venerdì 10 febbraio 2012

Una bella ciaccona




Guardate bene questa foto. L'avete riconosciuto? Lui è Joshua Bell, che iniziò la sua carriera di solista a quattordici anni, nel 1981, con la Sinfonica di Philadephia diretta da Riccardo Muti.

Guardate bene questa foto. È impossibile capirlo, ma il violino è il “Gibson ex-Huberman”, uno Stradivari del 1713. 

Guardate bene questa foto. Neanche questo si vede bene, ma il berretto del violinista porta in rilievo il logo dei Washington Nationals, la squadra di baseball della capitale americana. Quel che si vede è che il violinista porta una maglia senza scritte, che sembra assolutamente qualunque.

Guardate bene questa foto. In primo piano c'è qualcuno in movimento, probabilmente un passante. Ha una giacca gialla e uno zaino blu. Sul fondo c'è un muro grigio, probabilmente di cemento. E quelle due forme blu appena dietro il violinista? Sono semplicemente delle pattumiere, di quelle che si vedono negli aeroporti, o nelle stazioni. 

In una stazione un concertista di fama internazionale suona su uno Stradivari del 1713 mentre c'è gente che passa. Mmmmh...

È successo a Washington, il 12 gennaio del 2007, su iniziativa del Washington Post.
Verso le 8 del mattino Joshua Bell si è messo all'interno della stazione della metropolitana L'Enfant Plaza, nel quartiere dei ministeri. Ha suonato brani delle sonate e partite per violino di Bach per 43 minuti. 1097 persone gli sono passate davanti. La prima che si è fermata per almeno un minuto l'ha fatto dopo tre minuti di musica. Pochi istanti dopo, il primo dollaro è stato messo nella custodia aperta del violino ai piedi di Bell.
In tutto, 7 persone (su 1097) si sono fermate almeno un minuto; 27 hanno messo dei soldi nella custodia; il guadagno totale di Bell è stato di 32 dollari.
Non voglio trarre conclusioni facili e affrettate da questo aneddoto. Mi limiterò a tradurre la parte secondo me più interessante dell'articolo che il Washington Post dedicò all'avvenimento.

Kant prendeva sul serio la bellezza: nella sua Critica del giudizio sostiene che la capacità di apprezzamento della bellezza è legata alla possibilità dell'individuo a dare giudizi morali. Paul Guyer, dell'Università della Pennsylvania, autorevole studioso di Kant, sostiene che secondo il filosofo per apprezzare la bellezza è necessario godere di condizioni ottimali di osservazione.
"Ottimali — sostiene Guyer — non vuol dire dirigersi verso il proprio posto di lavoro, pensare al rapporto che si dovrà fare al capo e magari anche alle scarpe che ci stringono troppo i piedi".
Quindi se Kant avesse visto tanti passanti indifferenti davanti alla prestazione di Joshua Bell in metropolitana?...
"Li avrebbe perfettamente capiti", dice Guyer.
Tutto qui.
Ma non è tutto qui. Per capire davvero quel che è successo bisogna riguardare il video dall'inizio e tornare al momento in cui l'archetto di Bell tocca le corde. 
Un giovane bianco, pantaloni chiari, giacca di cuoio. La trentina. John David Mortensen è quasi alla fine del suo tragitto quotidiano in autobus e metropolitana che da Reston lo porta a Washington. È sulla scala mobile. È una scala lunga, ci vogliono un minuto e quindici secondi per arrivare in cima stando fermi. Quindi, come tutti quelli che passano poi davanti a Bell, Mortensen sente la musica per un lungo momento prima di vedere il musicista. Come la maggior parte dei passanti trova il suono gradevole. Ma contrariarmente alla grandissima maggioranza dei passanti non se ne va via appena arrivato in cima come se Bell fosse un disturbatore da evitare. Mortensen si ferma.
Non che non abbia nient'altro da fare; oggi deve partecipare a una riunione mensile sul budget, che è lungi dall'essere la parte più entusiasmante del suo lavoro: "Dobbiamo rivedere le spese del mese precedente, prevedere quelle del mese a venire, decidere dove andranno gli X dollari di cui disponiamo, quel genere di cose..."
Sul video si vede Mortensen che viene dalla scala mobile e si guarda attorno. Reperisce il violinista, si ferma, se ne va, ma poi si gira. Guarda l'ora sul telefonino — si accorge che ha tre minuti di anticipo — e si appoggia a un muro ad ascoltare.
Mortensen non conosce per niente la musica classica; tutt'al più il rock classico. Ma c'è qualcosa in quello che sente che gli piace davvero.
Per caso è arrivato proprio nel momento in cui Bell inizia la seconda parte della "ciaccona". (La ciaccona è l'ultimo movimento della partita n°2 in re minore per violino di Bach, considerato uno dei pezzi più difficili per violino della storia della musica; la nota è mia). ("È il momento — sostiene Bell — in cui la musica passa dalla chiave minore e oscura alla maggiore con un sentimento di esaltazione religiosa"). L'archetto del violinista si mette a danzare; la musica si fa rapida, gioiosa, teatrale, grande. 
Mortensen non sa cosa voglia dire maggiore o minore: 'Qualsiasi cosa fosse, mi ha dato un sentimento di pace.'
Per la prima volta in vita sua Mortensen si ferma ad ascoltare un musicista di strada. Rimane per i tre minuti che ha a sua disposizione, mentre 94 persone gli passano rapidamente davanti. Quando si allontana per andare a discutere del budget mensile del ministero dell'energia fa un'altra cosa per la prima volta: senza sapere cosa sia successo, ma sentendo che si è trattato di qualcosa di speciale, John David Mortensen dà dei soldi a un musicista di strada.

