ho fatto del mio meglio per rispondere
all'abbraccio senza versare sul suo pur modesto posteriore la minima
goccia di caffé bollente. Suzie si è allontanata sorridendo al
mondo intero. Io sono tornato in casa.
In cucina adesso c'erano Sam
(nomignolo che sta per Samantha), Alex, la bionda del Canada, e Gabe.
Sam si stava preparando tre uova al tegamino. Siccome le uova vengono
direttamente dal pollaio dietro l'orto e sono prodotte da galline che
starnazzano felici e ignare del loro ineluttabile destino, hanno
naturalmente un tuorlo di un giallo da fare invidia a Van Gogh e sono delle bombe alimentari con un contenuto di proteico
tale da soddisfare i bisogni quotidiani di un giocatore di rugby in
piena attività. Qui sono in molti a prepararsi tre uova al tegamino
ogni mattina, roba anche questa da provocare suicidi per disperazione
di orde di dietologi. Ho notato che Lily se ne fa quattro,
strapazzate, che poi si divide col figlioletto di poco più di tre
anni in parti appena leggermente disuguali. Da galera.
La
mia tazza I❤NY
conteneva ancora una dose di caffé sufficiente per una famiglia di
sette persone. Mi sono tagliato una fetta di quel bel pane scuro che
Peter sforna due volte alla settimana, l'ho spalmata di uno spesso
strato di burro di arachidi e di uno più sottile di marmellata di
mirtilli e l'ho addentata con gusto. In cucina è entrata …... (il
cui nome tacerò per compassione) che, pur passandomi davanti a meno
di un metro si è ben guardata dal rispondere al mio saluto. Non è
che ce l'abbia con me, è semplicemente una di quelle indisponenti
persone che non capirà mai che rispondere a un saluto mattutino non
implica alcun rischio maggiore per la salute.
Sono uscito sulla veranda e mi
sono seduto sul divano continuando a masticare. A un certo punto è
passata una macchina, il che è sempre un po' seccante quando stai
guardando gli alberi e ascoltando il cinguettio degli uccellini
sentendomi in vena bucolica. Ho sopportato in silenzio, sorseggiando
caffé.
Finalmente era arrivato il
momento della prima sigaretta del giorno, per gustare pienamante la
quale ero stato attento a lasciare nella tazza una dose sufficiente
di beverone al calzino usato.
Momenti
di satori.
Finita
la sigaretta, sono andato a sciacquare I❤NY
e sono tornato in camera per buttar giù questo post.
Ormai sono le nove meno dieci.
Giusto il tempo di andare a darmi una lavatina corporea e di
strigliarmi i denti prima della riunione mattutina e dell'inizio
delle prove.
Ma tu non preoccuparti: quando avrò
altre cose importanti da farti sapere non mancherò di scriverti.