martedì 27 aprile 2010

Uno totalmente matto

 Ranulph Fiennes

Sto leggendo un bellissimo libro. O perlomeno un libro molto gradevole. Purtroppo Mad, bad and dangerous to know, autobiografia di Ranulph Fiennes, non è tradotto in italiano.
L'autore, il cui nome completo è Sir Ranulph Twisleton-Wykeham Fiennes, è un baronetto inglese lontano cugino della famiglia reale nonché cugino di terzo grado di Joseph Fiennes (Shakespeare in love) e di suo fratello Ralph (The constant gardener). È anche un tipico inglese matto come un cavallo.
Figlio e nipote di ufficiali dell'esercito morti ciascuno in una delle due guerre mondiali, diventò anche lui militare ed entrò a far parte dei famosi corpi speciali inglesi, gli SAS. Naturalmente imparò a usare la dinamite. Accortosi però che l'esplosivo che gli veniva dato ogni volta che doveva far saltare qualcosa per aria era sempre un po' troppo, usava il necessario e metteva il resto in un cassetto perché "non si sa mai". Ora, quando la 20th Century Fox decise di girare un film nel villaggio inglese di Castle Combe — conosciuto come il più grazioso di tutto il paese — e di tirar su una diga per far cambiare corso a un piccolo fiume che dava fastidio alle riprese, il giovane Ranulph (Ran per gli amici) tirò fuori dal cassetto la dinamite "non si sa mai" e fece saltare per aria la diga con l'aiuto di un commilitone. Scoperti, i due furono cacciati dagli SAS, ma non dall'esercito.
Ran fu mandato nel sultanato di Oman per addestrare i soldati del sultano nella lotta anti-guerriglia.
Due anni dopo, tornato a casa e tornato civile, organizzò una spedizione in hovercraft sul Nilo bianco, e poi un'altra su un ghiacciaio norvegese. Poi, nel 71, a 27 anni, guidò una discesa in gommone di varie centinaia di chilometri dallo Yukon fino a Vancouver. Inutile dire che non aveva mai messo piede su un gommone prima di allora.
La sua impresa forse più famosa è il viaggio attorno al mondo di quasi tre anni che fece con altri due compari. La regola del gioco era semplice: fare il giro del mondo verticalmente, passando dai due poli e viaggiando sempre e solo via terra o via mare. Già solo pensare a una cosa simile indica ovviamente un chiaro squilibrio mentale. Riuscire a realizzare il progetto è probabilmente più inquietante. Lui c'è riuscito.
Dopo aver tentato invano di diventare il primo uomo ad arrivare al Polo Nord da solo e senza aiuto (fu costretto a farsi venire a prendere a meno di 200 chilometri dalla meta), decise di diventare il primo ad attraversare l'Antardide a piedi, ciò che fece con un altro pazzo come lui. Forse è bene ricordare che attraversare l'Antartide è come attraversare la Cina e l'India, ma con temperature che scendono al di sotto dei -50°.
Qualche anno dopo, stanco dei Poli, organizzò una spedizione archeologica che scoprì la mitica città di Ubar, nel deserto dell'Oman.
La storia che preferisco però è quella che gli successe dopo non so più quale spedizione polare, durante la quale gli si gelarono le falangi esterne delle tre dita centrali e del pollice della mano destra. Il chirurgo gli consigliò di non amputarle per alcuni mesi onde permettere la ricrescita naturale dei tessuti che poi sarebbero serviti a rivestire i moncherini. Soffrendo però dolori tremendi, un giorno Ran cercò di amputarsi da solo con un seghetto a mano. Non riuscendo nel suo intento andò dal ferramenta, si comprò un bel Black & Decker nuovo e zac!, via le punte delle dita.
Nel 2003, infarto e doppio bypass. Due mesi dopo l'operazione Ran disse al chirurgo che voleva correre una maratona. "Va bene — gli rispose il chirurgo, che probabilmente portava in testa un cappello da Napoleone e si vestiva da Cleopatra la domenica mattina —, va bene. Basta che tu stia attento a che i battiti del tuo cuore non siano più di 130 al minuto". Il fatto è che Ran non aveva raccontato tutta la verità al buon dottore, visto che due mesi più tardi, cioè quattro mesi dopo il doppio bypass, corse sette maratone in sette giorni in sette posti diversi: Patagonia, Isole Falkland, Sidney, Singapore, Londra, Il Cairo, New York. Io mi sento stanco solo all'idea di sette viaggi così in sette giorni... Ah, sì: intervistato qualche tempo dopo confessò di aver "dimenticato" a casa il contabattiti al momento di fare le valige.
Il 20 maggio dell'anno scorso, il nostro Ran è arrivato in cima all'Everest, a 65 anni.
Insomma, se leggete l'inglese e non vi procurate questo libro, peggio per voi. Io ve l'ho detto.

