venerdì 27 marzo 2015

Senza chiasso

Maschera di donna vietnamita
Bread and Puppet Theater

Spero che Michele Serra non me ne vorrà se pubblico qui il testo integrale della sua Amaca di ieri mattina, ma il fatto è che il resto del mio post non sarebbe comprensibile senza questa previa lettura.

Non condivido una virgola di quanto pensa, a proposito di “famiglia”, il movimento delle Sentinelle in Piedi, scrive Serra. Ma è molto suggestiva la modalità della loro presenza pubblica: silenziosa, composta, con un libro in mano. Inevitabile il contrasto con le contromanifestazioni, in genere variopinte e chiassose. Si coglie, di primo acchito, la contrapposizione tra l'estroversione e la vitalità dei movimenti gay e anti-omofobi, in rappresentanza di milioni di persone per secoli costrette al silenzio e all'occultamento di sé; e la compunzione un poco penitenziale delle Sentinelle, che richiama, in chi ha ricevuto un'educazione cattolica, la ritualità non allegrissima nella quale è cresciuto. Ma c'è anche una seconda lettura di quel contrasto, che lentamente ma inesorabilmente si sta sovrapponenedo alla prima: il silenzio e l'atto di leggere finiscono per essere, alla lunga, più incisivi del fracasso, più “drammatici”, più comunicativi. E soprattutto: più anticonformisti. Niente è più conformista del baccano e del dileggio degli altri. Hanno fatto il loro tempo. A fronteggiare le sentinelle ci vorrebbero altre figure silenziose e leggenti (magari con in mano Jean Genet, Voltaire, Henry Miller, Pasolini e altri autori “degenerati”) per vedere chi resiste più a lungo. Oppure la parodia intelligente, come il ragazzo che a Bergamo si unì alle sentinelle travestito da “nazista dell'Illinois”, con Mein Kampf in mano. Le Sentinelle, per l'occasione, hanno chiamato la Digos: un travestito è pur sempre un travestito.

Il trafiletto di Serra mi vede d'accordo con ognuna delle sue parole. Ma se mi è venuta voglia di scrivere questo post è perché quelle parole mi hanno fatto tornare alla mente qualcosa che successe molti anni fa.
Il 18 dicembre 1972 Richard Nixon diede inizio a una breve ma pesante serie di bombardamenti sul Nord Vietnam e in particolare sulla capitale, Hanoi. I bombardamenti andarono avanti fino al 24 dicembre, poi furono sospesi per tre giorni, per riprendere in seguito il 28 e il 29. Trattandosi del periodo natalizio, quei bombardamenti, che fecero molte vittime tra i civili, suscitarono grande scalpore negli Stati Uniti, paese tradizionalmente molto attaccato alle feste cristiane.
Io in quel periodo ero nel Vermont con il Bread and Puppet e ricordo il grande scalpore suscitato da quegli avvenimenti non solo in tutti noi oppositori alla guerra in Vietnam, pacifisti, hippies, militanti, democratici, o comunque uno ci volesse definire, ma anche in una fetta ben più larga della popolazione.
Io ne fui così colpito che decisi di fare qualcosa, pur conscio che quel qualcosa sarebbe stato solo una goccia d'acqua persa nell'oceano. Così mi misi ad andare, giorno dopo giorno, a Montpelier, la capitale del Vermont, distante una quindicina di chilometri dalla fattoria dove abitavo con il resto del Bread and Puppet. Ci andavo poco prima di mezzogiorno, in autostop, portandomi dietro un costume nero (gonna lunga fino ai piedi e casacca nera con cappuccio, una maschera di donna vietnamita e un cartoncino bianco legato a uno spago, sul quale c'era scritto VIETNAM). Arrivato a Montpelier, andavo nella via principale, opportunamente chiamata Main street. Lì, su un piccolo spiazzo, quelli del Comune avevano messo un presepe i cui personaggi erano di taglia umana. C'erano Giuseppe e Maria, con tanto di bue, asinello e qualche pastore, dentro un piccolo recinto. Io mi infilavo maschera e costume, mi mettevo il cartellino intorno al collo, scavalcavo la piccola barriera che proteggeva il presepe e me ne stavo lì immobile, in mezzo alle statue, per un'ora, da mezzogiorno all'una, a significare la presenza del Vietnam in piene celebrazioni natalizie. Poi, quando sentivo scoccare l'una, mi toglievo maschera e costume e me ne andavo al caffé di fronte a bermi una cioccolata calda, visto che la temperatura esterna andava da -5° a -15° a seconda dei giorni e che starsene lì immobile per un'ora, pur con due paia di calzettoni, tre golf sovrapposti e delle lunghe mutande di lana non era cosa. Va detto che a quei tempi gran parte della popolazione locale era pro-Nixon e che al mio arrivo nel caffè c'era sempre qualcuno che rideva alle mie spalle. Ma siccome il Vermont è uno stato fondamentalmente rurale e siccome chi ci vive sa bene cosa vuol dire starsene al freddo, quelle prime prese in giro si trasformavano rapidamente in conversazioni nelle quali traspariva un certo rispetto nei miei confronti, rispetto verso uno che se n'era stato immobile per un'ora in una temperatura polare, pur se per motivi con i quali non si era d'accordo. E così si apriva un dialogo.
Successe poi che già il terzo o quarto giorno qualcuno, vedendomi regolarmente trasformato in statua del presepe, decise di unirsi a me, standosene lì in piedi, accanto al recinto, per affermare così la sua solidarietà. In breve le persone diventarono due, poi tre, fino a quando me ne ritrovai un certo numero sia a destra che a sinistra.
Un giorno però si avvicinò un pick-up che parcheggiò proprio lì davanti. Attraverso gli occhi della maschera notai subito la sua strana targa, che era una di quelle, personalizzate, che si possono ottenere a pagamento negli USA. Invece dei soliti numeri e cifre, la targa portava la scritta NIXON. "Guai in vista", mi dissi. 
Dal pick-up scese un ragazzo di una trentina d'anni. Senza degnarmi di un'occhiata salì sulla parte posteriore del veicolo, tirò fuori un grande cartello sul quale aveva scritto non so più cosa a favore di Nixon e dei bombardamenti in corso e si mise a fare ciò che facevo io, cioè niente. Se ne stette lì, immobile, a fronteggiarmi.
Dopo qualche minuto, guardando il riflesso sulle vetrine del bar, vidi che si stava formando un piccolo capannello. C'era gente che guardava per qualche istante e poi se ne andava via, ma altri si fermavano, chi prendendo posto di fianco a me, chi di fianco al pick-up. Quando sentii scoccare l'una mi dissi che naturalmente non potevo essere il primo ad andarmene e continuai a starmene lì, immobile. 
Cominciò allora una lunghissima attesa: io aspettavo che se ne andasse quello del pick-up, lui aspettava che me ne andassi io. Ad un certo punto arrivò qualcuno con un thermos, offrendomi del te caldo. Io non mi mossi, lui insisteva. Allora feci segno con la mano di offrirne prima al mio “avversario”, che però rifiutò, dicendo “prima lui”. Non so quanto la cosa andò avanti, credo più di un'ora. Ormai erano decine le persone dalla mia parte, mentre quelli che ci facevano fronte erano molto meno numerosi. Finalmente quello sul pick-up decise di andarsene, forse non sopportando più il freddo, davvero pungente, e rapidamente se ne andarono anche i suoi sparuti sostenitori. Io aspettai ancora qualche minuto, poi mi tolsi maschera e costume. Tutti quelli che erano rimasti lì con me vennero uno per uno a stringermi la mano. Alcuni se ne andarono, altri vennero con me a scaldarsi dentro al caffè.
Nei giorni successivi non successe più nulla, ma i partecipanti alla mia manifestazione silenziosa diventarono decisamente più numerosi.
Non mi sarei mai aspettato, tanti anni dopo, di vedere quel mio statuario modo di protestare — che qualche mese dopo misi in atto anche a New York, di fronte all'ufficio di reclutamento dei Marines sull'isoletta pedonale in mezzo a Times square — riinventato da persone così lontane dal mio modo di vedere e di agire. Ma il trafiletto di Serra, facendo riemergere quei ricordi, mi ha fatto anche pensare all'inadeguatezza dei mezzi spesso impiegati dalla “sinistra” per rispondere alla bigotteria e al conservatismo di gente come le Sentinelle in Piedi; gente attaccata a valori di esclusione e di rifiuto della diversità, gente abbarbicata a ideologie (religiose e non) che non ammettono dialogo né scambio, che demonizzano sistematicamente chi pensa o agisce diversamente, che negano senza esitazione la dignità altrui. Forse, se venissi a sapere in anticipo di una prossima manifestazione delle Sentinelle, dovrei davvero fare ciò che suggerisce Serra, fabbricarmi un grosso libro di cartone con su scritti i nomi di Genet, Voltaire, Miller e Pasolini, ai quali aggiungerei volentieri Vonnegut, Ginsberg, Gertrude Stein e qualche altro, e dovrei andarmene in piazza, accanto a loro, e starmene lì, immobile, per tutto il tempo necessario. Senza fare chiasso.

