Jim Al-Khalili, fisico ed ex-presidente della British Humanist Association
Lo
stesso vale per il francese, mentre l'inglese ci offre un'altra
possibilità, quella della parola “humanist.”
“Humanist”
non è traducibiole con umanista. Dovrebbe esserlo, ma non lo è. In
italiano un umanista, secondo il vocabolario Treccani, è un
insegnante di lettere classiche, oppure un rappresentante
dell'umanesimo del XV e XVI secolo.
A
me secca sempre molto definirmi ateo, proprio per via di quella a
iniziale, perché non ho per nulla la sensazione di mancare di
qualcosa. Mi pare che sia chi “crede” che dovrebbe essere definito
teista. E lo dico senza nessuna acrimonia. Che qualcuno “creda”
in una potenza soprannaturale non mi dà fastidio. Tutt'al più mi fa
sorridere, come mi fanno sorridere gli oroscopi, le predizioni di
Nostradamus, o la psicanalisi.
Lo
sviluppo della scienza, ovvero della conoscenza, fa sì che, secondo
tutti i dati disponibili, ci siano nel mondo sempre meno teisti e
sempre più “humanist.” Che poi varie religioni tendano oggi a
un'indiscutibile radicalizzazione, mentre altre vanno diluendosi è
un altro discorso. Il cammino verso un non teismo maggioritario è
ancora lungo, ma appare sempre più inesorabile. Da secoli le
religioni tentano di contrastarlo, insistendo sulla correlazione, del
tutto mendace, tra religione e morale, come se le due cose fossero
intrinsecamente legate l'una all'altra. Lo fanno mettendo da parte la
storia di tutte le guerre di religione, dei placet pontifici alle
Crociate, alla schiavitù, alla conversione forzata, all'esclusione
dei non credenti. Lo fanno difendendo la sacralità del matrimonio,
la superiorità degli scritti “divini” sulla scienza,
impadronendosi sfacciatamente di concetti come la compassione, la
pietà, o l'amore, arrampicandosi sui vetri della pseudo
compatibilità tra l'idea di creazione divina e teoria
dell'evoluzione. Lo fanno, almeno per quanto riguarda il
cristianesimo, ingoiando un rospo dopo l'altro, affermando che ciò
che è scritto nero su bianco nel loro libro sacro — e che è
contrario all'evidenza scientifica — va preso in senso allegorico,
mentre per secoli ce l'avevano venduto come verità assoluta.
Discutere
di religione con un teista può essere faticoso. Prima o poi viene
sempre fuori che loro, i teisti, Dio lo “sentono” nel cuore. Non
importa che quel sentimento non sia dissimile da molti altri,
altrettanto indimostrabili ed errati. Non abbiamo tutti “sentito”
per millenni che il Sole girava intorno alla Terra? Che pregare per
la pioggia aveva un senso? Che il cuore era il centro dei sentimenti?
Che il coraggio ci veniva dal fegato? Che i lampi li scagliava Zeus?
Che il passaggio di una cometa era un segno divino? Che la “fortuna”
e la “sfortuna” decidevano almeno in parte delle nostre vite? Non
abbiamo dato per millenni importanza a mille altre baggianate che la
conoscenza scientifica ci ha insegnato poco per volta a trattare come
superstizioni? Eppure non c'è niente da fare: il bisogno di
aggrapparsi a spiegazioni facili quanto illusorie resta ancora una
caratteristica della nostra specie. È un danno collaterale della
nostra evoluzione. Ma se consideriamo la relativa giovinezza
dell'homo sapiens, visto che 2 o 300.000 anni sono davvero poca cosa
davanti agli 85 milioni di anni dell'esistenza dei mammiferi, quel danno collaterale appare
solo come un problema adolescenziale. Il teismo è l'acne giovanile
dell'homo sapiens.
Due
sondaggi della Gallup, uno del 2005 e uno del 2012, che hanno
raccolto le opinioni di più di 50.000 persone in 57 paesi del mondo,
offrono informazioni interessanti.
-
Innanzitutto,
il 59% degli intervistati si dichiara religioso, il 23% non
religioso e il 13% ateo. Già queste cifre dovrebbero fare
riflettere tutti quelli che credono che il teismo sia una specie di
componente genetica dell'essere umano.
-
La religiosità è più presente tra i poveri e diminuisce man mano che il benessere aumenta — e questo è vero sia mettendo a confronto paesi poveri e paesi ricchi che individui appartenenti ai ceti poveri o ricchi in uno stesso paese.
-
In soli sette anni, il numero di persone che si dichiarano religiose è diminuito nel mondo del 9%, mentre quello degli atei è aumentato del 3% (rispettivamente 1% e 2% in Italia).
-
Nel 2012 i tre paesi più religiosi erano Ghana, Nigeria e Armenia, mentre i tre meno religiosi erano Cina, Giappone e Repubblica Ceca. Le tre regioni mondiali più religiose erano l'Africa (89%), l'America Latina (84%) el'Asia del Sud (83%). La meno religiosa era l'Asia del Nord (17%), seguita dall'Asia dell'Est (39%) e dall'Europa Occidentale (51%).
Tutti
i risultati li trovi qui:
https://sidmennt.is/wp-content/uploads/Gallup-International-um-trú-og-trúleysi-2012.pdf
Purtroppo
noi — tu che leggi e io che scrivo — non ci saremo più da molto
tempo quando i nostri lontani discendenti racconteranno con un
sorriso che i loro avi credevano nell'esistenza di esseri supremi. Lo
faranno sorridendo, nello stesso modo in cui noi oggi sorridiamo alla storia di
Giosuè che chiede a Dio di fermare il Sole durante durante la
battaglia di Gerico, o a quella, parallela, di Krishna che fa
risorgere il Sole già tramontato durante la battaglia di
Kurukshetra. Non che quelle storie non abbiano una loro bellezza e un
loro valore mitologico. Forse i nostri avi continueranno a
raccontarle. Magari non racconteranno più che la donna è stata
creata dalla costola di un uomo, o che un profeta ha cavalcato un
cavallo alato che gli ha fatto fare in una notte i 1500 chilometri
dalla Mecca a Gerusalemme. Chissà…
Ma non è solo per ottimismo
che credo che un giorno (lontano) non ci saranno più religioni. Lo
credo perché sono sicuro che alla lunga la ragione, la scienza e la
conoscenza ci permetteranno di liberarci dagli orpelli delle
superstizioni che troppo spesso ci impediscono ancora di comportarci
da mammiferi davvero ragionevoli e ragionanti. Non è perché il
cammino è lungo che si deve rinunciare a percorrerlo.