lunedì 26 aprile 2010

Una pubblicità

 Un capo di vestiario Naughty Dog

Sfogliavo D, il supplemento settimanale femminile della Repubblica, ieri mattina, quando mi sono trovato davanti una pubblicità per la marca Naughty Dog. Nela foto, piuttosto brutta e largamente photoshoppata, appare una di quelle ragazze fatte con lo stampino nelle agenzie di modelle. È in piedi, in una posizione completamente innaturale, ha i capelli castani che sventolano per via di un ventilatore (che nella foto non si vede) alla sua sinistra, le gambe larghe, le mani sulle anche. Porta un vestito insignificante quanto lei, rosa scuro e cortissimissimo. Ha lo sguardo che vorrebbe forse guardare lontano e la bocca naturalmente semiaperta, come si deve quando si vuole sembrare sexy (o almeno così pare). Ai suoi piedi c'è un cane, forse un husky, che sembra annusarle le parti intime. Molto probabilmente cane e modella sono stati fotografati separatamente e poi riuniti dall'addetto a Photoshop. Comunque sia, l'immagine è di una volgarità sconcertante.
Che una foto come quella appaia su una rivista destinata a un pubblico femminile è doppiamente sconcertante.
Mi è venuto spontaneo andare su internet a scoprire cosa fosse Naughty Dog.
Il marchio, mi dice il sito della marca, è nato dalle menti chiaramente bacate di di una certa Simona Guarracci e della sua amica Laura Pizzi, entrambe laureate in Fashion Design. Toh, una si può laureare in Fashion Design? Non lo sapevo.
Le due illuminate creatrici, prosegue il sito, hanno avuto l'idea di portare nei negozi di tendenza (?) un prodotto sporty chic (??). E come l'hanno avuta questa bella idea, mi chiederà l'avido lettore? Semplice: sedute al tavolino di un bar sulla Rodeo Drive di Los Angeles, posto che ogni lettore di sito conosce benissimo, le due "osservano divertite la nuova mania della costa californiana: un esercito di ragazze super chic e alla moda che portano a passeggio i loro cagnolini vestiti e accessoriati di tutto punto".
Vabbé, vi risparmio il resto. Mi dico solo che se mi fossi trovato seduto a un caffé di Rodeo drive (cosa improbabile) e avessi visto passare un altrettanto improbabile esercito di ragazze super chic e alla moda che portano a passeggio cagnolini vestiti e accessoriati avrei forse meditato sulla stupidità umana prima di tornare in albergo a farmi una bella siesta.

Mi chiedo: perché tanta stupidità? E perché tanto provincialismo? E perché tanto disprezzo verso le donne da parte di altre donne su una rivista dedicata alle donne?
Nei primi anni 70 ho abitato un po' negli Stati Uniti. Era il grande periodo del femminismo, dei libri di Kate Millet, Betty Friedan, Germaine Greer e Erica Jong, della riscoperta di Simone de Beauvoir, delle ristampe dei libri di Gertrude Stein, del processo di Angela Davis. Nel 1967 una giovane siciliana di Alcamo, Franca Viola, di cui pochi probabilmente oggi si ricordano il nome, era stata la prima donna stuprata a rifiutare il matrimonio riparatore e a denunciare il suo stupratore.  Su noi uomini, stupiti e incerti sul da farsi, soffiava un potente vento catabatico che scalzava le nostre vecchie certezze, obbligandoci a far funzionare il grigiume della nostra materia cerebrale in maniera meno arrogante.
Come molti, credevo che quel cambiamento fosse definitivo. Ma mi sbagliavo. Oggi, sommerse da sempre più pressanti imperativi di bella presenza, da tonnellate di creme, cremine e cremette e da litri di botox, le donne stanno forse peggio di prima. Oggi esistono sul mercato bikini col reggiseno imbottito per bambine di dieci anni e concorsi di miss sotto i dodici anni. Oggi chi non si depila è out, chi ha qualche chilo "di troppo" è una patetica cicciona e chi nasconde l'ombelico sembra destinata al convento. Oggi il seno rifatto è un regalo plausibile per il successo all'esame di maturità. Oggi Anna Magnani non avrebbe la minima chance di carriera di fronte a personaggi come Paris Hilton, Pamela Anderson o Valeria Marini.
Un'altra marca che va per la maggiore ha trovato lo slogan giusto, l'incitamento perfettamente coerente al vento che tira oggi: la marca è Diesel e lo slogan è Be stupid. Difficile riassumere meglio la tendenza attuale.