giovedì 26 marzo 2015

Di cose importanti

Una cosa qualunque

Molti anni fa mi svegliai da un pisolino schiacciato in treno con una parola in testa. Di primo acchito non seppi se quella parola l'avessi inventata, o se il mio cervello, avendola sentita chissà dove e chissà quando, avesse poi deciso di metterla in uno di quei suoi ordinatissimi cassetti dal quale il mio pisolino ferroviario l'aveva, per qulche oscuro motivo della psiche, tirata fuori. Ebbi così paura di dimenticarla che me la scrissi subito su un fogliettino trovato in tasca, forse sullo stesso biglietto del treno, e dovetti poi aspettare di arrivare a casa per sapere se la parola esistesse oppure no.
Esisteva. La parola era perequazione.
Stamattina mi sono svegliato verso le 6 con un'altra parola in testa e questa volta non ho avuto bisogno di scomodare i discendenti del Senatore Treccani per sapere che quella parola non esiste.
Anche se è un peccato che non esista, perchè dice qualcosa che nessun'altra parola dice. La parola è cosità.
Che cos'è la cosità di qualcosa? Mi pare ovvio: la cosità di una cosa è l'insieme degli elementi materiali che fanno di una data cosa la cosa che è, ad esclusione di tutti gli elementi immateriali, affettivi, culturali, ecc. Lo stesso vale per le cose animate, dal batterio in su, che appartenengano al regno vegetale, come una foglia di rosmarino o una sequoia californiana, oppure al regno animale, come un moscerino o un'olgettina.
Lo so, la nozione di cosità può apparirti strana, ma pensaci un istante. Anzi, no: guardati attorno e scegli un oggetto qualsiasi. Adesso guardalo pensando a cosa mai potrebbe essere la sua cosità.
L'hai fatto? Allora sono sicuro che hai perfettamente capito. È così evidente!
Adesso guardati la mano. Una qualsiasi, destra o sinistra, non importa. L'importante è che tu tenga in mente l'idea di cosità.
Non è lampante?
Benvenuto nel mondo della cositologìa, scienza così indispensabile che era ora che qualcuno la inventasse.
Fatto questo, non mi sono però fermato. Come avrei potuto? È ovvio che altri concetti sono stranamente assenti dal nostro pur nutrito vocabolario italiano che, almeno nella versione Treccani comprende circa 800.000 lemmi, anche se poi ne usiamo solo 7.000 nel linguaggio corrente (250 se siamo olgettine).
Prendiamo per esempio la cositopatìa, ovvero quella sottile disfunzione psicologica che spinge chi ne è affetto a considerare le cose, inanimate e animate, solo sotto l'angolo della loro cosità, trascurandone tutti gli altri aspetti. Es.: per un cositopata, una pala dipinta da Piero della Francesca è un pezzo di legno ricoperto da pigmenti colorati, mentre Carlo Rubbia è un insieme di materie organiche semoventi.
Nota bene: mai confondere cositopatìa e cositofilìa! Mentre la cositopatia è la malattia che impedisce di vedere al di là della cosità delle cose, la cositofilia è definibile come l'eccessivo attaccamento a quella stessa cosità. Comportamenti tipici del cositofilo sono il collezionismo, il feticismo, lo shopping compulsivo, l'accumulo di oggetti inanimati (o, se animati, ridotti allo stato di cose vedi olgettine), l'attraversamento col rosso di un trafficatissimo incrocio urbano provocato dall'incontrollabile ammirazione per una Flavia Coupé Pininfarina del '64 che passa di lì per caso (con conseguemente spetasciamento corporeo da parte di un tram), ecc. Ovviamente in caso di cositofilia acuta è consigliabile rivolgersi a uno specialista di malattie cositologiche.
Al contrario, esiste la cositofobìa, altra malattia che può diventare grave se non curata. Cositofobi sono gli eremiti, gli anacoreti, gli asceti, i cenobiti, i monaci di clausura e tutti coloro che celano la loro paura delle cose (e/o della loro cosità) dietro paraventi di nobili princìpi, cadendo in uno stato di perenne cositopatìa.
Altro concetto fondamentale è il cositismo, ovvero quella scuola di pensiero che attribuisce alla cosità un valore trascendente e pseudo-scientifico, fino a farne un'ideologia. Il cositismo, alla stessa stregua di tutti gli -ismi (comunismo, fascismo, spiritualismo, ecc.) può diventare estremamente pericoloso quando viene eretto a verità assoluta (cosciente, ma il più delle volte incosciente), oppure, il che è ancora peggio, a dottrina. Basti pensare alla base ideologica del capitalismo moderno, che altro non è che una sorta di estremizzazione del cositismo, tendente a far credere a noi tutti che l'importante nella vita è acquistare, possedere, accumulare e consumare cose alla cosità delle quali vengono attribuite qualità trascendentali (il che costituisce un ossimoro tanto ovvio quanto fuorviante).
Più lieve dal punto di vista patologico è la cositomanìa, affezione blanda, ma che, se non tenuta sotto controllo, rischia poi sempre di trasformarsi in cositopatia. Dicesi cositomaniaco colui che si circonda di piccole cose inutili che lo attraggono per la loro cosità, indipendentemente da ogni considerazione estetica o utilitaria. Il cositomaniaco non cerca un'affermazione sociale, né un'intima sicurezza, né tantomeno una soddisfazione estetica nell'accumulo di cose: le accumula semplicemente perché è incapace di non accumularle. Nota bene: il cositomaniaco non sempre può dirsi affetto da cositopatia, visto che talvolta riesce a vedere al di là della cosità delle cose. Ma per lui non è la cosità che conta, bensì la cosa.
Mi accorgo però che, pur avendo citato la cositologia, non ne ho ancora dato una definizione soddisfacente. E allora eccoècquà: dicesi cositologia la scienza che studia la cosità delle cose attraverso l'esame delle loro strutture atomiche, del loro aspetto, della loro consistenza e di tutti gli aspetti materiali che le definiscono.