Tre giorni prima di suonare nella metropolitana di Washington, Bell aveva riempito la sala della filarmonica di Boston, dove un posto costava in media 100 dollari.

 
Non trovando su YouTube la Ciaccona suonata in condizioni “normali” da Bell, vi metto qui la versione di Shlomo Mintz, che mi piace assai: http://www.youtube.com/watch?v=myq8upzJDJc

Già che ci siamo: la ciaccona è all'origine un tipo di danza, forse spagnola, poi una forma musicale (in ¾) derivata da quella danza.

Ancora una frase da usare durante una cena quando nessuno sa più cosa dire: "L'altra sera pensavo a una ciaccona e mi sono detto (ecc. ecc., ad libitum).


mercoledì 8 febbraio 2012

Uno schifo

Jacques Borel

Il classico autolesionismo italiano ci spinge spontaneamente a considerarci inferiori agli altri. In questo siamo il contrario dei francesi, che tendono sempre vedere sé stessi come i primi e i migliori in tutto. I due atteggiamenti sono altrettanto esasperanti e chi, come me, passa da una parte all'altra della frontiera una dozzina di volte all'anno, tende inevitabilmente a smadonnare in mille occasioni, tanto da una parte che dall'altra delle Alpi.

Stamattina sono venuto da Saumur, bella città sulla Loira, a Parigi. Da qualche giorno il termometro non riesce più a salire sopra lo 0 e i due lati dell'autostrada erano coperti di neve.

Mi fermo a un autogrill per mangiare qualcosa. So che è un errore, so che mi metterò a smadonnare, ma uno non ha sempre la possibilità materiale di prepararsi dei panini e magari un termos di caffè prima di partire, allora mi fermo.

Entro. Da una parte c'è il solito spaccio: panini in involucri di plastica, insalate con data di scadenza tra dieci giorni e altre leccornie.

Più in là c'è un caffè. Dietro una vetrina ci sono vari panini. Ho scritto panini in corsivo perché qui la parola è diventata francese: si pronuncia naturalmente paninì ed è sia singolare che plurale: un paninì. C'è anche qualche panino, ma, come sempre, sono tutti off limits per me, vegetariano. Chiedo un paninì au fromage. L'inserviente me lo prende ed è solo allora che noto due cose: la prima è che un cartellino indica panini aux trois fromages; l'altra, che l'unica cosa visibile all'interno del mio paninì aperto come un libro sono tre minuscole fettine di caprino. Ah, dico, ai tre formaggi vuol dire che ci sono tre pezzetti di formaggio? Mais non, Monsieur, c'è anche del bleu (nome generico dato ai formaggi leggermente ammuffiti) e del gruyère (nome altrettanto generico dato ai formaggi senza sapore né odore). Giuro che ho guardato bene e che non ho viste niente. Probabilmente al momento della preparazione il paninì viene fatto passare davanti a due pezzi di formaggio, uno blu e uno senzea sapore né odore, nella vana speranza che riesca, forse per un miracoloso intervento di santa Bernadette di Lourdes, a impregnarsi dei loro peraltro inesistenti aromi.

Smadonno, ma non a voce alta. Il che mi richiede un certo sforzo.

Il paninì viene inserito in uno di quegli aggeggi destinati a scaldarlo, visto che la differenza fondamentale tra un sandwich (che scrivo in corsivo in quanto parola francese, che non sta ad indicare né il sandwich italiano, né quello britannico, entrambi perfettamente commestibili) e un paninì, è che il primo è freddo e il secondo è caldo.