venerdì 23 aprile 2010

Un emendamento

L'eccellente signora o signorina Silvana Andreina Comaroli, nata a Soncino (CR) il 27 marzo 1967, è deputata. Certo, la sua fama non è ancora molto grande, visto che il sito web del suo comune natale, alla pagina Personaggi Soncinesi di Rilievo (con tre maiuscole), non le consacra nemmeno una riga, preferendole un tale Vincenzo Cazzaniga che fu prima Presidente e Amministratore Delegato (con tre maiuscole anche qui) di Esso Italia e poi, "già ottantenne e infaticabile", presidente (qui minuscolo) del Consorzio grandi reti, che un altro sito mi spiega essere "una società consortile a responsabilità limitata a cui aderiscono circa 30 società, che operano nel settore della distribuzione di carburanti, tramite punti di vendita stradali, di prodotti petroliferi e che sono concessionarie di oltre 5 impianti", il che è molto interessante.
La nostra amica Comaroli non sembra quindi molto popolare, benché possa vantarsi, alla Camera, di un tasso di presenza del 98,12% (http://parlamento.openpolis.it/parlamentare/237135). Ah, dimenticavo: Silvana Andreina Comaroli fa parte dell'eccellente gruppo parlamentare Lega Nord Padania.
Ora, mi direte voi, come fa una sconosciuta deputata del gruppo Lega Nord Padania alla quale i colleghi non fanno nemmeno firmare una leggina a farsi conoscere? Fa un bell'emendamento.
La Comaroli l'ha fatto.
Nel testo del suo emendamento troviamo: "le regioni, nell'esercizio della potestà normativa in materia di disciplina delle attività economiche, possono stabilire che l'autorizzazione all'esercizio dell'attività di commercio al dettaglio sia soggetta alla presentazione da parte del richiedente, qualora sia un cittadino extracomunitario, di un certificato attestante il superamento dell'esame di base della lingua italiana rilasciato da appositi enti accreditati".
Ora, signori miei, la cosa è grave. Se capisco bene il Comaroli-pensiero, qui l'Italia corre gravi rischi. Ma come? Secondo questo testo un qualsiasi ungherese, portoghese o magari irlandese potrebbe tranquillamente, col pretesto di essere cittadino comunitario, aprire un ristorante specializzato in gulash, una rivendità di baccalà, o una mescita di Guinness senza bisogno di parlare italiano! Peggio ancora, ve l'immaginate la scena? Entrate in una panetteria per comprare una schiacciatina al bambino e lo straniero dietro il banco vi saluta dicendovi god morgon se è svedese, dobry den se è ceco, o magari egun on se è basco! Ma siamo matti?
E no, così non va, cara la mia Silvana Andreina. Non si può essere così superficiali. Un emendamento è una cosa seria.
Oltre tutto, quel "superamento dell'esame di base della lingua italiana rilasciato da appositi enti accreditati" non mi convince per niente. Quali sarebbero questi enti accerditati? Non le scuole, spero. Almeno non quelle padane, notoriamente invase da insegnanti terroni e semianalfabeti che non sanno nemmeno cos'è un prestinaio, che, come sanno tutti i milanesi, è la parola giusta per definire un panettiere.
Io proporrei la laurea. Rilasciata, naturalmente, da un'università italiana, meglio se del nord. Vuoi aprire una merceria a Soncino e sei lituano? Ti fai cinque anni di università a Pavia e poi sei tranquillo.
Ecco, sì, guarda, te lo faccio io l'emendamento: "le regioni, nell'esercizio della potestà normativa in materia di disciplina delle attività economiche, possono stabilire che l'autorizzazione all'esercizio dell'attività di commercio al dettaglio sia soggetta alla presentazione da parte del richiedente, qualora sia uno straniero, purché con la fedina penale pulita, di religione cristiana, di obbedienza cattolica romana, di pelle chiara e meglio se non affetto da alitosi, di una bella laurea in lettere rilasciata da un'università padana. In tutti gli altri casi lo straniero sarà rispedito a casa sua, come si deve".
Non è meglio così?

Il neurone solitario

Un neurone

Che i neuroni degli esseri umani di sesso maschile abbiano la tendenza  a scendere dalle zone cerebrali a quelle testicolari con una velocità da far impallidire qualsiasi pilota di formula 1 è cosa nota.
Che l'intelligenza media di quelle poche migliaia di esseri umani di sesso maschile che accumulano milioni di euro prendendo a pedate una sfera di cuoio cucita grazie al lavoro minorile pakistano è cosa altrettanto conosciuta.
Non ci sarebbe niente da stupirsi quindi leggendo dello "scandalo" che coinvolge alcuni calciatori della nazionale francese e una prostituta ora diciottenne, ma minorenne all'epoca dei fatti. Niente da stupirsi nemmeno guardando le foto, ormai numerose su internet, e scoprendo una Zahia Dehar (questo il suo esotico nome) che sembra la caricatura di una Paris Hilton de nojaltri, tale da offuscare anche la fulgida memoria di Noemi Letizia.
Quindi non è che io mi stupisca. Non mi stupisce nemmeno che sia ormai diventato consuetudine il fatto di definire "escort" una prostituta che si distingue dalle sue pur rispettabili colleghe solo per il fatto di prendere più soldi e da prenderli da VIP di vario genere.
Caso mai quel che mi stupisce sono le facce delle escort in questione. Da Patrizia D'Addario a Zahia Dehar, pasando da una serie di altre sculettanti carneadi assunte (che la Madonna mi perdoni l'aggettivo) a un'effimera gloria mediatica, io vedo solo volti perfettamente insignificanti e sguardi vuoti che suggeriscono un'intelligenza da criceto (che i criceti mi perdonino il parallelo). Mi pare allora ovvio non solo che i neuroni dei clienti (o "utilizzatori finali") abbiano definitivamente messo su casa nei quartieri più malodoranti dei loro possessori, ma che il loro numero globale sia anche molto limitato.
Forse c'è proprio del vero in quella storiellina che mi piace tanto e che racconta di un neurone tutto solo nel cervello di un uomo. Improvvisamente si spalanca la porta ed entra un altro neurone che, vedendo il primo, esclama: "Ma cosa fai qui? Siamo tutti al piano di sotto".