E va bene. È chiaro che potrei andare avanti parlando di scuole di pensiero cositista, o esaminando gli elementi cositisti della filosofia platonica o dell'esoterismo ebraico. Ma non ne sento il bisogno. So che ora che ti ho messo nel cervello l'idea di cosità non te ne sbarazzerai così facilmente. Anzi, già ti stai chiedendo come parlarne ad altre persone e già ti chiedi come tradurre cosità per quel tuo amico francese (chosité), per quella tua collega guatemalteca (cosidad), o per la colf filippina che paghi in nero e che parla solo inglese (thingness).
E poi, per dirti tutta la verità, sono ormai quasi le 9 e non vorrei che le mie due bariste preferite, Natàlia e Fabiola (giuro che è vero) incominciassero a preoccuparsi della mia assenza. Quindi ti saluto e vado a farmi il mio solito caffé mattutino.

martedì 17 marzo 2015

Di Giotto

Giotto (forse)

Non so bene perché, ma mi è venuto in mente Giotto.
Giotto (1267-1337) faceva il pastore nel Mugello. Sorvegliava le pecore e siccome si annoiava come un topo morto e non aveva oggettivamente la possibilità di giocare con un telefonino, un giorno incominciò a disegnare delle pecore sulle pietre con dei pezzetti di carbone.
Un altro giorno, probabilmente qualche anno e molte pecore disegnate dopo, arrivò un tipo che aveva deciso di fare una passeggiata in campagna (era domenica). Il tipo, che era uno dei migliori pittori del suo tempo, si faceva chiamare Cimabue (c. 1240 -1302), che come nome non è un granché, ma che lui trovava meglio del suo vero nome, Cenni di Pepo. Questione di gusti.
Cimabue vide il pastore e si avvicinò.
Cosa fai, pastore?, gli chiese.
Sorveglio le pecore, rispose Giotto.
Ma no, sulle pietre, cosa fai?
Disegno delle pecore.
Cimabue guardò più da vicino e impallidì.
Maremma maiala!, si disse; questo pastore disegna meglio di me.
E decise di insegnargli a dipingere.
O almeno così va la leggenda.
Giotto non aveva chiesto niente. Si annoiava come un topo morto dal mattino alla sera a sorvegliare le pecore, mangiava solo pane duro e pecorino, ci credo che quando Cimabue gli ha detto che voleva aiutarlo a diventare artista è stato contento!
Ma non divaghiamo e andiamo avanti con un'altra storia, sempre a proposito di Giotto.
Questa racconta che un mattino un Papa, non so più se Bonifacio VIII (1235-1303), Benedetto XI (1240-1304), Clemente V (?- 1333), oppure Giovanni XXII (1245-1333), si svegliò e si disse:
Mi piacerebbe farmi fare un bell'affresco nuovo su quel muro del mio palazzo che è tutto bianco e mi piacerebbe che a farmelo fosse il miglior pittore disponibile sul mercato.
Allora si alzò e incominciò a chiedere a quelli che gli stavano intorno, che erano tanti, chi fosse il miglior pittore disponibile sul mercato. Vari vescovi, cardinali, diaconi e persino una suora gli dissero che era Giotto.
Il Papa allora chiamò un Cardinale, uno qualsiasi tra quelli che non avevano niente da fare e gli disse:
Cardinale, devi andare da questo Giotto. Digli che il Papa vuole vedere un suo quadro perché ha un lavoro da far fare al miglior pittore disponibile sul mercato e ha bisogno di sapere se quel pittore è lui.
Il Cardinale s'inchinò, baciò l'anello del Papa e si mise in cammino. Dopo qualche giorno trovò Giotto, che se ne stava in piedi su un'impalcatura dentro una chiesa ed era occupato a dipingere un affresco di Giotto.
Sei tu Giotto?, chiese il Cardinale.
Mmmmh, annuì Giotto che non poteva parlare perché aveva un pennello tra i denti.
È Papa Bonifacio (o Benedetto, o Clemente, o Giovanni) che mi manda. (Nessuna reazione di Giotto). Vuole vedere uno dei tuoi quadri. (Niente). Vuole sapere se è vero che tu sei il miglior pittore disponibile sul mercato.
Alla terza frase del Cardinale, Giotto finì col voltarsi e lo guardò come si guarda un Cardinale da sopra un'impalcatura.
È Sua Santità che ti manda, disse su un tono più affermativo che inquisitore, dimenticando che aveva un pennello in bocca e facendoselo infatti cadere sui piedi.
Sì, rispose il Cardinale.
E vuole vedere uno dei miei quadri, aggiunse Giotto raccattando il pennello che gli aveva macchiato di azzurro la scarpa sinistra.
Sì, per sapere se è vero che tu sei il miglior pittore disponibile sul mercato, concluse il Cardinale che incominciava a spazientirsi.
Giotto fece allora una di quelle pause artistiche che solo gli artisti sanno fare. Poi, con calma, disse:
Aspetta, scendo.
E scese.
Una volta a terra guardò il Cardinale negli occhi e gli disse:
Guarda bene ciò che sto per fare e non dimenticarti di spiegarlo poi precisamente a Sua Santità.
Detto questo, preso un grande foglio di carta e un carboncino — le matite non erano ancora state inventate —, appoggiò il foglio su un tavolo, respirò profondamente e hop!, con un gesto solo ci tracciò sopra un cerchio perfetto a mano levata.
Tieni, disse al Cardinale porgendogli il foglio, che intanto aveva arrotolato per renderlo più facile da trasportare. Portalo da Papa Bonifacio (o ...). Digli che è Giotto che l'ha fatto.
Il Cardinale si chiese se il pittore lo stesse prendendo per i fondelli, ma vedendo che quello era già tornato sull'impalcatura e aveva ricominciato ad affrescare, nel dubbio decise cristianamente di non insistere e se ne tornò a Roma. Lì chiese udienza al Papa, che gliela accordò.
Allora, hai visto questo Giotto?, chiese il Papa.
Sì, Vostra Santità, rispose il Cardinale.
E ti ha dato uno dei suoi quadri affinché Noi possiamo capire se è vero che è lui il miglior pittore disponibile sul mercato?, insistette il successore di Pietro (c. 3-64).
In un certo senso, sì, mormorò imbarazzato il Cardinale che incominciava a chiedersi se non avesse commesso una terribile imprudenza accettando quel foglio di carta con su un cerchio disegnato a carboncino.
Fammi vedere, disse il Papa su un tono che non ammetteva indugi.
Il Cardinale fece tre passi e srotolò il foglio di carta. Il Papa guardò il foglio, poi guardò il Cardinale.
L'ha fatto con un gesto solo, a mano levata, disse il Cardinale.
Mmmh, disse il Papa.

