Ognuno si commuove come può. Io stamattina mi sono commosso leggendo un libro. Non era un romanzo strappalacrime, né la biografia di un povero cristo che aveva molto sofferto. Non era nemmeno un libro di storia – lo dico perché ho
sempre presente una frase di Kurt Vonnegut: la
Storia: leggila e piangi.
Era
un libro di astrofisica. A pagina 189 ho letto:
Pianeti
(1028
grammi), stelle (1033
grammi), galassie (1044
grammi), ammassi di galassie (1045
grammi) e universo osservabile (1057
grammi) formano una gerarchia di masse che permette alla gravità di
manifestarsi in tutto il suo splendore.
Ciò
che mi ha commosso non è il fatto che qualcuno si sia preso la briga
di calcolare la quantità di grammi di un pianeta, di una stella, di
una galassia, di un ammasso di galassie o di tutto l'universo
visibile. Ciò che mi ha commosso è la straordinaria capacità di
sintesi della matematica, che con quattro piccole cifre, un 1, uno 0,
più un 5 e un 7 in apice, ci dà accesso a un numero che il nostro
cervello non è nemmeno capace di capire. Per dire 1057
dovremmo dire dieci milioni di miliardi di miliardi di miliardi di
miliardi di miliardi!
Pare
che piccole potenze matematiche (quadrati e cubi) fossero già
presenti su alcune tavolette babilonesi del -1.700, ma il primo a
scrivere le potenze come lo facciamo noi oggi è stato Cartesio, nel
'600. Anche tenendo buona la data babilonese, quei 1.900 anni sono uno
sputacchio rispetto alla durata della storia dell'umanità, meno di
un centotrentamillesimo (ho fatto il calcolo).
Comunque
sia, io davanti a cose così mi commuovo esattamente come davanti a
un affresco di Piero della Francesca o all'ascolto di un quartetto di
Schubert. E non importa se di matematica non ci capisco una mazza e
se non sono nemmeno capace di risolvere un'equazione algebrica da
terza media, perché non sono neppure capace di disegnare una
bottiglia o di comporre una musichetta da niente.
Ci
sono stati due momenti nella mia vita, il primo una ventina di anni
fa e il secondo tre anni fa, nei quali da un giorno all'altro mi sono
trovato davanti al baratro. Sì, quel baratro là. Se me ne sono
venuto fuori entrambe le volte non è stato seguendo i consigli degli
amici che mi dicevano che dovevo farmi aiutare da qualcuno (bizzarro
eufemismo che molti usano, chissà perché, per evitare di dirti che
dovresti andare dallo psicanalista), ma andando a visitare musei,
ascoltando musica e leggendo. Solo che non leggevo romanzi o poesie
consolatorie, leggevo libri di fisica e di matematica.
Non
riesco a capire come e soprattutto perché il mondo in cui viviamo
sembri avere deciso una volta per tutte che bellezza ed estasi sono
riservate all'arte mentre la scienza dovrebbe accontentarsi del
semplice raziocinio. Rischio davvero di fare la figura dello strambo
se confesso che godo come un grillo a sapere che la luce del Sole ci
mette 8 minuti per arrivare sulla Terra o che il peso dell'aria al
livello del mare è di più o meno dieci tonnellate al metro quadro e
che noi non lo sentiamo perché è compensato dalla pressione interna
del nostro corpo? Io trovo strambi quelli che davanti a cose così
dicono vabbè. Peggio: provo una certa compassione.
Cristiddio!, come si fa a non commuoversi davanti a cose del genere?
Davvero è più normale commuoversi davanti alla Resurrezione
di Piero? O al secondo movimento della Fanciulla
e la morte di
Schubert? Io non trovo.
Forse
avrei dovuto nascere indiano. Gli indiani adorano i numeri, ci
sguazzano dentro come ippopotami nel fiume. Non solo sono da sempre
grandi matematici e hanno inventato sia i numeri «arabi»
che lo 0, ma
adorano anche semplicemente snocciolare numeri a più non posso.
Prendi il Lalitavistara
Sûtra,
testo buddhista del III secolo che abbiamo tutti su uno scaffale del salotto tra I promessi sposi e Cinquanta sfumature di grigio. Ci troviamo tracce di:
Riunioni
di diecimila religiosi, ottantaquattro milioni di Apsara,
trentaduemila Bodhisattva, sessantottomila Brahma, un milione di
Shakra, centomila dei, centinaia di milioni di divinità,
cinquecento Pratyeka-Buddha, ottantaquattromila figli di dei, poi
ancora trentaduemila e poi altri trentasei milioni di figli di dei e di
Bodhisattva, poi ottomilaquattrocento miliardi di miliardi di
divinità.
Non sottovalutiamo nemmeno che se avessimo finalmente incominciato a leggere la grammatica della lingua pâlî
che teniamo in bagno ci troveremmo anche i nomi di numeri pazzeschi:
107
= koti
1014
= pakoti
1021
= kotippakoti
1028
= nahuta
1035
= ninnahuta
1042
= akkhobhini
1049
= bindu
1056
= abbuda
1063
= nirabbuda
1070
= ahaha
1077
= ababa
1084
= atata
1091
= sogandhika
1098
= uppala
10105
= kumuda
10112
= pundarîka
10119
= paduma
10126
= kathâna
10133
= mahâkathâna
10140
= asankhyeya
Altro
che i miseri 1057
grammi dell'universo visibile! Davvero commovente.
Ma siccome mi capita di commuovermi anche davanti a un buon caffè, mo'
ti lascio e vado a farmene uno.