martedì 20 aprile 2010

Una lacrima sul viso

 Lacrime presidenziali

Volevo aggiungere un'immagine al mio blog di ieri, in cui parlavo delle lacrime del papa. Ho cercato la parola lacrima sulle immagini di Google. Le prime dieci pagine che ho fatto sfilare mi hanno dato come risultato:
7 lacrime di bambini
37 immagini varie (disegni, grafica, fiori, un gatto, ecc.)
10 lacrime di uomini (tra queste immagini però c'era la copertina di Una lacrima sul viso di Bobby Solo e un'immagine di Donizetti, autore di Una furtiva lacrima...)
126 lacrime di donne.
Magari la differenza tra immagini maschili e femminili me l'aspettavo anche, ma non in queste proporzioni: 37 a 126!
Ma voi, dico voi uomini, non piangete mai? No, chiedo... Perché io, anche se magari piango meno adesso di una volta, però ho l'impressione, di lacrime, di averne versate a catinelle, a vasche da bagno, a bacini idrici. E mica me ne vergogno.
Mi sa che noi uomini siamo meno disposti a far vedere le nostre lacrime. O è solo che ci sono più fotografi uomini che donne, o comunque più uomini che scelgono le immagini da mettere su Google? Mah...
Anche al cinema ho l'impressione che gli uomini non piangano praticamente mai, salvo in India. I grandi attori del cinema di Bollywood, tra i quali il mio preferito, Amitabh Bachchan, e il preferito della mia fidanzata, Shahrukh Khan, hanno gli occhi rossi in almeno una scena su due (nell'altra, soprattutto nella seconda metà della pellicola, piangono). Però questo mica gli impedisce di essere super-eroi.
Ho trovato a proposito del pianto un articolo apparso sul Corriere della sera un paio d'anni fa.  Un tal professor William Frey, dell'Università del Minnesota, ha studiato il pianto e ci ha pure scritto un libro: Crying: the mistery of tears. Dice il buon Mr. Frey che piangere fa benissimo perché 1) riduce il nostro stress quotidiano e 2) dopo stiamo meglio. Pare che un uomo pianga sette volte all'anno e una donna quarantasette. Che ingiustizia! Battuti, ancora una volta...

lunedì 19 aprile 2010

Adrenalina

Stamattina il mio giornale mi ha detto che il papa ha pianto. Poverino. Era a Malta e ha pianto in compagnia di otto giovani che erano stati violentati da preti. Ha consacrato loro "una ventina di minuti", dice il mio giornale, nei quali, dopo una preghiera comune e prima di una benedizione, ognuno "ha raccontato la sua storia". A occhio e croce, contando un paio di minuti per preghiera, lacrime  e benedizione,  ogni ragazzo violentato ha avuto a sua disposizione ben due minuti e quindici secondi per raccontare la sua storia. All'uscita, uno di loro si è dichiarato commosso e sollevato.
Che meraviglia! Un capolavoro di comunicazione. Un altro grande successo adrenalinico.
Il mondo oggi, o almeno il nostro mondo occidentale, è dominato dall'adrenalina. Sesso, tifo, politica spettacolo, mercato dell'arte, ideologie sempre più intransigenti, tutto sembra basato su quell'ormone della classe delle catecolammine, così notoriamente chiamate perché contengono sia un gruppo amminico che il catecolo, un orto-diidrossi-benzene.
Tiger Woods ha pianto, prima di lui l'avevano fatto un paio di predicatori americani sorpresi con prostitute, adesso piange anche il papa. Ha proprio ragione Belusconi: la soluzione è il partito dell'amore. Piangiamo sui nostri peccati e che poi nessuno osi più venirci a rompere le balle con fesserie tipo giustizia o risarcimento.
Il bello del pianto è che non hai nemmeno bisogno di scendere in particolari. Che bisogno c'è di andare a raccontare le singole storie, di cercare le singole responsabilità e di punire i colpevoli? Se poi la vittima piange con te, allora tombola! Chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdammoce 'o passato...
Ricordiamoci allora di un altro esempio, l'unico che mi venga in mente da contrapporre a questo diluvio lacrimale: la Truth and Reconciliation Commission voluta da Nelson Mandela. Lì non si trattava di piangere, ma di offrire un eventuale perdono ai colpevoli solo dopo il racconto dettagliato dei loro misfatti di fronte alla vittime e a tutta la nazione. Lì si affermava il diritto delle vittime a sapere e a far sapere.
Ma qui dove sono i preti colpevoli, i vescovi che scopavano la polvere sotto il tappeto, i cardinali muti e ciechi? Chi sono, chi erano? Non voglio sapere i loro nomi e le loro storie per bollarli a vita. Li voglio sapere perché la dignità della vittima è impossibile in questi casi senza un minimo sforzo di dignità del colpevole.
Non bastano le lacrime del capo, la sua contrizione, la sua incapacità a rispondere a domande precise. Il suo silenzio di oggi è colpevole e indecente quanto quello di ieri.
E scusate per questa specie di mini-editoriale, ma è proprio che i santissimi mi girano a velocità vertiginosa.

giovedì 15 aprile 2010

Piccole meschinerie

Da bambino, guardando Perry Mason in televisione, mi chiedevo cosa fosse una strettuale, visto che l'avversario di Mason in tribunale era sempre il procuratore di strettuale.
Un'altra cosa che mi chiedevo era quanto potesse valere una lira di Dio, visto che mio padre diceva sempre che una cosa cara costava lira di Dio.
Una volta, volendo fare il furbetto davanti a gente molto più colta di me, dissi qualcosa sulla civiltà giulio-cristiana, pensando a Giulio Cesare invece che a Mosè.
Ero già, ahimé, assai più grande quando, durante la guerra in Libano, chiesi ad un amico, assistente alla regia di Patrice Chéreau per il suo allestimento della trilogia wagneriana, come ci si trovasse a lavorare a Beirut, sotto le bombe. Ignoravo che il festival wagneriano si svolgeva a Bayreuth, in Baviera. Mi consolò solo il sentire che la stessa stupida domanda gliel'avevano già fatta in tanti.
Oggi mi vendico ridendo quando qualcuno va a comperarsi una sweet shirt, cioè una camicia dolce, invece di una sweat shirt (pronuncia suèt), cioè una camicia per sudare, o delle scarpe Nike (Naik, o magari Naiki) che calpestano allegramente la dea greca della vittoria. Certe volte sono proprio meschino...