Può sembrare strano, ma non ho mai saputo la fine di questa storia. Ho chiesto a molti, negli anni: tutti conoscevano la storia della O di Giotto, ma nessuno sapeva dirmi con certezza se poi il Papa avesse ingaggiato il pittore oppure no, anche perché a Roma di dipinti di Giotto non ce n'è manco uno.
Cosa ci insegna questa storia e cosa ci insegna il fatto che nessuno ne conosca la fine? Varie cose, che mi pare importante enumerare:
  1. che Giotto aveva capito che uno può avere dipinto le più belle cose del mondo, ma se poi gli capita un Papa con il cervello vuoto come una puntata di X Factor, non farà mai il pittore in Vaticano;
  2. che se invece a uno capita un Papa che nel cervello ha qualcosa, allora può stare tranquillo perché quel Papa lì riconoscerà il miglior pittore disponibile sul mercato anche solo vedendo una cosina fatta di fretta;
  3. che se conoscessimo la fine della storia, allora questa sarebbe solo un po' di propaganda per l'arte o per la Chiesa (a seconda...), mentre così uno può pensarci su da solo e trarne le conclusioni che vuole;
  4. che quando uno ha un pennello in bocca e non vuole rischiare di sporcarsi le scarpe di azzurro, è sempre meglio che non parli, ma questa è un'altra storia.
Ma soprattutto, quello che Giotto aveva già capito ai suoi tempi è una cosa che non sarebbe saltata fuori per altri sei secoli dopo la sua morte, fino al giorno in cui Marcel Duchamp (1887-1968) avesse detto in francese c'est le spectateur qui fait l'oeuvre. Che è una delle cose più importanti che qualcuno abbia detto nel XX secolo, anche se è in francese.
E adesso, soddisfatto di questo mio grande momento di analisi storico-artistica e contento di aver citato una delle frasi più importanti che qualcuno abbia detto nel XX secolo, vado a farmi un buon caffè.