Chiedo quanto fa. Cinq euro dix, Monsieur. Sì, avete capito bene: cinque euro e dieci centesimi per un panino mal cotto di 18 centimetri dentro il quale sono stati posate tre fettine di caprino da supermercato Lidl. Far finta di niente richiede uno sforzo immane, ma ce la faccio.

Aspettando la cottura, visto che è così che la chiamata l'inserviente, la cuisson, mi guardo intorno. Mi dico subito che non prenderò un caffé. Inutile provarci. So che fa schifo. Lo fa sempre, sistematicamente. Perché? Prima di tutto perché i grani di caffé sono troppo tostati e diventano quindi amari. Poi perché le macchine da bar, che sono le stesse che da noi, sono regolate in modo assurdo: hai appena fatto in tempo a chiedere un caffé che già te lo servono. Te ne possono fare quattro o cinque nel tempo che ci vuole a un barista italiano per fartene uno, perché non c'è pressione nella macchina, né peraltro nel caffé stesso, che non viene pressato a dovere. Non c'è la schiumina, non c'è niente. Il risultato è la classica spremuta di calzino. Bevi un caffé e dopo due minuti manco te lo ricordi. Altro che quel sapore che ti porti dietro quando esci dai nostri bar e che ti senti in bocca per dieci minuti e più.

Mi volto dall'altra parte e vedo una scritta: L'espace des Arômes, lo spazio degli Aromi (perché maiuscolo? Non si sa...).

Cosa sarà mai? Una boutique esotica nel bel mezzo di un autogrill? No, no, no, no...

La scritta è a più di due metri di altezza, su un muro dipinto di rosa. Sotto ci sono... (rullano i tamburi!) quattro distributori automatici di caffé e cioccolata. Per solo 1,70€ uno può offrirsi la disgustosa esperienza di una bevanda vagamente marronastra, di sapore indefinibile, che si spaccia per caffé. Io l'ho fatto qualche giorno fa, in un altro autogrill. Ho scelto l'opzione zuccherato. Ebbene, sapete fin dove arriva la perfidia transalpina? Lo zucchero c'è, ma è sul fondo, e non c'è niente di disponibile per mescolare! Se questa non è inciviltà... Se questa non è ignoranza... Se questa non è perversione...

Altra cosa estremamente fastidiosa degli autogrill francesi: non c'è un distributore su tutte le autostrade francesi (dico uno!) che abbia una persona che ti fa il pieno. Non so voi, ma anche in Italia ci sono delle volte che preferisco pagare 2 centesimi di più al litro standomene tranquillamente seduto al caldo invece di uscire a cercare di evitare di versarmi benzina sulle scarpe e di avere poi le mani che sanno di idrocarburo per le due ore seguenti.

E poi mi dico: uno può viaggiare da solo anche se ha una gamba rotta, o altri problemi di deambulazione. Basta che abbia il cambio automatica. Uno può essere vecchissimo e lentissimo eppure riuscire a guidare. Uno può... non lo so io cosa uno può, ma me lo volete mettere qualcuno con su una divisa, che mi fa pagare due centesimi di più ma che però mi evita di fare il benzinaio? E che cacchio!...

Ci si chiede spesso quali siano stati gli individui che hanno veramente cambiato qualcosa, nel bene come nel male, in un dato paese. Non solo Garibaldi, Mussolini e Berlusconi hanno cambiato l'Italia, ognuno a modo suo, ma l'hanno fatto anche Mike Buongiorno, Gianni Boncompagni e Renzo Arbore. La Francia è stata cambiata da un industriale di nome Jacques Borel che, negli anni 70, ha aperto tutta una serie di autogrill nei quali veniva servito cibo-spazzatura. Non so bene come la cosa si sia sviluppata, ma è un po' come se quel pericoloso germe autostradale si fosse messo a proliferare, valicando impunemente i caselli, invadendo le campagne, tracimando ovunque come una diga che fino ad allora bloccava un immenso lago di merda che, non avendo più alcun ostacolo, ha trasformato un paese rinomato per la sua alta cucina in quello in cui, a meno di spendere da 150 euro in su per persona, vino escluso, si mangia peggio. È veramente imbarazzante.

E buttato giù questo articoletto di sciovinistico patriottismo culinario, me ne vado a riposare perché ho l'influenza. Chissà, magari sognerò un caffé di quelli che mi fa Andrea, al bar sotto casa.