mercoledì 14 aprile 2010

Due italiani, l'indomani

È logico che, dopo quello che ho scritto ieri, abbia voluto ad andare a vedere cosa dicesse oggi La Nuova Sardegna.
Nel titolo dell'articolo dedicato al seguito dell'aggressione razzista, le due vittime sono ancora chiamate i "fratelli congolesi", nonostante la loro nazionalità italiana.
Nel corpo dell'articolo però si parla dei "due fratelli di padre congolese e madre algherese" e, più in là, dei "due giovani di colore".
Ma Gianni Olandi, autore dell'articolo, sembra non farcela proprio con questa storia. È così che ci spiega che "questi ragazzi (sono) cresciuti nella globalizzazione e in una società multietica". Sì, multietica, senza la n, classico lapsus degno di comparire nella Psicopatologia della vita quotidiana di Freud. Immagino volentieri il sorriso ironico del vecchio dottore viennese davanti all'assenza di questa n. Il suo possibile commento consisterebbe probabilmente nel far notare come, davanti allo sforzo di trattare i due ragazzi come se fossero "normali", l'inconscio dell'autore si è divertito a inventare comunque una nozione di multietica che li rigetta dentro un mondo che non è il nostro. A meno che quest'etica multipla non sia un modo di tranquillizzare il lettore mettendolo al riparo da ogni tipo di pur minima collusione coi colpevoli, come sembra sottolineare la frase che definisce l'aggressione "così lontana dalla mentalità e dal vivere quotidiano della gente algherese". Ahimé, anche gli aggressori fanno parte della "gente algherese". O no?
A meno che non esistano tre etiche: quella dei due "giovani congolesi", quella della "gente algherese" e quella dei sei balordi colpevoli dell'aggressione, che possono quindi apparire come alieni, il che tranquillizza tutti.
La realtà però è un'altra: i due giovani italiani di padre congolese (uno è cuoco in un ristorante di Bruxelles, l'altro studente universitario a Sassari), gli aggressori e gli algheresi in generale fanno parte della stessa società. Per multietnica che questa stia diventando, mi pare che continui, o dovrebbe comunque continuare ad affondare le sue radici in un'etica che non preveda di poter prendere a sassate un concittadino solo perché ha la pelle più scura di un altro. O no?

martedì 13 aprile 2010

Due italiani

Harry Belafonte

Non mi è capitato spesso di scrivere a un giornale, ma oggi l'ho fatto.
Guardavo i titoli sul sito della Repubblica quando uno ha attirato la mia attenzione: "Sporchi negri": aggressione razzista ad Alghero.Ci ho cliccato sopra e mi si è aperta una pagina della Nuova Sardegna, giornale di Sassari di proprietà del gruppo Repubblica-Espresso. Qui il titolo era leggermente diverso: ALGHERO: "Sporchi negri tornate a casa vostra." In sei picchiano due ragazzi congolesi.
Mi sono messo a leggere. La fine del primo paragrafo specificava che le due vittime erano "cittadini congolesi, di madre algherese, in possesso anche della cittadinanza italiana." E qui mi sono cadute le palle. Ma come "cittadini congolesi, di madre algherese, in possesso anche della  cittadinanza italiana"? Ma uno che è "in possesso della  cittadinanza italiana" non è italiano, anche se di padre congolese? E poi perché all'inizio del terzo paragrafo le vittime erano diventate "due senegalesi"? Giuro che non invento niente. Perché allora non andare fino in fondo e scrivere che sei italiani avevano picchiato due negri?
Qui non si tratta di fare a tutti i costi del politically correct. Si tratta di rendersi conto di come e quanto il razzismo dilagante si nutra quotidianamente di fesserie, anzi di ignominie come queste. Quando, una quarantina d'anni fa, una certa signora di cui non farò il nome per non dire del male di mia madre sosteneva che "Harry Belafonte è talmente bello che non sembra nemmeno un negro" le palle mi giravano già più di una giostra del luna park. Ma sono passati quarant'anni! E questa non è mia madre (oops...) che parla in cucina, è un giornalista del gruppo Repubblica-Espresso. Ma siamo impazziti?
Le parole contano, sempre e tutte. Qui si parla di un'aggressione razzista incominciata "con il lancio di pietre, mattoni raccolti dalla pavimentazione stradale, poi con calci e pugni", non della più o meno figaggine di un cantante di mambo (il che non toglie niente all'incoscienza, chiamiamola così, di quella signora che continuo a non voler nominare).
La cosa realmente grave non è nemmeno lo scivolone verbale in sé. La cosa grave è che ci siano giornalisti, che ci sia gente tuttora non indenne da tali scivoloni. E ce n'è sempre di più, ahimé. È proprio vero che se i coglioni avessero le ali la luce del sole sarebbe nascosta dagli stormi volanti.