mercoledì 11 marzo 2015

Tristezza Feltrinelli

La Feltrinelli di Santa Maria Novella

Era un po' che non avevo occasione di passare dalla stazione di Santa Maria Novella. Ci sono passato lunedì, per venire a Roma.
Mi ero organizzato con gli orari in modo da farmi un piatto di pasta al self-service della stazione prima di prendere un Frecciargento. Prima sorpresa: il self non c'è più. C'è sempre, chiaramente visibile, la scritta “self service” in perfetto stile vetero-italico-ferroviario, ma prima che un burocrate delle effesse (o comunque si chiamino adesso) si renda conto che quell'insegna non serve più a nulla, decida di farla togliere, chiami il servizio responsabile del toglimento delle insegne che non servono più, riempia i moduli necessari, li firmi, li timbri e li faccia poi pervenire, ovviamente non per via telematica, ma in originale, al servizio competente, passeranno moltissimi secoli.
Al posto del self-service c'è una Feltrinelli. Il che non è di per sé una pessima notizia, a parte per chi, come me, vorrebbe farsi una pasta prima di salire su un Frecciargento per raggiungere la capitale.
Un altro posto per mangiare a Santa Maria Novella c'è, ma è un orrido-stomachevole-viscido-disgustoso Mèchdonald. E non dico altro.
Ora, siccome la già nominata Feltrinelli, che si estende su ben due piani, è anche munita di bar che serve qualche panino (pochi) e qualche trancio di pizza (un po' di più), decido di soddisfare lì i miei bisogni nutritivi, additando a un'inserviente, il cui sesso ti è precisato dall'apostrofo che ne definisce le competenze, un trancio di pizza generosamente ricoperto da un onorevole strato di formaggio sul quale paiono affondare, tali rari nantes in gurgite vasto, degli sperduti frammenti di verde zucchina. La grigiovestita damigella mi porge l'oggetto delle mie brame, non senza averlo prima deposto su un piattino di carta addobbato da un elegante tovagliolino della stessa materia.
Pago, mi sposto verso il tavolono ligneo che costituisce l'unica possibilità di appoggio, afferro la pizzetta, la mordo e mi rendo immediatamente conto che la sua temperatura interna è simile a quella del sangue di un rettile in una notte d'ottobre. E vabbè, mi papperò una pizzetta fredda.
Masticando lo squallido cibo, mi guardo intorno e scopro che i muri della libreria portano, in rilievo, delle scritte che altro non sono che citazioni di autori vari. La prima che vedo è firmata Charlie Chaplin, ma la seconda (ah, la seconda!), che è molto più grande delle altre e che, oltre alla firma dell'autrice è accompagnata anche dal ritratto della stessa in formato gigante­ — a occhio e croce un metro e quaranta d'altezza per la sola faccia — mi provoca un'immediata caduta della mascella, accompagnata dalla rovinosa scivolata extra-boccale di un pezzo di pizza già biascicato, che prima mi rimbalza sulla maglietta e poi va a schiantarsi sulla punta della scarpa destra. La scritta dice: non stare troppo tempo a chiederti chi sei, cosa fai o cosa ti piace, sii solo felice!
A parte l'indiscutibile fatto che non credo di essere il solo ad avere smesso di stare troppo tempo a chiedermi chi sono, cosa faccio o cosa mi piace dai tempi dell'ultimo foruncolo di acne giovanile, la presenza di una massima così smaccatamente copiata da un cartiglio di Baci Perugina sul muro di una libreria Feltrinelli non può non provocare in qualsiasi individuo dotato di un minimo di ragione non solo una caduta mandibolare, ma, almeno nel caso di un individuo di sesso maschile, anche, in seconda battuta, una caduta testicolare che infatti mi fa immediatamente scivolare le ghiandole seminali al livello dell'orlo inferiore dei pantaloni.
Mi accingo già a raccattare zebedei e pizza biascicata, quando mi rendo conto che il faccione e la firma che accompagnano la citazione appartengono nientepopodimeno che a Amy Winehouse. Sì, Amy Winehouse, sulla produzione musicale della quale non ho granché da dire, siamo d'accordo, ma che, a meno che mi sbagli di grosso, era una nota alcolista nonché consumatrice di droghe di vario genere e tipo.
Ora, che il consiglio di pensare solo a essere felice mi venga da una nota alcolista nonché consumatrice di droghe di vario tipo deceduta a 27 anni con un tasso alcolemico di 416 mg. per 100 ml. di sangue (vedi rapporto del medico legale londinese) già è cosa che mi lascia basito almeno quanto la vista della distruzione di Sodoma e Gomorra lasciò basita, prima ancora che salificata, la moglie di Lot; ma che in più quel consiglio mi arrivi da una scritta sul muro di una libreria Feltrinelli è davvero troppo.
O tempora, o mores! mi verrebbe da scrivere se non avessi timore di sembrare un vecchio trombone rincoglionito.
Ma siccome non ho nessun timore di sembrare un vecchio trombone rincoglionito, scrivo volentieri: O tempora, o mores!
E perché mai tanto livore?, mi chiederai, incredulo lettore. Mo' te lo spiego.
Correva l'anno 1967. Era il mese di ottobre. Per non so più quale motivo, me ne andavo verso piazza della Scala, percorrendo via Brera, quando il mio sguardo fu attirato da un manifesto in bianco e nero incollato al muro, e poi da un secondo, e poi da un terzo, incollati un po' più in là. Il manifesto riproduceva la fotografia di un uomo barbuto, con i capelli lunghi e una barba rada, nonché un berretto basco in testa. L'uomo, dall'aspetto serio, sembrava guardare lontano e la foto, che era stata presa dal basso, dava subito l'idea che quello sguardo fosse rivolto al futuro.
Sotto la faccia dell'uomo una striscia bianca attraversava il manifesto in diagonale e sulla striscia appariva la scitta il Che vive! (non sono sicuro del punto esclamativo, ma mi pare che ci fosse). L'uomo era ovviamente Ernesto Che Guevara, ucciso il giorno prima nella foresta boliviana dai soldati del dittatore René Barrientos Ortuño. Diciamo la verità: io del Che non sapevo nulla. Però quella faccia mi colpì, da quel manifesto così diverso da tutti gli altri e con quella scritta per me esoterica. Nei giorni seguenti scoprii chi era il Che e seppi anche che quei manifesti li aveva fatti mettere Giangiacomo Feltrinelli, quello stesso editore che aveva fatto conoscere all'Occidente Il dottor Zivago e che sarebbe morto qualche anno dopo mentre metteva una bomba sotto un traliccio dell'alta tensione in provincia di Milano.
Ecco, sarò anche un vecchio trombone rincoglionito, ma per me il nome Feltrinelli è per sempre legato a quei ricordi, oltre che a un certo numero di libri letti con la sensazione di scoprire cose importanti, autori importanti, idee importanti. Ed ecco perché l'idea che un decoratore d'interni in cashmirino azzurro e scarpe finte Prada sia riuscito a convicere la stessa Feltrinelli ad attaccare al muro una citazione di Amy Winehouse in puro stile Baci Perugina mi riempie di infinita tristezza. Talmente che ancora adesso, a due giorni di distanza, non vedo altra possibilità che andare ad annegare quella tristezza in un buon caffé. Che per fortuna è sotto casa.

sabato 7 marzo 2015

Un po' di Georgia

La tomba di Galaktion Tabidze 
nel Pantheon del Monte Mtatsminda
 
Stamattina ascoltavo ancora una volta l'ultimo e bellissimo CD di Bob Dylan. Canzoni classiche, vecchi standard di Frank Sinatra. Così ho voluto ascoltare le versioni “originali” (tra virgolette perché Sinatra non è necessariamente stato il primo a cantarle), tutte facili da trovare su YouTube.
Una per una, ho ascoltato le stesse canzoni, anche se non per intero, prima cantate da Sinatra e poi da Bob Dylan. Come dire? Un abisso. Da un lato c'è senz'altro una bellissima voce, melodica e avvolgente; ma dall'altro c'è un'intensità pazzesca, un'emozione incredibile.
È perché ho 65 anni e che ho passato gli ultimi cinquanta con le canzoni di Dylan?
Può darsi.
È perché ho 65 anni e incomincio a rincoglionire?
Anche questo può darsi.
Ma mi piacerebbe che qualcun altro, più giovane e meno dylaniano di me, facesse la stessa prova e mi facesse poi sapere.
Detto questo, la ragione principale di questo post è un'altra. Mentre ascoltavo Dylan mi è venuto in mente un pezzo straordinario su un CD di Jan Garbarek, ma che con Garbarek non ha nulla a che fare. Il pezzo s'intitola The moon over Mtatsminda. La puoi ascoltare qui  e a dire il vero non so nemmeno io se consigliarti di ascoltarla prima di leggere il resto, o dopo. Vedi tu.
Intanto, qualche informazione.
Mtatsminda è il nome di una montagna della Georgia, che i georgiani considerano sacra perché sui suoi pendii visse l'eremita San David Garedzhi, che vi costruì una chiesa. La Georgia è uno dei più antichi paesi cristiani, visto che fu il re Marian III, nell'anno 330 a dichiarare il cattolicesimo religione di stato.
Il Monte Mtatsminda ospita il Pantheon degli scrittori e dei personaggi pubblici nel quale Stalin, nato a Gori, nel centro del Paese, fece pure seppellire sua madre. Più seriamente, il pantheon ospita oggi le tombe dei principali letterati georgiani.
L'autore della musica, nonché cantante e direttore d'orchestra di The moon over Mtatsminda, è Jansug Kakhidze. L'autore delle parole è Galaktion Tabidze. Siccome immagino che i nomi dei due siano altrettanto illeggibili e sconosciuti a te quanto lo erano a me prima di fare qualche ricerca, ecco alcune notizie supplementari.
Incominciamo da Galaktion Tabidze, grande poeta georgiano nato nel 1892. Non si sa bene perché, Stalin si limitò a farlo arrestare e torturare durante le grandi purghe degli anni '30, mentre fece uccidere molti dei suoi amici letterati, vari suoi parenti e mandò in Siberia sua moglie. Tutto questo risultò nell'alcolismo e nella depressione cronica di Tabidze, che fu poi rinchiuso in un ospedale psichiatrico nel quale finì col suicidarsi, buttandosi da una finestra, nel 1959. Il suo corpo riposa nel già citato pantheon di Mtatsminda.
Jansug Kakhidze, nato nel 1935 e morto nel 2002 è stato il più grande direttore d'orchestra del suo paese. Ha diretto orchestre in vari paesi d'Europa e in Australia ed era soprannominato il Karajan georgiano.
Jan Garbarek lo incontrò quando andò a Tbilisi per un concerto di musiche del compositore Giya Kancheli. Qualche anno dopo, il produttore discografico Manfred Eicher, fondatore della ECM, andò anche lui a Tbilisi e incontrò anche lui Jansug Kakhidze. Di ritorno a casa, disse a Garbarek che Jansug Kakhidze era stato operato al cuore e che durante la sua convalescenza aveva messo in musica una poesia di Galaktion Tabidze, che aveva poi registrato con l'orchestra sinfonica di Tbilisi, della quale era direttore. Di quella registrazione, Eicher aveva una copia, che fece ascoltare a Garbarek.
Ascoltando il pezzo ­— scrive lo stesso Garbarek sul libretto che accompagna il doppio CD Ritesfui così immediatamente colpito ed emozionato che spontaneamente dissi: “Possiamo metterlo sul mio album?” Al di là dalla sua assoluta bellezza, sentii quella musica vicina a me su più livelli. C'era qualcosa nel timbro della voce e nel modo semplice e diretto di cantare che mi ricordò fortemente il modo in cui cantava mio padre quando io ero bambino. Persino il fatto che il testo fosse in una lingua che non capivo evocò in me memorie di mio padre, che cantava nel suo polacco natale, che io purtroppo non ho mai imparato. E comunque il profondo senso di gioia e di gratitudine verso la vita che emana da quella performance era per me chiarissimo.
In Georgia, paese che i georgiani chiamano საქართველო, ovvero Sakartvelo, dal nome del mitico re Kartlos, ho avuto la fortuna di andarci con uno dei miei spettacoli, I tre moschettieri. In quell'occasione mi accorsi che il pubblico di Tbilisi conosceva il testo dei Moschettieri meglio di quello di Parigi. Stupito, ne chiesi la ragione e scoprii che Dumas è una specie di eroe nazionale per i georgiani fin da quando, in seguito a un viaggio nel 1858 e '59, scrisse parle elogiose su Tbilisi e sui suoi abitanti nel suo Il Caucaso – Impressioni di viaggio, pubblicato nel 1866. Eccone un breve estratto:
Quando arrivai a Tbilisi pensavo, lo ammetto, di arrivare in un paese semi-selvaggio, in un posto come Nouka o come Baku [città del vicino Azerbaigian]. Mi sbagliavo. Grazie alla colonia francese, composta in gran parte da sarte e mercanti di abiti e indumenti intimi parigini, le signore georgiane possono, entro una quindicina di giorni, seguire le mode del Théâtre-Italien e del boulevard de Gand [oggi boulevard des Italiens].
Vabbé, lo ammetto. Tutto questo interesse per la Georgia magari non ce l'avrei avuto se non fosse stato per una fidanzata georgiana di più di 25 anni fa, della quale ricordo non solo l'improbabile nome, Nino, ma anche altri particolari che nessun gentiluomo si permetterebbe mai di rivelare in un post. Ognuno ha i riferimenti culturali che può.
Se non l'hai già fatto, ascolta comunque questa meravigliosa canzone. È il mio piccolo regalo del giorno.
E, sempre se non l'hai ancora fatto, ascoltati pure l'ultimo CD di Dylan, Shadows in the night, che è una meraviglia.