domenica 11 aprile 2010

L'ingrediente tempo

 Gianni Berengo Gardin e Erwin Elliot

Stamattina ho portato degli amici francesi a Sansepolcro a vedere la Madonna della misericordia e la Resurrezione di Piero della Francesca. Sulla piazza principale c'erano parcheggiate 29 Ferrari, ma questa è un'altra storia. Appena più in là c'era una mostra di foto di Gianni Berengo Gardin e Elliot Erwitt. 50 foto, 25 per uno, fatte in tre giorni a Sansepolcro, Anghiari e dintorni.
Guardandole, e dicendomi quanto per molte di loro mi fosse difficile capire di primo acchito quale dei due vecchiacci le avesse scattate (il cartellino di una portava il nome di Erwitt cancellato e quello di Brengo Gardin aggiunto a mano...), non ho potuto impedirmi di ammirare l'eleganza di tanta semplicità. Sarà l'età, intendo la mia, ma sono sempre più sensibile a gesti artistici dai quali traspare quel meraviglioso cocktail di esperienza, semplicità e indifferenza alla critica che appare solo col tempo. 
A parte due o tre, nessuna di quelle foto era spettacolare. Nessuna sarebbe stata nemmeno presa in considerazione da un qualsiasi editor del National Geograhic. Ma davanti ad alcune mi sono detto addiritura che, le avessi scattate io, non le avrei mai selezionate per farle vedere e ancora meno per esporle. Non che fossero brutte, per carità!, ma erano così incredibilmente « normali » da apparire assolutamente qualunque al primo sguardo. È solo guardandole più a lungo che ci si accorgeva quanto la composizione non fosse affatto qualunque, quanto lo sguardo di un personaggio in secondo piano o due gesti, uno sulla destra e uno sulla sinistra, dessero loro al tempo stesso una densità umana e un'equilibrio compositivo davvero molto belli.
Uno dei miei film preferiti degli ultimi trent'anni è L'onore dei Prizzi, il penultimo girato da John Houston. Anche lì è la stessa cosa: in apparenza una semplice commedia senza pretese, ma in realtà un film elegante, intelligente, raffinato, pieno di chicche così leggere che, appunto, uno all'inizio non le nota nemmeno.
Da Sansepolcro siamo andati a fare un giro ad Anghiari e anche lì ho trovato la stessa semplicità e la stessa eleganza. L'intrecciarsi di quei volumi architettonnici, cresciuto attraverso i secoli in maniera solo apparentemente arbitraria, nessun architetto, nessun urbanista al mondo avrebbe mai potuto progettarlo. Il passare del tempo (tempo di generazioni, storia, battaglie, amori, nascite e morti)  è stato un ingrediente indispensabile a quell'architettura urbana. Allo stesso modo il passare degli anni e l'accumularsi degli scatti, il guardare il mondo, giorno dopo giorno lo è stato alle foto di Berengo Gardin e Erwitt. E la stessa cosa è vera dei film di Woody Allen, dei quadri e delle stampe di Goya e Picasso, o, in questi ultimi anni, delle canzoni di Bob Dylan e Leonard Cohen.
È per questo, e solo per questo, che mi piacerebbe diventare vecchio.

venerdì 9 aprile 2010

Primavera


Alberto Rabagliati era il cantante preferito di mia madre (classe 1921). Col sole che c'è fuori e le prime rondini che zinzilulano (sì, le rondini zinzilunano, mica cinguettano come un volgare passerotto; mentre invece le capinere gorgheggiano, i cardellini trillano, i fringuelli chioccolano, i merli zufolano, i pavoni paupulano, i pettirossi spittinano, gli stupidi piccioni grugano, i tacchini gloglottano e i tordi zirlano), col sole che c'è fuori e le prime rondini che zinzilulano, dicevo prima di essere interrotto da me stesso, mi è venuta voglia di bloggare questo immortale esempio di poesia canterina. E buona primavera a tutti.

MATTINATA FIORENTINA

È primavera... svegliatevi bambine
alle cascine, messere Aprile fa il rubacuor.
E a tarda sera, madonne fiorentine,
quante forcine si troveranno sui prati in fior.

Fiorin di noce,
c'è poca luce ma tanta pace,
fiorin di noce, c'è poca luce;
fiorin di brace,
Madonna Bice non nega baci,
baciar le piace, che male c'è?

È primavera... svegliatevi bambine
alle cascine, messere Aprile fa il rubacuor.
È primavera... che festa di colori!
Madonne e fiori tentaste il genio d'un gran pittor.
E allora, a sera, fiorivano gli amori,
gli stessi amori che adesso intrecciano i nostri cuor.