giovedì 5 marzo 2015

Del virus della fede


Giovedì scorso mi riposavo in una camera d'albergo della provincia di Lucca in vista dello spettacolo della sera, quando ho visto le immagini dei farabutti del sedicente Stato Islamico che distruggevano a colpi di mazza e di martello pneumatico delle statue nel museo di Mossul.
L'indomani mattina, aprendo il giornale, ho letto dell'assassinio del blogger americano-bengalese Avijit Roy, massacrato in una via centrale di Dacca a colpi di machete. La sua colpa? Essere nato in una famiglia musulmana ed essere diventato ateo.
Mi ci sono voluti alcuni giorni per fare qualche ricerca e per essere sicuro di non scrivere “di pancia”, sotto l'emozione del momento.
Tengo a chiarire subito una cosa (qualora fosse necessario): non sono, né mi prendo per un politologo, un sociologo, uno specialista in strategia internazionale o in religione, e ancora meno un tuttologo. Sono solo un uomo indignato che cerca di evitare che la sua indignazione si trasformi in affermazioni approssimative e affrettate. Detto questo, andiamo avanti.
Credo ormai indiscutibile che ci troviamo oggi davanti a una vera esplosione del fanatismo religioso, in particolare nelle religioni monoteiste. Questo è vero nell'Islam, ma lo è anche nel Cristianesimo e nell'Ebraismo. Nelle sue Antimémoires del 1967, André Malraux scriveva che “le XXIème siècle sera spirituel ou ne sera pas”, traducibile con il XXI secolo sarà spirituale o non esisterà. Purtroppo Malraux si sbagliava: questo inizio di secolo non ci parla di spiritualità, ma di fanatismo e di integralismo monoteista. Il fanatismo islamista è in questo momento storico il più violento e spettacolare, quello che provoca più morti e distruzioni, ma non mi pare che il fanatismo cristiano o quello ebraico siano per questo da sottovalutare. Imposizione da parte di vari Stati nord-americani dell'insegnamento dell'evoluzionismo come una teoria, alla quale viene affiancata, con eguale dignità, la teoria creazionista; sviluppo dell'idea di un Occidente cristiano che sarebbe l'unico portatore di idee accettabili e che non si priva del diritto di cercare di esportarle attraverso l'uso sistematico di bombardamenti, guerre e invasioni; sostituzione sui dollari statunitensi della scritta E pluribus unum con In God we trust (1957); instaurazione in Israele di un sistema socio-politico che assomiglia sempre di più all'apartheid; presenza all'interno del governo israeliano di ministri appartenenti a formazioni religiose integraliste; islamofobia rivendicata apertamente da autorità politiche e religiose in varie parti del mondo; revisionismo storico tendente, secondo i casi, a sottovalutare gli aspetti negativi del colonialismo, o l'esistenza storica di genocidi; persistenza di analisi post-marxiste all'interno delle quali l'aspetto religioso è sistematicamente sottovalutato, aprendo così la breccia a nuovi fanatismi; aumento, in particolare grazie ai media, dell'invasione religiosa all'interno della sfera del privato; sviluppo esponenziale del missionariato nei paesi in via di sviluppo, in particolare da parte di sette cristiane; irrigidimenti ideologici basati su una scelta accurata di passaggi specifici delle “sacre” scritture a scapito di altri. Tutto questo non fa che esasperare dei conflitti che hanno, sì, anche delle basi economiche e politiche, ma che si nutrono di credenze religiose usandole come potenti leve in grado di smuovere e convincere milioni di individui, che senza quel supporto non si sognerebbero nemmeno di passare all'azione violenta.
I testi “sacri”: che si tratti dell'Antico, del Nuovo Testamento o del Corano, basta leggerli con un minimo di attenzione per accorgersi che ognuno di loro è una specie di gigantesco supermercato nel quale si può trovare di tutto e il contrario di tutto. Su un solo punto i vari testi sembrano in perfetto accordo: l'inferiorità della donna rispetto all'uomo. In Genesi 3:16, quando Dio maledice Eva dicendole: “verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà”, stabilisce una volta per tutte in maniera definitiva e irrevocabile il dominio dell'uomo sulla donna, spalancando così la porta ad ogni possibilità di sopruso. Ma questo non sembra offuscare alcun credente. Come mai? Semplicemente perché i credenti di tutte le religioni, pur insistendo sulla sacralità dei loro testi di riferimento rispettivi, si prendono poi allegramente la libertà di selezionare i passaggi più consoni al loro pensiero, passando sotto silenzio l'esistenza di tutti quelli che li contraddicono. Al supermercato della fede nessuno si sente obbligato a comprare tutti i prodotti, ognuno sceglie ciò che gli fa comodo.
I cristiani sottolineano sempre le pretese differenze tra il dio ebraico e il loro, passando però sotto silenzio che anche per loro la Bibbia è un libro “sacro”. Nessun cristiano, che io sappia, immaginerebbe di refutare l'idea di peccato originale, o la storia del diluvio universale, presenti nella Genesi, oppure i Dieci Comandamenti presenti nell'Esodo e nel Deuteronomio. Eppure gli stessi cristiani non accordano nessuna importanza al divieto di mangiare carne di lepre presente nello stesso Deuteronomio (14:7) e probabilmente trovano imbarazzante un altro passaggio dello stesso libro (12:20), che recita: “Distruggerete completamente tutti i luoghi, dove le nazioni che state per scacciare servono i loro dèi: sugli alti monti, sui colli e sotto ogni albero verde. Demolirete i loro altari, spezzerete le loro stele, taglierete i loro pali sacri, brucerete nel fuoco le statue dei loro dèi e cancellerete il loro nome da quei luoghi.” Sempre il Deuteronomio non esita d'altronde a ordinare allegramente al popolo eletto di sterminare ben sette altri popoli: Hittiti, Gergesei, Amorrei, Perizziti, Evei, Cananei e Gebusei (Deut. 7:1 e 2). Lo sterminio come mezzo di diffusione della propria fede, in barba al pur drastico non uccidere del quinto comandamento.
Allo stesso modo, gli stessi cristiani non sembrano prestare attenzione al fanatismo di Paolo di Tarso quando afferma che la parola del Signore cresceva e si rafforzava grazie alla distruzione di migliaia di libri (Atti degli Apostoli, 19:19 e 20) o quando auspica che la scienza svanisca (Lettera ai Corinzi 13:8). La negazione del sapere e della ragione come asse portante della fede.
Non è quindi certo da un punto di vista cristiano che ci si può arrogare il diritto di criticare un altro libro “sacro”. I cristiani peraltro non trovano nulla ridire nel fatto che i quattro Vangeli canonici siano stati dichiarati tali, a scapito di altri, solo nel corso del Concilio di Nicea del 325, sotto la spinta di Ireneo di Lione, che giustificò la sua scelta affermando che siccome c'erano quattro angoli della terra (i punti cardinali) e quattro venti, così non potevano esserci né più né meno di quattro Vangeli. Come argomento filologico si può fare di meglio...
E vogliamo ricordare le omelie di Giovanni Crisostomo, naturalmente “santo”, contro gli ebrei (mentre le bestie danno la vita per salvare i loro piccoli, i giudei li massacrano con le proprie mani per onorare i demoni, nostri nemici, e ogni loro gesto traduce la loro bestialità), nonché ciò che ne scrisse il Papa nel 2007, in occasione del sedicesimo centenario della nascita del “santo” (un grande Padre della Chiesa a cui guardano con venerazione i cristiani di tutti i tempi […], la cui vita e magistero dottrinale risuonano in tutti i secoli e ancora oggi suscitano l’ammirazione universale)?
In uno dei suoi ultimi articoli, intitolato Il virus della fede (titolo anche di un suo precedente libro pubblicato e poi ritirato dalla circolazione in Bangladesh), articolo apparso su internet poco prima della sua morte, Avijit Roy ricorda come nel Corano ci siano un certo numero di passaggi che servono oggi da autogiustificazione ai più violenti integralisti: uccideteli [gli infedeli] ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati (2:191); combattete i miscredenti che vi stanno attorno, che trovino durezza in voi (9:123); uccidete questi associatori ovunque li incontriate, catturateli, assediateli e tendete loro agguati (9:5).
Ovviamente anche dal Corano è possibile estrarre numerose citazioni instrise di spirito di pace, di misericordia e di fratellanza, proprio come lo si può fare sia dall'Antico che dal Nuovo Testamento. Basterà ricordare, per esempio, il verso 32 della V sura, detta La tavola imbandita, che recita: chiunque uccida un uomo, che non abbia ucciso a sua volta o che non abbia sparso la corruzione sulla terra, sarà come se avesse ucciso l'umanità intera. Ma anche qui i pacifici ammiratori del Corano molto spesso troncano la citazione nella parte che sembra autorizzare perfettamente la pena di morte per chi abbia ucciso, o anche solo sparso la corruzione sulla terra.
Ma l'analisi di Roy si fa interessante, nonché perfettamente inaccettabile per i fanatici di ogni bordo, quando l'autore si mette a parlare del concetto di meme. Vediamo intanto come il meme è definito dal vocabolario Treccani:

meme s. m. Singolo elemento di una cultura o di un sistema di comportamento, replicabile e trasmissibile per imitazione da un individuo a un altro o da uno strumento di comunicazione ed espressione a un altro (giornale, libro, pellicola cinematografica, sito internet, ecc.). ◆ I memi digitali sono contenuti virali in grado di monopolizzare l’attenzione degli utenti sul web. Un video, un disegno, una foto diventa meme (termine coniato nel 1976 dal biologo Richard Dawkins ne Il gene egoista per indicare un’entità di informazione replicabile) quando la sua «replicabilità», che dipende dalla capacità di suscitare un’emozione, è massima. 
 