Fiorin dipinto,
s'amava tanto nel quattrocento,
fiorin dipinto, s'amava tanto;
fiorin d'argento,
Madonna Amante le labbra tinte
persin dal vento si fa baciar!
È primavera... che festa di colori!
Madonne e fiori trionfo eterno di gioventù.

mercoledì 7 aprile 2010

Scegliere


L'altro giorno ero vicino a Marsiglia e facevo un "intervento pedagogico" in una scuola media. Non so bene cosa sia un intervento pedagogico, ma ogni tanto ne faccio, con quel miscuglio di buona e malafede che mi sembra necessario in questi casi.
A un certo punto mi sono messo a parlare della televisione e ho detto una cosa che ha un po' sorpreso anche me mentre la dicevo perché mi è sembrata meno stupida e banale del previsto. Ho detto, in sostanza, che il fatto che oggi ci siano tanti canali e che uno possa scegliere quel che vuole fa in realtà abbassare il livello intellettuale dello spettatore che, tendendo sempre a scegliere quello che "gli piace" e che già in parte conosce non si dà più la possibilità di essere sorpreso da cose inattese. Dicendolo pensavo a un aneddoto che ho spesso raccontato: la televisione in casa dei miei genitori è arrivata quando io avevo otto anni. Allora c'era solo un canale, naturalmente in bianco e nero, e le trasmissioni cominciavano al pomeriggio, dopo la scuola, con la TV dei ragazzi. Siccome la TV era una novità, la guardavamo tutte le sere, anche dopo Carosello. È così che a nove anni mi sono visto Amleto interpretato, me ne ricordo benissimo, da Maximilian Schell. E sono convinto che quella serata abbia giocato un ruolo importante nella mia voglia di far teatro.
Anche indipendentemente dal fatto che il livello medio delle trasmissioni dei canali generici si è molto abbassato in cinquant'anni, ve la immaginate voi una famiglia qualsiasi che oggi sceglierebbe di guardare Amleto alle 9?
Bisognerebbe che ci pensassi su un po', se ne avessi voglia e tempo, ma mi pare che quest'idea che l'aumento della scelta fa abbassare il livello sia applicabile a un sacco d'altre cose. Anche alla politica, forse, e alla stessa democrazia, che implica la possibilità di scelta tra un grande numero di partiti. O addiritura alla stessa idea di libertà, o almeno a come la vediamo noi Occidentali. Senza poi parlare delle tonnellate di mercanzie disponibili in tutti i supermercati.
Chi più può meno può?

martedì 6 aprile 2010

In chiesa


Ieri era Pasquetta. Sono andato in chiesa. Non che sia andato in chiesa perché era Pasquetta: sono andato in chiesa perché qui da noi prima di Pasqua ci sono tre diverse processioni con tre diverse statue di Gesù e il giorno dopo Pasqua riportano dentro la chiesa l'ultima delle tre, quella del Gesù risorto, che è del '600. Prima la portano un po' in giro per il centro storico, poi in piazza San Francesco, dove fanno scoppiare tanti petardi che sembra di essere a Waterloo il giorno della batosta di Napoleone, poi la riportano in chiesa. E quindi ci sono andato anch'io.
È incominciata la messa. Da quando non credo più che all'ultimo piano viva un signore barbuto con un triangolo giallo dietro la testa, cioè più o meno dall'età di dodici o tredici anni, a messa mi è capitato di andarci per il funerale di mio padre e per un paio di matrimoni (di cui uno nella chiesa ortodossa russa di Parigi, dove naturalmente non ho capito una parola, anche se ho apprezzato i canti). Insomma, non sono proprio uno specialista.
Forse è anche per questo che non mi ricordo già più le prime parole che ha detto il prete. O per lo meno, se non le prime, almeno le seconde, perché mi pare che per prima cosa abbia salutato tutti. Subito dopo però ha incominciato a dire cose tipo "Meditiamo sui nostri peccati" (e lì via con un lungo momento di silenzio meditativo), "Mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa, ecc." che tutti naturalmente ripetevano e che sembrava che tutti fossero dei delinquenti patentati.
E a me sono girati i santissimi (il che magari è anche normale in chiesa, non so). Ma che cacchio di religione è questa, che per prima cosa, all'inizio del suo rito più importante fa dire a tutti i presenti una cosa che suona come "Sono un merda, una merda, una grandissima merda, però siccome Quello Là è uno buonissimo magari ce la faccio lo stesso"? Che cacchio di religione è questa che mette come primo atto l'autoumiliazione? Per carità, lungi da me l'idea di essere un ardente discepolo di Freud, Jung, Lacan and Co., ma siamo proprio sicuri che la chiave giusta per elevare un po' il proprio spirito risieda nel trattare sé stesso come una cacca di cane?
Sono uscito dalla chiesa passabilmente incazzato, però poi ero abbastanza contento. Sì, abbastanza contento di constatare quanto la chiesa mi sia estranea, quanto quel suo modo subdolamente umiliante mi sia insopportabile e quanto in realtà tutto questo mi sia talmente indifferente che non ci penso mai. Tutt'al più quando ho voglia di mandare avanti un blog...

P.S. Siccome tra i miei amici, conoscenti e famigli, quindi eventuali bloglettori, ce ne sono che in chiesa ci vanno, tengo a precisare che non intendo convincere nessuno. Non so bene con che diritto lo farei, visto che io sono uno che se può evita sempre di passare sotto una scala, di appoggiare il cappello sul letto, o di farsi attraversare la strada da uno di quei fottutissimi gatti neri che sembrano farlo apposta quando devo passare io. Chiedo solo a tutti i già citati amici, conoscenti e famigli la stessa indulgenza nei confronti del mio ateismo di quella che io mi sforzo di avere nei confronti del loro teismo. Immagino facilmente che il mio appaia loro tanto assurdo quanto il loro a me. (ma ce la farò a trattenermi dall'aggiungere, anche se in molto piccolo, che io almeno non sono assolutamente convinto di aver ragione? Eh, mi sa di no...)