Ed ecco un estratto del testo di Roy:

Chi ha familiarità con l'idea rivoluzionaria di meme introdotta da Richard Dawkins [etologo e biologo britannico, noto per il suo ateismo militante] nel suo opus magnus Il Gene egoista, del 1976, già conosce la metafora virale delle idee religiose. Seguendo questa idea, vari autori hanno suggerito che il meme religioso si comporti come lo fa un virus biologico in un organismo vivente. Lo specialista di informatica Craig James (autore di The Religion Virus, Il virus della religione) e lo psicologo Darrel W. Ray (autore di The God Virus, Il virus di Dio) hanno proposto indipendentemente uno dall'altro l'idea che il “meme religioso” possa essere visto come un virus. Il filosofo Daniel C. Dennett (autore di Breaking the Spell, Rompere l'incantesimo) ha espresso l'idea che la religione esercita sulle persone un controllo del comportamento molto simile a quello dei parassiti che invadono un organismo. Il virus della rabbia, per esempio, infetta, nel cervello dei mammiferi, dei neuroni molto specifici che col tempo spingono l'infettato a mordere o comunque ad attaccare altri individui. La dicrocoeliosi iperacuta provocata dal parassita Dicrocoelium dendriticum infetta il cervello delle formiche e le spinge ad arrampicarsi in cima a foglie d'erba, dove potranno essere mangiate dalle mucche. Un altro parassita, lo Spinochordodes tellinii, infetta le cavallette col risultato di spingerle ad annegarsi, favorendo così la riproduzione del parassita stesso.
Non vediamo forse fenomeni simili nella società umana?
[…]
L'ISIS [ovvero il sedicente Stato Islamico] è ciò che risulta dal propagarsi del virus della fede e dal suo diventare epidemia.

Per queste parole, e per altre dello stesso tipo, Avijit Roy è stato assassinato.
Non ho motivo di credere che senza religione l'uomo sarebbe migliore di ciò che è. Credo però che la religione, nata migliaia, se non decine di migliaia di anni fa in società prive di ogni possibilità di conoscenza e di analisi dei fenomeni fisici e naturali, abbia ormai così ampiamente dimostrato la sua naturale tendenza a creare divisioni, conflitti, esclusioni, rifiuti dell'altro e problemi di ogni genere, da rendere auspicabile la sua sparizione dalla faccia del mondo.
Chi crede in Dio, in uno qualsiasi delle migliaia di dei tuttora adorati nel mondo, sembra continuare a difendere l'assurda idea che chi non crede non può avere accesso a sentimenti elevati, al “vero” amore, al sentimento di meraviglia davanti alle bellezze dell'universo, all'estasi, il che è ovviamente perfettamente offensivo per chi in Dio non crede.
Un piccolo esempio personale. Da bambino avevo paura del buio. La sera chiedevo sempre ai miei genitori di lasciare la tapparella della mia camera da letto leggermente socchiusa, in modo che un po' della luce esterna, quella dei lampioni della città, potesse entrare e rassicurarmi. Nelle mattine d'inverno, quando i primi raggi del sole colpivano direttamente la tapparella di quella camera esposta a est, svegliandomi passavo lunghi minuti a osservare quelle tre o quattro lame di luce all'interno delle quali vedevo migliaia di piccoli granelli di polvere che si muovevano in maniera apparentemente disorganizzata. Mi rivedo all'età di dieci o undici anni, sdraiato sotto le coperte con il mio pigiama di flanella a righe. Guardavo quei granelli di polvere e mi dicevo che forse ognuno di loro era un mondo, un mondo infinitamente piccolo, popolato da esseri infinitamente piccoli il cui spazio e il cui tempo erano per loro esattamente ciò che il mio spazio e il mio tempo erano per me. Mi dicevo che in quel preciso istante forse, su uno di quei granelli di polvere c'era un piccolissimo bambino sdraiato sotto le coperte nel suo pigiama di flanella che osservava altri granelli di polvere, infinitamente piccoli anche per lui. E mi dicevo anche che altrove, in un altrove lontanissimo, c'era un altro bambino, infinitamente più grande di me, che osservava anche lui dei granelli di polvere e che forse immaginava, a ragione, che uno di quei granelli fosse il mio mondo, il mio universo.
Quelle mie fantasie infantili, che non ho mai dimenticato e che nulla avevano a che fare con Dio o con la fede, mi sembrano ancora oggi dei meravigliosi esempi di spiritualità e di trascendenza, tanto spontanee quanto perfettamente atee.
Già: senonché i credenti di ogni specie hanno da tanto tempo ormai confiscato parole come spiritualità e trascendenza, che è quasi impossibile usarle al di fuori di ogni riferimento religioso. Noi atei siamo vittime di un furto semantico che va avanti da millenni e anche se non vorremmo usare per noi stessi la parola ateo, non abbiamo scelta.
Eppure quella parola è sbagliata, col suo a privativo iniziale. Noi non ci priviamo di nulla e non riconosciamo a nessuno il diritto di considerarci mancanti di qualcosa. Soprattutto non lo riconosciamo a chi ci dà l'impressione di vivere nell'illusione di un mondo di favole, fatto di vergini che partoriscono, di “santi” che operano guarigioni miracolose, di guerrieri che fermano il corso del sole per meglio distruggere una città e massacrarne gli abitanti, di donne curiose trasformate in statue di sale, di mari che si aprono per far passare tutto un popolo (e poi sterminare un esercito), di navi sulle quali è possibile caricare tutti gli animali del mondo, di uomini che passano tre giorni e tre notti nel ventre di una balena, di moltiplicatori di pani e pesci, di camminatori sulle acque, di viaggiatori su carri di fuoco e di ogni altro genere di prestigiatori, nani e ballerine. Storie bellissime, per carità (almeno alcune di loro); storie sulle quali si può sognare. Ma non più di quanto si possa farlo su Ventimila leghe sotto i mari, su I pirati della Malesia, o su Il signore degli anelli.
Non che quelle storie mi diano fastidio. Né in fondo mi dà fastidio che qualcuno ci veda delle “verità”. Ma che a quelle "verità" si possa accordare pubblicamente la stessa importanza e la stessa credibilità della ragione, della conoscenza e del sapere, questo no, non mi sembra accettabile. E soprattutto, soprattutto!, che si possa accusare di blasfemia chi quelle "verità" le trova risibili è davvero insopportabile. 
Per me e per altri come me, la sola, vera bestemmia è Dio: una bestemmia contro la ragione e contro l'uomo. Senonché trovo che quella bestemmia sia solo il sintomo di un modo di ragionare (o di non ragionare) che mi è totalmente estraneo. Niente di più. Se chi accorda più importanza a ciò che chiama fede che alla ragione accettasse con altrettanta calma la ragione che nega la sua fede, il mondo sarebbe un posto migliore.