lunedì 5 aprile 2010

S+7

L'OULIPO (Ouvroir de Littérature Potentielle, ovvero Laboratorio di Letteratura Potenziale) fondato nel 1960 dal matematico e scrittore François Le Lionnais e dallo scrittore e matematico Raymond Queneau è un gruppo di scrittori, matematici, scrittori matematici e matematici scrittori che si dà alla ricerca di "nuove strutture e schemi che possano essere usati dagli scrittori nella maniera che preferiscono". Vasto programma...
Pur non essendo scrittore, ho frequentato alcuni membri dell'OULIPO, grazie in particolare all'introduzione di Enrico Baj, esimio patafisico, col quale ho lavorato a lungo.
Una delle idee base dell'OULIPO è quella di inventare delle "costrizioni" di scrittura che permettano agli autori, attraverso il loro impiego, di creare testi che non avrebbero altrimenti visto la luce del giorno. Italo Calvino, per esempio, che dell'OULIPO faceva parte, ha avuto modo di spiegare come vari dei suoi libri (in particolare Se una notte d'inverno un viaggiatore..., ma non solo) fossero scaturiti da costrizioni oulipiane.
La mia costrizione preferita è sempre stata quella chiamata S+7, che consiste nel sostituire ogni sostantivo in un testo dato con il settimo che gli succede in un dizionario preso a caso.
Siccome è Pasqua, ho applicato l'S+7 al Vangelo di Giovanni 20,1-9, cioè quello della resurrezione. Ecco il risultato, che mi pare abbastanza bello. Da notare che ho applicato l'S+7 anche ai nomi propri, mentre non l'ho fatto né al vocabolo "terra" quando appare nella locuzione avverbiale "per terra", né a "due" che mi pare sia qui aggettivo numerale cardinale e non sostantivo.

Nel giovanilismo dopo il sabbione, Mariella di Maiorca si recò alla sequenza di buona mattonella, quand'era ancora bulimia, e vide che la pietruzza era stata ribaltata dalla sequenza.
Corse allora e andò da Sofocle Pippo e dall'altro dischetto, quello che Giacomo amava, e disse loro: "Hanno portato via il sikhismo dal sabbione e non sappiamo dove l'hanno pòsto!"
Uscì allora Sofocle Pippo insieme all'altro dischetto, e si recarono al sabbione.
Correvano insieme tutti e due, ma l'altro dischetto corse più veloce di Pippo e giunse per primo al sabbione.
Chinatosi, vide i benedettini per terra, ma non entrò. Giunse intanto anche Sofocle Pippo che lo seguiva ed entrò nel sabbione e vide i benedettini per terra e il suddito, che gli era stato posto sul capocaccia, non per terra con i benedettini, ma in una lupara a parte.
Allora entrò anche l'altro dischetto, che era giunto per primo al sabbione, e vide e credette.
Non avevano infatti ancora compreso lo Scrocco, che egli cioè doveva risuscitare dalle mosche.

Buon Passafino!

domenica 4 aprile 2010

Würzburg, Vienna e Brno

Tanto per dire quanto certe volte io stesso mi trovi decisamente coglione: ieri ho fatto un viaggio in treno di tredici ore, il che magari è già una coglionata, ma capita a tutti. Ho finito un giallo, ho letto il giornale, ho dormito, ho visto un film sul computer e poi mi sono messo a chiedermi quale fossero stati i tre uomini più importanti del XX secolo. Diciamo le tre menti più importanti, così non infastidiamo le donne. Vi risparmio le lunghe pensate per sapere se avessi dovuto scegliere un politico, un artista e uno scienziato, o, che ne so?, un filosofo, uno scrittore e un poeta. Insomma, ci ho pensato un po' su e sono arrivato alla conclusione che le tre menti più importanti erano state, per ordine alfabetico, Gödel, Heisenberg e Wittgenstein perché, ognuno a modo suo, aveva messo una bella pietra sopra delle certezze che ci rompevano le palle da secoli. Gödel ha fatto saltare in aria le certezze matematiche, Heisenberg quelle riguardanti la materia e Wittgenstein quelle riguardanti il pensiero. Ho molto esitato su Einstein, ma poi ho deciso di lasciarlo fuori.
Mi sono chiesto che lezione ci fosse da tirare dal fatto che quei tre fossero tutti di lingua tedesca, vedi di cultura germanica (Wittgenstein era di famiglia ebrea convertita al protestantesimo). Non ho trovato nessuna lezione, solo una vaga inquietudine.
Stamattina poi, di ritorno a casa, ho verificato su internet dove fossero nati i tre. Gödel era di Brno, Heisenberg di Würzburg e Wittgenstein di Vienna.
Non ancora soddisfatto, sono andato su Mappy (e su Michelin, tanto per essere più sicuro) per vedere le distanze tra le tre città e mi sono accorto che quello che le unisce è un triangolo isoscele: 130 km separano Brno da Vienna, 604 sia Vienna da Würzburg che Würzburg da Brno. E mi sono detto: "Cacchio! Un triangolo isoscele! E la punta superiore è la città di Heisenberg!"

 Werner Heisenberg
Ma mi dite voi che cacchio c'è da essere contenti nel sapere che Würzburg è nell'angolo superiore di un triangolo isoscele che ha Vienna e Brno negli altri due angoli? Mi spiegate perché adesso ho voglia di sapere di quanti gradi sono quei fottutissimi angoli? Mah...